L'Ucraina riceverà in queste settimane una nuova tranche dei 17,5 miliardi $ stanziati nel 2015 dal FMI secondo il programma EFF (Extended Fund Facility). Le stesse fonti ucraine non sono concordi sull'esatta entità della nuova elargizione, la quarta: si era parlato di 1,8 miliardi, poi ridotti a 1,3 e ora, sembra, a 1 miliardo $, pari alla terza tranche dello scorso settembre. Secondo Ukrinform.ru, l'entità precisa si conoscerà solo dopo l'incontro tra Petro Porošenko e Christine Lagarde, al Forum di Davos del 17-20 gennaio.
A questo riguardo la faccenda si fa quantomeno curiosa. L'oligarca Porošenko ha già fatto sapere di essersi indispettito per alcune affermazioni dell'oligarca Viktor Pinčuk (occupa la quarta posizione nella classifica di Forbes, con un patrimonio di 1,2 miliardi $, sorpassando di due lunghezze il “povero” Petro, fermo a 858 milioni) e di non voler partecipare al “lunch ucraino” che Pinčuk organizza tradizionalmente a Davos nei giorni del Forum economico mondiale e in cui si discutono le “tendenze di sviluppo dell'Ucraina”. Cos'è che ha fatto stizzire il magnate travestito da presidente? Pare siano state le dichiarazioni rilasciate il 29 dicembre dal magnate media-metallurgico (nonché genero dell'ex presidente Leonid Kučma) al Wall Street Journal, secondo cui, per por fine ai contrasti tra Mosca e Kiev, l'Ucraina deve rinunciare alla Crimea e accordarsi per un congelamento del conflitto nel Donbass. Ha risposto ieri, sempre sul Wall Street Journal, il portavoce presidenziale, Konstantin Eliseev, sentenziando che non si può “esser d'accordo con l'appello al compromesso” lanciato da Pinčuk, perché “paura e debolezza sono cattive consigliere e non fanno altro che aumentare gli appetiti della Russia”. Kiev, ha scritto Eliseev, si attiene a tre punti fermi: no a un dietrofront dall'integrazione euroatlantica, che sarebbe una resa a indipendenza e sovranità; no al baratto di territori ucraini, che siano Donbass o Crimea: non si possono mercanteggiare in cambio della pace; no alle elezioni nel Donbass, finché lo stivale russo rimane sulla terra ucraina”.
Queste prese di posizione paiono anticipare, nemmeno tanto indirettamente, quelli che rappresentano qualcosa di più di semplici “timori” e che fanno il paio con la previsione dell'ambasciatore ucraino in Russia, Vladimir Kryžanivskij, secondo cui le pressioni occidentali su Kiev si faranno più forti nel 2017, soprattutto con la nomina di Rex Tillerson a Segretario di stato USA e il suo “più che pronosticabile avvicinamento alla Russia”.
Ancora a proposito di ambasciatori, il giornalista tataro Osman Pašaev, ripreso da politnavigator.net, ritiene che con la probabile nomina di Thomas Graham ad ambasciatore USA a Mosca e la sua ipotesi di una “legalizzazione” dello status russo della Crimea, in cambio della soddisfazione di alcune pretese di Kiev, anche nella leadership del Medžlis dei tatari di Crimea possano aversi dei mutamenti. Secondo Pašaev, mentre Mustafa Džemilev si troverebbe isolato nelle proprie posizioni “di principio”, Refat Čubarov potrebbe raggiungere la legalizzazione dell'organizzazione (oggi vietata in Russia) in cambio del riconoscimento della Crimea russa. E anche Kiev addiverrebbe a tale riconoscimento in cambio della libertà di attività concessa ai maggiori oligarchi – Firtaš, Pinčuk, Akhmetov, Porošenko, Kosjuk – e di compensazioni a Taruta e Kolomojskij per le loro passate proprietà in Crimea.
In questo gioco si inseriscono anche le piroette nazional-diplomatiche della ex “eminenza grigia” del battaglione neonazista “Ajdar”, Nadežda Savčenko, la quale, dopo essersi incontrata coi leader di LNR e DNR, Igor Plotnitskij e Aleksandr Zakharčenko, dopo aver dichiarato di volersi incontrare di nuovo con loro, forse anche a Kiev, ieri l'altro ha dichiarato alla radio di opposizione russa Ekho Moskvy che Kiev in due mesi avrebbe potuto vincere la guerra nel Donbass. Sarebbe stato necessario, ha detto la tiratrice scelta, “orientare correttamente la politica governativa su cosa sta accadendo e cosa si debba fare”.
