Si continua a morire in Yemen. Secondo fonti locali, infatti, due
raid aerei compiuti forse dalla coalizione saudita hanno ucciso ieri 8
persone (tra queste due donne). Stando alle prime testimonianze, un
primo bombardamento sarebbe avvenuto nel distretto di Sarawah e avrebbe
colpito un taxi che trasportava un gruppo di persone proveniente dalla
capitale Sana’a. Il secondo, invece, avrebbe preso di mira i
soccorritori giunti sul posto e avrebbe ucciso cinque persone e ferito altre
tre.
Il doppio raid di ieri è solo l’ultima mattanza di questo
conflitto dimenticato dalla stampa occidentale mainstream e dalla
diplomazia internazionale. Eppure il 26 marzo scorso sono trascorsi due anni dal lancio di “Tempesta Decisiva”,
l’operazione militare in Yemen della coalizione sunnita a guida saudita
contro i ribelli houthi. Un’operazione che, secondo le previsioni di
Riyadh, sarebbe dovuto durare pochissimo: giusto il tempo necessario di
spezzare l’avanzata houthi in varie parti del Paese (in particolar mondo
nel nord, nel centro e nella capitale Sana’a). Calcoli completamente
errati: la guerra con il suo inevitabile carico di morti è tutt’altro che finita e la coalizione (in particolar modo l’Arabia Saudita) si trova invischiata in un conflitto che non riesce a vincere in un Paese ormai ridotto alla fame.
L’80% della popolazione, infatti, necessita di aiuti immediati che però
non arrivano a causa del blocco aereo imposto dai sauditi e quello
ufficioso via mare dagli Stati Uniti.
In questo clima di caos l’unica a potersi dire soddisfatta è al-Qa’eda
(con il suo ramo locale Aqap) che ha ampliato i territori sotto il
proprio controllo alleandosi, a seconda dei contesti, con tribù,
consigli locali anti-houthi e in alcuni casi, come accaduto nella città
meridionale di Aden, pare finanche con le forze governative alleate di
Riyadh.
Proprio in chiave anti-Aqap si sarebbero concentrati negli ultimi giorni i raid aerei degli Stati Uniti.
A dichiararlo è stato ieri il Pentagono. L’aviazione a stelle e strisce
– fanno sapere dal quartiere generale del Dipartimento della Difesa
tramite il loro portavoce Jeff Davis – ha compiuto 20 attacchi contro i
miliziani qa’edisti soltanto questo fine settimana. “Continuiamo a
colpire Aqap nello Yemen con l’obiettivo di fermare questa
organizzazione terroristica che rappresenta una minaccia molto
significativa per gli Stati Uniti” ha dichiarato Davis.
L’intensificazione dei bombardamenti americani nel Paese si
sta registrando in realtà già da alcuni mesi, precisamente da quando il
presidente Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca lo scorso
gennaio. Un dato lo testimonia: dal 28 febbraio si sono
registrati già più di 70 incursioni aeree americane. Con gli inevitabili
“effetti collaterali”: tre mesi fa un bombardamento americano ha ucciso
un imprecisato numero di civili yemeniti (almeno 9 erano bambini) e un
soldato delle Navy Seal. Il raid – il primo autorizzato da Trump –
generò un ginepraio di polemiche con il presidente Usa che accusò i
generali per i suoi disastrosi risultati.
Di uccisioni di civili si sono macchiati anche i piloti sauditi che, tuttavia, ieri sono stati premiati dal loro governo con un aumento dei salari del 60%.
Riyadh, secondo quanto riportano alcune agenzie di stampa saudite, ha
deciso di aumentare gli stipendi più del 35% previsto inizialmente. Non
sono i chiari i motivi dietro questa scelta, né è stata fornita
un’indicazione su quanto potrebbe ammontare la loro paga. Tuttavia, è
facile immaginare che questa decisione è frutto della volontà del regno
wahhabita di incoraggiare chi sta combattendo in Yemen. La disposizione,
inoltre, fa il paio con quella dell’anno scorso quando i soldati in
attività erano stati esentati dai tagli alle ferie annuali e ai bonus.
Il provvedimento è ancora più interessante se si pensa che l’Arabia
Saudita, per via di una strisciante crisi economica, ha messo in atto da
tempo alcune misure di austerity (riduzioni dei sussidi statali,
saudizzazione del lavoro) che hanno avuto conseguenze immediate per le
tasche dei sudditi.
Si è conclusa, intanto, domenica la disavventura di cinque
membri dell’International Medical Corps e di due autisti che erano stati
rapiti dagli houthi. Secondo quando riferisce la ong
americana, i sette erano in un hotel della provincia centrale di Ibb
quando sono stati prelevati dai ribelli sciiti. L’organizzazione non
governativa – che sul suo sito afferma di fornire un aiuto alle famiglie
rimaste a Sana’, Ibb, Taez, Aden e Lahi ed è attiva nel Paese dal 2012 –
non ha precisato dove sono stati portati i suoi operatori, né ha
fornito i dettagli sul loro rilascio.
Non termina, invece, l’incubo siriano. Almeno 35 civili (tra
questi 9 bambini) sarebbero stati uccisi stamattina in un raid
governativo. A riferire la notizia è l’Osservatorio siriano dei
diritti umani (Osdi), ong di stanza a Londra e vicina all’opposizione.
Secondo l’Osdi, l’attacco è avvenuto nella cittadina di Khan
Sheikhun (nella provincia di Idlib, sotto il controllo dei “ribelli”) e
sarebbe stato compiuto con del “gas tossico”. Il raid, sostiene
l’Osservatorio, avrebbe provocato il soffocamento e lo svenimento di
molte persone, alcune delle quali avrebbero vomitato schiuma dalla
bocca. Il quotidiano libanese in lingua francese L’Orient-Le Jour parla di 58 vittime.
La Coalizione nazionale punta il dito contro il governo di Bashar al-Asad e chiede l’apertura di un’indagine da parte dell’Onu.
Alcuni attivisti parlano esplicitamente di uso di gas clorino. Altri,
invece, sostengono che i sintomi riportati dalle vittime sono
caratteristici del gas Sarin. Damasco ha ceduto le sue riserve di Sarin
dopo un’intesa tra Russia e Usa in seguito ad un presunto attacco
chimico governativo avvenuto nell’area orientale di Damasco nel 2013 in
cui sarebbero morte centinaia di civili. Il governo ha sempre negato di
aver usato materiali chimici e ha accusato i “ribelli” di aver
utilizzato armi illegali.
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