Nasi all’aria con mascherine sul gargarozzo, bruciati sotto il sol leone, mancanza di ombrelloni, gabbioni chiusi e litigate per il possesso temporaneo di un pezzo di scoglio all’ombra e, dulcis in fundo, battuta di caccia a chi trova uno spicchio di spiaggia libera.
Questa in sintesi sarà l’estate caldissima degli italiani sotto l’egida dell’epidemia del corona virus. Afferma il governo, per voce del leader maximo, che: “Dobbiamo imparare a convivere con il virus”. Pertanto il covid-19 ci seguirà come un’ombra in qualunque posto andiamo per tutta la calda estate, pronto a colpirci in ogni momento. Ma cosa potrà rendere questa estate tollerabile, anche se imprigionata dentro la camicia di forza delle disposizioni anti contagio, scanner, applicazioni per cellulare, telecamere, che ci impongono di stare a distanza gli uni dagli altri di quasi due metri, di evitare di toccarci naso, bocca e occhi e di lavarci le mani in ogni momento della giornata come se fossimo un nevrotico ossessivo compulsivo? Forse una magica parola che celebra la natura nelle sue bellezze estive parlando di mare, di monti di agriturismi e di fiere e sagre? Ma certo! Eccola, è l’estate. Estate che come la giovinezza è da sempre nei sogni e nelle speranze italiche, che vogliamo sempre lunga, bella, calda e serena. Liturgia stagionale, consuetudine, che spinge a godersi la vita e la bellezza naturale e artistica. Conformismo consumista disposto a pagare per avere beni naturali come il mare che dovrebbe essere libero e comune, senza limiti di esclusiva, magari pure attrezzato, di libero accesso, senza biglietti d’ingresso o cancelli che ti sbarrano il passo e custoditi da corpulenti bagnini. Questa è una vecchia storia su cui la sinistra da qualche tempo ha mollato la presa. Ogni tanto è vero, riemerge la parola “bene comune” ma di solito in inverno, quando piove e fa freddo, forse per riempire contenitori politici esauriti e a corto d’idee che hanno abdicato all’egemonia del pensiero unico che ha reso tutto privato e usufruibile a pagamento.
Il fatto è che quest’anno purtroppo sono molti quelli che non mangiano, troppi, lasciati soli, ubriacati di promesse e di parole di uno stato che è incapace di far fronte a questa mazzata che ci ha colpito forte tra capo e collo, spezzando ogni speranza di un cambiamento migliore del paese. Se le indisciplinate movida di queste settimane ci testimoniano un basso livello di responsabilità civica di molti compaesani, il vertice economico-politico non fa meglio, anzi, peggio di così non ci poteva capitare. Si continua a navigare a vista.
Le aperture sono state decise in sostanza al buio come se si stesse giocando a un tavolo di poker, senza aver avuto alcun dato epidemiologico complessivo dalle regioni, né tanto meno si è dato fede agli ammonimenti dei medici che consigliavano di procedere con calma con aperture selettive, previo riscontro con un corretto sistema di monitoraggio dei territori e di tracciamento dei contagi in tempo reale. Sono queste tutte cose rimaste indeterminate e forse ancora tutte da mettere in piedi e da collaudare.
La grande paura con le sue 33.000 morti niente ci ha insegnato. La solidarietà si è subito liquefatta all’arrivo dell’estate nel mare dell’individualismo, dell’egoismo e del risorto consumismo. La nostra astinenza dalle merci inutili si è rifatta viva più forte che mai. Il feticismo ha celebrato il suo trionfo nelle file ad acquistare biciclette, nei supermercati, nei tablet per la didattica a distanza.
Abbiamo visto una scuola che il virus ha mandato in coma bruciando un intero anno scolastico, le richieste assurde di prestiti assicurati da garanzie governative ad imprese che risiedono all’estero per pagare meno tasse ma che si scoprono italiane solo in questi momenti e usano i lavoratori come scudi umani a protezione dei loro interessi di bottega, ponti che vengono giù come birilli mentre si incassano miliardi di euro in pedaggi, mentre milioni di persone non hanno ancora visto una lira e si ritrovano in coda alla Caritas o al monte di pietà per mangiare un pezzo di pane o per pagare bollette che nonostante tutto continuano ad arrivare in barba alle belle promesse, i 500.000 posti di lavoro abbattuti dal corona virus per il blocco di molte attività di lavoroeconomiche, i bilanci anemici dei comuni indeboliti ancora di più dal diminuito introito fiscale per la chiusura di molte imprese sui territori. In tutto questo la cosa che stupisce è lo strano silenzio da biblioteca che si respira, il grado zero di protesta delle piazze.
È il calmo silenzio che precede l’estate e ci spaventa e ci lascia con un velo di dubbio e di sospetto, preoccupati per quello che potrebbe accadere in autunno, se si continua a far finta di niente e a non risolvere i problemi. Prevalgono l’assurda speranza nella provvidenza, il dominio di un potere burocratico che tutto ingabbia, mentre il sistema bancario fa lo gnorri di fronte alle richieste d’aiuto di persone e imprese in serie difficoltà, lasciando terreno libero alle mafie e all’usura.
Credere che tutto ritorni come prima è un limpido sogno, un’illusione, un miraggio, ma è veramente da folli ragionare che le cose possono aggiustarsi da sole. Qui occorre muoversi subito, velocemente, collettivamente, con una prassi partecipativa dal basso che faccia da motore di avviamento per fabbricare un programma minimo di cambiamento e compatti un fronte di resistenza a sinistra in grado di occupare gli spazi dell’agire politico. Altrimenti potrebbero emergere pastori di greggi che cavalcando l’onda della crisi spingeranno il paese, con lacrime e sangue, a destra in bocca ai mercati con la nostra maxi dote di 2431 miliardi di debito pubblico e a cui si aggiungeranno i 172,7 miliardi di Recovery fund.
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