La globalizzazione ha ormai un buon quarto di secolo,
ma stenta ancora ad esserci una cultura politica del tempo della
globalizzazione, se si esclude qualche accenno. Proviamo a capire
perchè.
Siamo ancora lontani dall’aver composto una “grammatica” della globalizzazione,
vale a dire del nostro tempo. Molti singoli fenomeni (dall’immigrazione
al web, dall’integrazione finanziaria mondiale alla comparsa dei
fondamentalismi, dalla affermazione di una governance mondiale
tecnocratica alla comparsa dei populismi) trovano interpretazioni più o
meno plausibili, ma sfugge la loro interdipendenza e non siamo in grado
di apprezzarne adeguatamente il quadro di insieme. I mutamenti si
succedono velocissimi e gli analisti non riescono a tenervi dietro
neanche con l’ausilio dei supporti informatici.
In tutto questo è probabile che incidano radicate abitudini
intellettuali che oggi appaiono un ostacolo formidabile per comprendere
il presente.
Ad esempio, molti fenomeni vengono minuziosamente analizzati in termini
di logica lineare nel rapporto causa effetto, che oggi non appare più
adeguata al compito di spiegare fenomeni segnati da un alto grado di
interdipendenza. Oppure si studiano le dinamiche con una impostazione
disciplinare rigidamente specialistica che impedisce, appunto, una
visione di insieme: gli economisti ignorano la politica o le dinamiche
sociali, i politologi ignorano l’economia e sanno poco di antropologia, i
sociologi non si pongono problemi di ordine finanziario e sanno poco di
storia e di geografia e tutti sono proiettati sul loro specifico
disciplinare, in questo assecondati tanto dalla struttura disciplinare
delle carriere accademiche quanto dall’organizzazione dell’industria
culturale ed in particolare editoriale.
Occorre fare un salto in avanti, lasciandosi alle spalle molte convinzioni
e riverificare molti approcci disciplinari. E forse è bene partire da
un dato poco considerato. Sin qui, la globalizzazione è stata percepita
soprattutto come integrazione finanziaria del mondo e, in effetti, il
motore finanziario è stato il principale vettore del fenomeno. Ma se
questo è vero nell’immediato, perde molto del suo significato sul lungo
periodo ed in particolare in presenza di una inedita crisi finanziaria
che, insieme ai mutamenti geopolitici intervenuti, ha ridato spazio
all’azione degli stati nazionali ed alla politica rispetto alla
finanza. Ma, soprattutto sul piano degli effetti di lungo periodo, il
mutamento più profondo non è di carattere economico-finanziario ma
culturale e psicologico, perché ha al suo centro il conflitti
identitario.
Huntington forse è stato il primo a comprendere quel che sta
accadendo, ma ha considerato solo l’aspetto del conflitto sub specie del
“conflitto di Civiltà” ed il conflitto indubbiamente c’è, ma esso è
sempre inevitabile e generalizzato? Ed in che forme occorre contenerlo?
D’altro canto, se nell’interpretazione di Huntington c’è un elemento di
verità, il suo modello presenta non pochi elementi di debolezza: come
accade che un “modello di civiltà” diventi un soggetto politico? Cosa
contraddistingue un modello di civiltà (la sua classificazione lascia
molto perplessi)? È possibile parlare di modello di civiltà come dato
omogeneo ed incontaminato? Ed in che forme si manifesta il conflitto?
Forme statuali? Ma la guerra asimmetrica è uno dei prodotti più
evidenti della globalizzazione. E poi, siamo sicuri che le civiltà
giunte a contatto fra loro, possano solo confliggere e non produrre
dinamiche di convergenza o cooperazione?
Dunque occorre costruire una “grammatica della globalizzazione”,
una cornice entro la quale iscrivere il nostro tentativo di analisi
storica del presente. E non si può capire quel che sta accadendo senza
studiare le 5c: Conflitto, Competizione, Convergenza, Contaminazione
che si sintetizzano in un’altra C onnicomprensiva: Complessità.
Del Conflitto abbiamo già accennato e ci torneremo,
passiamo alle altre C. La Competizione è una forma più indiretta e
contenuta di conflitto, è quella in cui prevale la dimensione economica,
ma non c’è solo quella (si pensi alla competizione scientifica,
culturale, di influenza ecc.). La competizione è una forma di conflitto
attenuato perché presuppone l’esistenza dell’altro da battere ma non da
debellare. Ad esempio, in economia si può competere ma sempre non
superando un certo limite perché, diversamente, non ci sarebbe un altro
che importa le merci, sottoscrive i titoli di debito, scambia moneta
ecc. allo stesso modo la competizione scientifica presuppone uno
scambio, magari ineguale, perché c’è uno che prende più di quel che dà,
o sul piano culturale, perché senza scambio non c’è influenza o
egemonia culturale. Ma lo scambio presuppone l’esistenza
dell’interlocutore che non deve essere debellato. Spesso la competizione
sfocia in una guerra, ma questo non è l’esito desiderato, perché in
guerra non si fanno buoni affari con il nemico, non c’è scambio
culturale o scientifico ecc. Dunque la competizione ci appare come uno
stato di tensione controllata.
