L’Italia è un paese divertente e, allo stesso tempo, scontato.
Come lo sono i rumori sul “no” al referendum che provocherebbe un rialzo
dello spread tra bond italiani e bund tedeschi in modo tale da
allargare il debito pubblico.
Sono di queste ore i primi rumori, di agenzia di stampa e di servizi tv, che suggeriscono, quando non impongono, la lettura di un “no” che favorirebbe la turbolenza dei mercati finanziari, l’aumento del debito pubblico, lo sfascio del paese. Rumors divertenti, persino esilaranti, ma sicuramente scontati. Come lo erano dai tempi del referendum scozzese prima, e della Brexit poi: la borsa entra sempre tra gli argomenti del voto. Certo, rispetto ai referendum britannici, c’è quel pizzico di folkore nazional-popolare che rende tutto più divertente. Ad esempio c’è un cortocircuito interessante nella propaganda del “Si”: se i mercati davvero temono una vittoria del “No” allora vuol dire che, nonostante i proclami e i presunti sondaggi bomba, Renzi non riesce davvero a rimontare.
Il debito pubblico renziano.
Ma lasciamo perdere le speculazioni e andiamo alla realtà, sempre
trascurata in questi casi. Prima di tutto parliamo di debito pubblico.
Se aumenta non è grazie al “no” ma grazie a Renzi. A maggio, stime
Bankitalia, è stato raggiunto il picco del debito pubblico: 2.241,8
miliardi. Poi si può dire che la creatività contabile renziana ha
raggiunto nuovi livelli per cui questo debito, in documenti ufficiali
del governo, è stato, come dire, ripensato allocando alcune passività
tra le attività etc. Resta però il dato: in oltre due anni di
renzismo reale l’Italia è cresciuta di pochissimo, pochi decimali di Pil
e di ancora meno in termini di produttività, ed il debito è aumentato
toccando il record in primavera. Lasciamo i Tg e la stampa, e i
social media, a impiccarsi sui decimali, ma la sostanza è quella.
Imputare la crescita del debito al referendum, e al prevalere dei no, è
come sostenere che il terremoto nel centro Italia è causato dal crescere
del sentimento negativo su Facebook degli abitanti di quelle zone. Anche
perché il debito, negli anni più recenti, è stato tenuto a bada dalle
politiche di intervento della Bce che hanno provocato un ribasso dei
tassi di interesse sui bond italiani. Prima con politiche tipo LTRO, che
hanno permesso alle banche italiane di acquistare bond nazionali, poi
con il QE, politica che ha permesso l’acquisto diretto di bond italiani
da parte della Bce. E’ evidente però che la Bce non può acquistare
debiti all’infinito, pena l’esplosione di bolle da asset, il rigonfiarsi
eccessivo del bilancio della banca centrale e persino una sua
dipendenza dal capitale di rischio. Ecco, nelle difficoltà delle Bce,
una delle cause delle fibrillazioni della borsa italiana, fibrillazioni
che riguardano anche le banche che questi bond, oltretutto, detengono.
Il nodo BCE. Come si
vede il “si” e il “no” con gli spread non c’entrano nulla, se andiamo ad
analizzare un po’ più nel profondo, i problemi sono altri: debito
pubblico alto nonostante la propaganda renziana, impossibilità di
continuare all’infinito le politiche di acquisto dei titoli da parte
della Bce (Banca Centrale Europea), crisi delle banche italiane che
detengono bond nazionali. Certo, in queste cause strutturali la
speculazione e la guerra finanziaria, la capacità di predare risorse
liquide da paesi in difficoltà, possono dire la loro. Basta vedere il
rapporto, nel 2011, tra vendita di bond italiani da parte di Deutsche
Bank, outlook negativo da parte delle agenzie di rating e aumento dello
spread (che ha oltrepassato più volte quota 500, oltre cinque punti di
interesse sul bond che sono un’enormità).
Bisogna insistere però sul fatto che le previsioni, negative, sui bond italiani sono tutte questioni legate alle politiche della Bce.
