28/05/2020
Dove il film di Michael Moore sbaglia
Michael Moore è stato un dissacratore e, contemporaneamente, un comunicatore spesso convincente. Per chi ha visto i bellissimi Roger and Me (1989) e Bowling for Columbine (2002) è spiacevole e difficile da capire perché il regista americano avvalli e promuova oggi un film come The Planet of the Humans, che deve il proprio successo mediatico allo shock di vedere il brand liberal di Moore piegato a sostegno di tesi fino ad oggi appannaggio grossolano della destra repubblicana.
Parto da un giudizio molto severo, ma il film – che in poche settimane ha registrato oltre 8 milioni di visualizzazioni – ha destato un forte scompiglio nel movimento ambientalista e nell’opinione pubblica americana, mentre ha trasformato i tre produttori – Jeff Gibbs, Michael Moore e Ozzie Zehner – in gettonate presenze su media outlet, non certo noti per le loro posizioni progressiste o ambientaliste (Fox, The Hill, Sky News).
Spiace che in una fase storica di profonda e perfino drammatica revisione del rapporto fra uomo, tecnica e natura, il documentario sia principalmente dedicato alla battaglia “irrimediabilmente perduta” dell’ambientalismo e a lasciare intendere che il successo delle fonti rinnovabili sia dovuto agli interessi di Wall Street, mentre poco si possa fare per sostituire le fonti fossili, responsabili dell’accelerazione del cambiamento climatico. Non è certo il movimento ambientalista a difendere il modello dei venture capitalists americani e la bolla speculativa da loro creata nella seconda metà degli anni 2000, che ha bruciato piú di dieci miliardi di dollari in progetti azzardati come la centrale termodinamica di Ivanpah finanziata da Google, o la Kior di Vinod Khosla di cui si parla nel film. O la Solar City e la Tesla di Elon Musk, esempi magistrali e controversi di crescita speculativa a debito, su cui però Gibbs preferisce sorvolare per attaccare la Chevy Volt di General Motors. Un modello poco interessato a perseguire l’obbiettivo di impiegare fonti naturali decentrate, governate sul territorio, integrate nei cicli naturali il più possibile e, quindi, utili a frenare il brusco cambio climatico in corso.
In effetti, gli impianti rinnovabili presi ad esempio – in alcuni Stati chiave degli USA – sono inefficienti (tecnologie messe in opera decenni addietro) o assomigliano del tutto alle centrali puzzolenti da rimpiazzare, con un consumo di suolo, materia ed energia che è in contraddizione con l’approvvigionamento da vento o sole, diffusi ovunque in natura, intermittenti sì, ma oggigiorno stoccabili sotto forma di energia elettrica convertita ad alti rendimenti. Un obbiettivo tutt’altro che inesplorato soprattutto in Europa, ma anche e sempre di più in Asia e Africa e assai meno negli Stati Uniti di Trump. La questione va ben oltre il successo o meno di una pellicola costruita con maestria e quindi da vedere e discutere: si tratta altresì di sostenere o affossare l’unico modello a disposizione al presente, ove fosse abbinato ad un drastico risparmio, per spalmare su scala planetaria una “sufficienza” energetica che consenta di sopravvivere all’intera biosfera, senza sacrificare gli scarti – umani e no – alle pandemie, alle guerre, ai respingimenti dai propri confini e alle catastrofi provocate dall’innalzamento della temperatura.
Gibbs e Zehner (l’esperto) di tutto questo non si curano. Planet of the Humans fa disinformazione e dispensa tesi scorrette, volte a sostenere che la transizione energetica e la sostenibilità siano un’illusione se non addirittura una cospirazione dell’establishment. In una delle scene centrali del film Zehner si fa intervistare da Gibbs e parla del processo di formazione del silicio metallurgico, uno dei materiali precursori nella produzione di celle solari. Descrive come sia un processo industriale in una fornace ad alta temperatura che consuma energia ed emette CO2, per concludere tout-court che le rinnovabili inquinino quanto le fonti fossili. Basta l’analisi del ciclo di vita delle rinnovabili per confutare il colpo gobbo: per i pannelli fotovoltaici infatti sono oggi necessari tra gli 1.5 e 2kWh/Wp per la produzione di un sistema solare connesso alla rete elettrica. A seconda di dove venga installato il sistema, ci vorranno tra i 9 ed i 24 mesi per produrre in uscita la stessa quantità di energia immessa nella fabbricazione, a fronte di una vita media di 30 anni dell’impianto. L’emissione di gas serra che ne risulta, anche tenendo conto di un mix energetico ‘sporco’ come quello della rete elettrica cinese, varia tra i 15 ed i 50gCO2 per kWh prodotto, a fronte di 800-1200gCO2/kWh per le fonti fossili. Quindi, dove sta il problema e perché mai proporci le stucchevoli riprese dei generatori diesel a supporto degli amplificatori delle band alimentate a pannelli nei raduni ecologisti?