E che comunque Kiev stia da tempo disperatamente tentando, non solo con le ultime batoste subite a Debaltsevo, di risolvere la questione del Donbass per via militare, lo dimostrano le provocazioni che si ripetono ormai da oltre un mese anche nei confronti del territorio russo, a partire dalle ripetute “esercitazioni” missilistiche a ridosso della Crimea, ribadite due giorni fa dal Ministro della difesa, Stepan Poltorak. A parere del deputato crimeano alla Duma, Ruslan Balbek, citato da rusvesna.su, i “collaudi” di razzi, delle artiglierie a lunga gittata e della nuova “arma-miracolosa” (non ricorda qualcosa, di una settantina di anni fa?), hanno lo scopo di intimorire la popolazione della penisola e allontanarne collegamenti aerei e marittimi. Una riedizione, istituzionalizzata, del blocco della Crimea tentato oltre un anno fa, in forma quasi artigianale, dagli squadristi di Pravyj Sektor e dagli islamisti del Medžlis. Non pare fuor di luogo pensare che le menti più acute di Kiev intendano con ciò soprattutto provocare una reazione di Mosca, prima di una paventata svolta della nuova amministrazione americana e del definitivo sganciamento dei padrini europei: il tutto, come ipotizza il corrispondente di Komsomolskaja Pravda, Igor Stešin, secondo lo “scenario georgiano del 2008”.
Non è forse un caso che, secondo novorosinform.org, Kiev stia preparando una mobilitazione in massa di ufficiali della riserva di età fino a 43 anni. Non è certo come diversivo che le truppe ucraine, a partire già dai due giorni successivi l'accordo sul cessate il fuoco, sottoscritto a Minsk il 21 dicembre, non abbiano mai smesso di bersagliare i centri abitati delle Repubbliche popolari, soprattutto le cittadine a ridosso della linea del fronte: nel 2016 sono stati 300 (tra cui alcuni bambini) i civili del Donbass morti sotto le bombe di Kiev. Solo negli ultimi due giorni, sono stati oltre 400 i tiri di mortai pesanti e artiglierie ucraine e già per la notte scorsa si parla di un altro centinaio di colpi. Nessun segno dello scambio di tutti i prigionieri (uno dei punti fondamentali degli accordi di due anni fa, mai osservato da Kiev) che Donetsk aveva auspicato prima del natale ortodosso, cioè oggi; mentre la ricognizione della DNR ha avvistato a nord di Gorlovka convogli ferroviari che portano verso il fronte carri armati, sistemi razzo “Grad”, obici semoventi da 152 mm “Acacia” e trasportati da 122 mm “D-30”.
In ogni caso, scrive svpressa.ru, la molto probabile offensiva ucraina nel Donbass, voluta da Porošenko per evitare una nuova majdan contro di lui, potrebbe risolversi a tutto vantaggio delle Repubbliche popolari che, contrattaccando, potrebbero liberare tutta quella parte del proprio territorio oggi controllata da Kiev. E la campagna anti Porošenko, già iniziata da alcuni media occidentali, come nota il politologo Eduard Popov, potrebbe trovare alimento anche nella recente decisione del tribunale moscovita, che ha definito “colpo di stato” gli avvenimenti del febbraio 2014. Dalle Repubbliche popolari, si attende la fine di barriere burocratiche russe all'importazione di prodotti da DNR e LNR e qualcuno auspica una “pulizia” nelle strutture direttive repubblicane da tutti quei funzionari ancora legati a Kiev. Così che il politologo Aleksandr Šatilov ipotizza che Mosca possa assecondare per il Donbass un “regime di semisovranità”, del tipo di Abkhazia e Ossetia meridionale e cita l'aneddoto oggi in circolazione, secondo cui Putin telefona a Trump e gli chiede “Cosa facciamo con l'Ucraina”, al che il neo presidente USA “quale Ucraina?” e Putin di rimando “Tutto chiaro; grazie Donald”.
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