La Convergenza è stata esaminata da Courbage sotto
il profilo demografico che esprime una tendenza a ridurre il numero dei
figli per donna ed ad alfabetizzare le nuove generazioni, per cui,
quando la soglia dei figli per donna cade sotto il 3 e la maggioranza
dei giovani è alfabetizzata, nel giro di una generazione (25 anni) si
verifica una rivoluzione che modernizza il paese. Forse c’è troppo
ottimismo in questa proiezione, ma ci sono sicuramente alcune conferme
storiche (in qualche modo, ultima, la primavera araba) e soprattutto
c’è un meccanismo per cui la globalizzazione genera convergenza: proprio
la competizione spinge gli attori a mettersi al livello del più forte,
gli scambi economici spesso attenuano le diseguaglianze, la
delocalizzazione favorisce l’accesso allo sviluppo di alcuni paesi, la
cooperazione favorisce l’integrazione di alcune economie in via di
sviluppo, l’uso di codici comunicativi comuni attenua le diseguaglianze
di livello culturale ecc. Di fatto, in una serie di attività umane si
osservano dinamiche convergenti: sicuramente i differenziali fra mondo
occidentale e potenze emergenti (in particolare Brasile, India, Cina) si
sono considerevolmente attenuati. Ma è anche vero che si sono
approfonditi (almeno per ora) quelli con altri, così come la
delocalizzazione ha favorito lo sviluppo di alcuni paesi che hanno visto
diminuire le diseguaglianze rispetto ai più forti, ma solo a presso di
un aumento a volte spaventoso delle diseguaglianze interne. Dunque un
fenomeno reale, ma non sempre univoco e meno lineare di quel che
l’ottimistica teoria di Courbage non dica.
La Contaminazione è probabilmente l’aspetto meno
studiato e meno compreso, ma forse più caratteristico del processo di
globalizzazione. Già il discorso di Huntington si presta ad una critica:
la sua descrizione del nuovo ordine mondiale, descrive i modelli di
civiltà come costruzioni omogenee e compatte. La realtà ci dice che, per
effetto dell’immigrazione, delle comunicazioni (dalle mail ad internet
ecc), del turismo di massa, della compenetrazione economica, del
meticciato sessuale ecc. ogni aggregato nazionale, e a maggior ragione
sovranazionale è una realtà assi più porosa e disomogenea di quel che
non si pensi. D’altro canto, già il colonialismo dei tre secoli scorsi
ha fortemente contaminato culture, lingue, istituzioni ecc. naturalmente
con effetti e dinamiche ben diversi per colonizzati e colonizzatori. E
questo già ci avverte di un aspetto della contaminazione: il suo
carattere diseguale sia dal punto di vista della profondità che dei
diversi strati ed aspetti. Non in ogni caso si sono verificate le stesse
dinamiche molto è dipeso dalle diverse condizioni geografiche, etniche,
demografiche, culturali di partenza, dalle diverse politiche coloniali,
dalla durata del dominio, ecc. Quasi dappertutto si è imposta la
lingua dell’occupante europeo ma con esiti molto diversi: in alcuni
contesti (ad esempio America Latina) ha sostituito del tutto le lingue precedenti, in altri (Africa occidentale e centrale, India) si è
sovrapposta alla lingua originarie, magari affermandosi come espressione
veicolare in contesti con più idiomi, in altri ancora (Indonesia, ma
anche Siria, Iraq, Libia, Eritrea ecc.) ha lasciato tracce meno
profonde e durature, in altri casi (ad es. le Filippine) la lingua del
colonizzatore originario è stata in buona parte sostituita da altro
idioma europeo. Stessa casistica potremmo fare per quanto riguarda la
religione: ci sono paesi totalmente cristianizzati, altri parzialmente,
altri solo marginalmente ed è interessante notare come ci sia, grosso
modo, una corrispondenza fra penetrazione linguistica e penetrazione
religiosa, anche se esistono rilevanti eccezioni (l’India è fortemente
penetrata dall’inglese, ma è solo limitatamente cristianizzata).