Il problema, forse, è che le banche non guardano più con molta fiducia al sistema industriale esistente che consuma risorse, produce e distribuisce elettricità in maniera insostenibile, produce pesticidi per l’agricoltura, impone una mobilità indifendibile nei suoi sprechi e ha trasformato gli Stati Uniti nel primo esportatore al mondo di olio e gas di scisto altamente inquinanti, semplicemente perché questo modello di sviluppo – il Modello Americano – è in crisi e rappresenta un fattore di rischio finanziario elevato. I Bloomberg, i Blood, i Buffet e i Fink sono capitalisti, e se si interessano (un po’) alle rinnovabili è per opportunismo; diversificano non certo perché si siano convertiti all’ecologismo. Qui, però, c’è il corto circuito. Perché – per usare l’immagine di Roger and Me – è come se Moore tracciasse un parallelo tra lo sviluppo delle energie rinnovabili e le fabbriche messicane in cui General Motors andava a delocalizzare la produzione negli anni ’90.
I casi discussi in dettaglio in The Planet of the Humans non sono certamente difendibili nei loro eccessi, ma per fortuna non sono altro che i tentativi più datati e meno rappresentativi delle tendenze con cui è possibile già ora progettare una transizione energetica che sia democraticamente governata e a minima entropia. Il pensiero ecologista ha fatto molti passi avanti rispetto a dove lo vorrebbe il film e, per buona sorte, li ha compiuti al di fuori delle lobby che dominano il mondo finanziario, esibito nel filmato come l’alleato da esorcizzare. Lo spostamento da grandi centrali nucleari o a combustione verso impianti più decentralizzati e più vicini al luogo di fruizione dell’energia prodotta, saranno sempre più diffusi, sia per ragioni ambientali, sia per l’insostenibilità intrinseca e la scarsa sicurezza delle reti a lungo raggio. Parrà strano, ma perfino la pandemia in corso contribuisce a spezzare una lancia in favore di sistemi distribuiti e soggetti a minore manutenzione che, è importante notarlo, già oggi iniziano a fornire continuità e flessibilità nella fornitura di energia pulita a costi competitivi: si pensi che in queste settimane Renew Power, una compagnia indiana, ha vinto una gara per fornire energia elettrica rinnovabile 24ore x7 giorni, con un mix di solare, eolico, idroelettrico e accumulo, a 4 cents/kWh, contro un costo dell’elettricità generato dai combustibili fossili che su scala regionale varia da 5 a 17 centesimi di dollaro per kWh!
È in atto una lenta ma costante crescita di consenso intorno all’approccio di una ecologia integrale, opposto a quello di un “green washing”, anche perché ha il suo presupposto e fondamento nella giustizia sociale. Un sentire che la stessa dinamica della pandemia ha fatto crescere, assieme al bisogno di cura, consolidando una coscienza popolare che constata come «ogni cosa sia legata a tutte le altre» – per dirla con Barry Commoner (1970!) – o che tutto è interconnesso fin dal tempo più remoto e che perciò «niente di questo mondo ci risulta indifferente» per dirla con la Laudato Sì (2015!). Riconoscere la stretta relazione di interdipendenza fra uomo, vivente, natura e universo sotto la lente specifica dell’energia, significa riuscire a produrre, consumare, vivere e muoversi consumandola secondo lo spazio e il tempo dei cicli naturali rigenerabili, anziché bruciando in una caldaia e in un baleno il lavoro che i raggi solari hanno depositato nei millenni nelle viscere della Terra.
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