Ancora in primavera i titoli italiani attiravano l’interesse degli
investitori a caccia di rendimento perché rendevano più di quelli dei
paesi core dell’eurozona (la curva dei rendimenti italiana non arriverà
mai sottozero come era arrivata quella tedesca) e promettevano capital
gain (guadagno in conto capitale, originato dalla differenza fra prezzo
d'acquisto e prezzo di vendita) notevoli con il restringimento dello
spread (che faceva somigliare i bond italiani ai tedeschi rendendoli
appetibili sul mercato). La quantità di Btp in circolazione era
destinata a rimanere abbondante nonostante i grandi acquisti della Bce,
essendo l’Italia super indebitata. Ed è stato quest’ultimo punto un
qualcosa davvero a favore dell’Italia in un mercato internazionale dei
bond scosso dall’incertezza. Più debito più certezza che gli
investitori, attirati dalla garanzia Bce, intervenissero da ogni parte
del globo. La rete di sicurezza così creata attorno al Btp future, un
bond pluridecennale con cedola semestrale, dava inoltre, nella
possibilità di vendere bond, una marcia in più all’Italia su Spagna e
Portogallo, che hanno i limiti dei piccoli mercati. Insomma: grande
debito nazionale, grande mercato dei bond italiani con vantaggi per
stato e investitori, finché la Bce dava sicurezze e soldi, tutto si
teneva ampiamente in equilibrio. Almeno fino a metà estate.
Spread e titoli italiani.
Arriva poi qualche segnale dai mercati: nei giorni scorsi proprio la
“marcia in più” del finanziamento dello stato italiano, i Btp future,
comincia a fare retromarcia. Milano Finanza titola “brusca ondata
ribassista sui Btp future”. E’ il segno che i titoli pubblici italiani, per cause che con il referendum non c’entrano nulla, cominciano ad andare male.
Segno serio, durante l’anno di crisi 2011, quello che portò Monti a
Palazzo Chigi con Fornero al seguito, proprio i Btp future toccarono
picchi speculativi tra luglio e settembre. C’è poi un fattore più
tecnico: la Bce per cominciare ad acquistare titoli tedeschi, come da
programma di acquisto di Draghi, aveva bisogno di un piccolo rialzo nel
rendimento di questi ultimi. Guarda caso, questo rialzo è arrivato e ha
spinto, di conseguenza, un po' più in alto gli interessi dei titoli
italiani (e spagnoli) aumentando gli spread. Come si vede anche in questo caso Renzi, Brunetta o Grillo non c’entrano nulla. C’entra il comportamento della Banca centrale, vero dominus
dell’andamento dei titoli pubblici altro che referendum. C’entrano le
necessità di Berlino, di farsi comprare un po’ di debito pubblico da
Francoforte (Bce). Anzi, se dobbiamo dirla tutta, in ottica di
austerità liberista è più Renzi a preoccupare di altri soggetti dalla
parte del “no” (come Monti). Visto che la possibile
sconfessione del fiscal compact, minacciata da Renzi e dal suo ministro
Calenda, può comportare aumenti dello spread sui mercati.
I fatti internazionali.
Ci sono poi fattori internazionali da considerare. Ma non ci riferiamo
alle elezioni americane, e nemmeno tanto alla trattativa sulla Brexit,
ma a due questioni legate ai tassi di interesse. Se la Federal Reserve
aumenta i tassi in dicembre e la Bce riduce, in primavera, i programmi
di acquisto titoli è evidente che lo spread tra bond italiano e btp può
salire. Fino a creare previsioni seriamente negative per il debito
pubblico. A prescindere da cosa accade a dicembre. Perché sono
le politiche monetarie delle banche centrali a fare le politiche di
bilancio e a fare le crisi. Oltretutto, siccome le banche centrali non
sono onnipotenti è chiaro che, qualche volta, le crisi gli scoppiano
pure in mano. Tutto questo, che l’aumento dello spread sia
moderato, come oggi, o eccessivo, come cinque anni fa, ha pochissimo a
che vedere con il teatrino della politica italiana. Diciamo che, di
sicuro, ha a che vedere più con equilibri di bilancio della Bce, con la sua
esposizione presso imprese e banche, con le ondate speculative. Certo,
queste ultime possono manifestarsi con il referendum, come con le
elezioni americane. Anche con giochetti banali come accaduto in Gran
Bretagna. Quando la notizia falsa della vittoria del Remain ha generato qualche guadagno serio e qualche perdita altrettanto seria. Ma un punto è fermo: che ci sia un rapporto tra “no” e spread è argomento a cui può credere giusto l’Unità.
Oggi ridotta a giornale del tetragono renziano reale nella cui
redazione la propaganda, quella un tanto al chilo, non va certo in
astinenza.
redazione, 3 novembre 2016
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