Dunque, i “modelli di civiltà” (con l’eccezione di quelli europei che
sono stati colonizzatori) non hanno quasi mai mantenuto una qualche
“purezza” delle origini e sono stati normalmente contaminati dalle
culture europee ed è interessante notare come anche i paesi che non
hanno mai conosciuto colonizzazione (Cina, Giappone, Turchia,
Thailandia) o quelli che l’hanno subita per periodi poco significativi
(Etiopia, gran parte del medio oriente asiatico) risultano in vario modo
contaminati, per effetto degli scambi commerciali, della penetrazione
missionaria, degli scambi culturali, di pur brevi occupazioni militari
ecc.
Vice versa, i paesi europei e gli Usa risultano assai meno
contaminati, proprio perché hanno avuto il loro contatto con le culture
altre in posizione di forza favorevole. C’è un particolare che illustra
molto bene questa disparità di atteggiamenti: in Europa e negli Usa
esistono discipline specialistiche definite “orientaliste” mentre nei
paesi afroasiatici non esistono discipline specialistiche definite
“occidentalistiche”, il che sottintende un valore parziale e locale
delle culture orientali, il cui studio è affidato a specialisti, mentre
le culture europee, che sono studiate sotto il profilo nazionale (ad es
esistono cattedre di letteratura Italiana, francese, spagnola o inglese)
ma non danno luogo ad uno specialismo occidentalista perché vengono
assunte come valore universale e ci sono molti meno europei che
conoscono Confucio o Li Yu di quanti cinesi conoscono Shakespeare o
Petrarca. Questo provoca effetti per certi versi paradossali, per i
quali, gli europei, che effettivamente hanno invaso militarmente ed
imposto le proprie lingue, religioni ed istituzioni in gran parte del
mondo e continuano ad invadere militarmente interi paesi, si sentono
“invasi” da pochi milioni di profughi o immigrati in cerca di fortuna,
mentre i paesi ex coloniali non si sentono affatto invasi dalle
centinaia di migliaia di studenti, missionari, istruttori militari,
commercianti ed imprenditori, tecnici, giornalisti, insegnanti, addetti
culturali ecc. ecc. che ogni anno si riversano da Europa e Stati Uniti
verso quei paesi. E non si tratta solo del diverso peso percentuale nei
confronti delle rispettive popolazioni autoctone, ma rivela un diverso
grado di apertura verso le culture “altre” fra chi è stato maggiormente
contaminato e chi è assai meno abituato a questo.
Ma soprattutto, questo approccio “universalistico” alla cultura
occidentale è , in qualche modo, l’“ombra lunga” (ed in gran parte
inconsapevole) del colonialismo, per cui l’Occidente identifica sé con
ogni modernizzazione possibile e (come rilevava già Huntington) è
portato a pensare che modernizzazione sia sinonimo di
occidentalizzazione e la globalizzazione è stata immaginata come un
immenso processo di adattamento del resto del mondo all’Occidente.
E questo, ovviamente, non ha permesso di capire molti dei processi
che stavano per innescarsi, in particolare il conflitto di identità che
in forme varie (dal fondamentalismo religioso alla violenza contro le
donne, dal neo nazionalismo all’omofobia, dalle campagne islamofobe ai
vari movimenti di “ritorno alle origini” ) si stanno manifestando sotto
una comune ispirazione integralista. Tutti i fondamentalismi portano in
sé l’immaginario di una originaria purezza da ripristinare rifiutando la
modernità, ma, in realtà, essi recano già evidentemente i segni di una
contaminazione irreversibile, che assume piuttosto il segno di una
“modernità selettiva”, per cui, ad esempio, gli islamisti accoppiano
disinvoltamente la sottomissione della donna, una visione magico
religiosa del mondo ed il Kalashnikov o il messaggio nel web.
Contrariamente alle attese di una cultura unica mondiale, la
contaminazione non sta producendo questo ma conflitti di tipo
identitario. La contaminazione si accompagna alla convergenza, ma anche
al conflitto e tutto nello stesso tempo e contraddittoriamente, perché
la base culturale non è sovrastruttura, ma struttura e reagisce al
contatto con elementi di culture altre producendo nuove sintesi.
E qui veniamo al punto finale della complessità.
Quello che caratterizza la nostra epoca è la compresenza, nello stesso
tempo e nello stesso spazio, di tendenze spesso antitetiche che
innescano effetti controintuitivi. La globalizzazione con i suoi mezzi
di comunicazioni ultraveloci ha totalmente modificato le nozioni di
tempo e di spazio rendendo tutto contemporaneo a sé stesso e provocando
reazioni in tempi millesimali, talvolta addirittura anticipate sulla
base di aspettative, con risultati imprevedibili. Questo fa saltare
del tutto le già precarie aspettative di rapporti lineari causa-effetto.
Ormai il mondo non è comprensibile con la logica lineare ed impone il
salto della complessità.
Ed a partire da questo quadro concettuale che possiamo iniziare a pensare la nostra “grammatica del presente”.
Fonte
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