03/04/2017
Trump alla guerra commerciale. Finisce l’epoca aperta da Nixon
Non sembra che i media e tantomeno la classe politica italiana abbiano colto la portata della dichiarazione di guerra commerciale lanciata dall’amministrazione Trump. Forse abbagliati – e intellettivamente disturbati – dal fuoco d’artificio continuo che fuoriesce dalla Casa Bianca, gli osservatori sono portati ad occuparsi soprattutto dell’ultima sortita, specie se questa è facile da spiegare a un pubblico sempre meno avvezzo a considerare criticamente la pietanza informativa che gli viene ammannita.
Era già accaduto a tutto l’establishment italico con l’avvento di Berlusconi, al punto da perdere di vista i guasti effettivamente rilevanti portati al sistema istituzionale e produttivo di questo paese per concentrarsi quasi esclusivamente sugli scandalettii di una condotta privata ben poco presidenziale...
Così quasi nessuno ha prestato vera attenzione alle parole con cui Wilbur Ross, attempato (79 anni) segretario al commercio, miliardario in proprio, ha spiegato la firma di altri due ordini operativi con cui Trump ufficializza una fase completamente nuova nelle relazioni commerciali globali. Il primo ordine affida al Dipartimento del Commercio il monitoraggio delle pratiche che contribuiscono al deficit commerciale degli Stati Uniti (si attende un rapporto tra 90 giorni); il secondo dispone di aumentare i dazi antidumping e compensativi, istituendo dunque tariffe protezionistiche sulle importazioni straniere, soprattutto per quanto riguarda «acciaio, chimica, agricoltura, macchinari».
Fin qui staremmo all’ordinaria amministrazione di una presidenza protezionista, ma non particolarmente “innovativa”. I dazi, infatti ci sono da sempre, anche se negati a parole in favore del “libero commercio”. Non c’è praticamente paese che non ne preveda per determinati prodotti e nei confronti delle merci provenienti da determinati paesi. Proprio la riduzione (non l’abolizione) dei dazi è stato il tema delle riunioni del Wto nei due decenni seguiti alla caduta dell’Unione Sovietica. A proposito, qualcuno sa che fine abbia fatto questa in-gloriosa istituzione sovranazionale?
Di libero commercio, nei fatti, non si parla più da anni, se non sulla stampa che deve diffondere ideologia e nei discorsi ufficiali dei presidenti del consiglio (come Gentiloni, due o tre giorni fa). Dov’è dunque la novità di Trump? Lo spiega per l’appunto Wilbur Ross: «Siamo in una guerra commerciale. Ci siamo da decenni, da 45 anni; l’unica differenza è che ora le nostre truppe stanno finalmente alzando le difese. Non siamo finiti in un deficit commerciale per caso».
Cos’è accaduto 45 anni fa o giù di lì? Nell'agosto 1971 Richard Nixon aboliva motu proprio, senza alcuna trattativa con i partner globali, la convertibilità dell’oro in dollari a parità fissa (1 grammo per un dollaro); ovvero il gold exchange standard che aveva retto il sistema dei cambi del dopoguerra. Con quella mossa gli Stati Uniti lasciavano teoricamente il dollaro libero di fluttuare, come moneta tra le altre. In realtà si prendevano la libertà di inondare il mondo di dollari senza che si potesse più rintracciare un qualche rapporto tra la quantità di moneta emessa (“stampata”, si usa dire) e un corrispettivo in oro.
Nessuna altra moneta poteva godere, infatti di una posizione così unica, assommando in sé tre funzioni-chiave: a) unità di misura negli scambi internazionali (tutti i prezzi delle materie prime sono ancora oggi in dollari); b) moneta di riserva (“quasi oro”) tesaurizzata da banche, società e persone; c) moneta circolante sul mercato interno e su quello globale, accettata da chiunque.
Da allora in poi il “modello di sviluppo” statunitense assumeva consapevolmente il deficit negli scambi commerciali come nuova normalità, fidando nella funzione del dollaro (stampabile a volontà) e nella potenza del proprio dispositivo militare. Per le multinazionali Usa i profitti non venivano cercati più tanto in casa, ma nei paesi emergenti, a salario quasi zero; e nella finanza, che assume da allora proporzioni inconcepibili. Come si è detto per decenni, compravano merci reali e le pagavano con pezzi di carta colorata...
Condizione invidiabile, certamente. E unica. Perché Trump, apparentemente, dovrebbe rinunciare a questa posizione privilegiata degli Stati Uniti? Certo, pesa la disoccupazione interna (circa 100 milioni di persone), perché la produzione interna è diventata sempre meno conveniente, tra forza del dollaro e delocalizzazioni. Ma pesa anche la concorrenza dell’euro e e del renminbi cinese come moneta di riserva (per quote molto inferiori, ma in crescita costante), se non altro per problemi geopolitici. E non è da sottovalutare la minore credibilità degli Usa come dominus militare del mondo. Diciassette anni di conflitto in Afghanistan, 14 in Iraq, altri teatri di guerra aperti e mai chiusi, stanno lì a dimostrare che l’esercito più potente del mondo può magari distruggere lo Stato di un paese, ma non governarlo. Nemmeno se piccolo e arretrato.
Come aveva lucidamente scritto Gianfranco Bellini (La bolla del dollaro, Odradek) la circolazione del dollaro ha man mano assunto le dimensioni di una bolla planetaria incontrollabile; che sarebbe ovviamente dovuta esplodere, prima o poi, anche se nessuno poteva predirne la data con certezza. Le recenti politiche monetarie ultra-espansive della Federal Reserve hanno ulteriormente gonfiato questa bolla per qualche anno, al ritmo di 80 miliardi al mese. Vi si aggiunga il “sistema bancario ombra”, quello dei prodotti finanziari derivati denominati in dollari, creati e impacchettati da banche d’affari che hanno una potenza di fuoco superiore a quella di quasi tutti i governi nazionali...
Una montagna di carta che permette di distruggere economie, così come bombardamenti e droni distruggono eserciti e infrastrutture di stati. Ma non ne costruiscono una. Tantomeno governano davvero quella globale.
La svolta di Trump – quella vera, non ancora analizzata e non compresa – è questa. La guerra commerciale globale va a sostituire il libero mercato globalizzato; la guerra delle monete verrà combattuta allo scoperto; la “competizione” internazionale ha bisogno di una popolazione che goda di qualche frutto, per quanto scarso. Non è protezionismo: è guerra globale.
Nel commercio, per ora.
P.S. L'elezione di Hillary Clinton avrebbe probabilmente invertito i fattori: prima la guerra militare contro altri stati (l'escalation con la Russia è montata negli ultimi mesi della presidenza Obama). Poi quella commerciale globale. E' quasi matematica: cambiando l'ordine dei fattori, il prodotto non cambia.
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