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24/05/2020

Convergenze Mediterranee

È da poco uscito, per i tipi di Meltemi, “Un progetto di liberazione. Repubblica, sovranità, socialismo”, un libro di Manolo Monereo e Hector Illueca. Monereo, militante del PCE, imprigionato e torturato durante la dittatura, ne viene espulso per le sue critiche all’atteggiamento arrendevole del partito nella transizione democratica. A metà degli anni '80 aderisce a Izquierda Unida, di cui diventa uno dei massimi dirigenti sotto la gestione di Julio Anguita (da poco scomparso). Successivamente è consulente per i governi progressisti dell’America latina prima di ritornare in Spagna, dove aderisce a Podemos e viene eletto deputato per la circoscrizione di Cordoba. Nel 2018 decide di non ricandidarsi, in dissenso con la proposta di formare un governo di coalizione fra Podemos e il Psoe. Illueca è ispettore del lavoro e professore di diritto del lavoro, attuale deputato di Unidas Podemos eletto nella circoscrizione di Valencia. Queste scelte differenti sono il motivo per cui l’analisi della recente storia politica spagnola dei due autori si ferma al 2018, in quanto non avrebbero potuto esprimere giudizi condivisi sull’operato del governo Sanchez – Iglesias. Il testo che segue riproduce, quasi integralmente, quello della mia Introduzione al libro.

Gli scritti contenuti in questo volume ci aiutano a capire in che misura le sfide che il popolo spagnolo si trova oggi a fronteggiare somiglino a quelle con cui anche noi italiani dobbiamo fare i conti. Ma soprattutto ci aiutano capire che, per affrontarle, dovremo liberarci di quelle che Monereo e Illueca chiamano “idee zombie”, riferendosi a concetti come globalizzazione, europeismo, mondo senza barriere e confini, idee “impossibili da uccidere perché l’immaginario sociale continua a rimanere ancorato al passato”. Compito tutt’altro che agevole, ove si consideri che le élite politiche e culturali mainstream presentano questi cadaveri ambulanti come il non plus ultra del nuovo e della modernità, ritorcendo contro chi li critica l’accusa di essere nemici del progresso, nostalgici di un’epoca irreversibilmente tramontata o, per citare gli insulti preferiti dalle sinistre “radicali”, populisti, sovranisti, “rossobruni”[i]. Ma procediamo con ordine.

I. Dalla prima alla seconda globalizzazione

Non è la prima volta che il sistema capitalista accarezza il sogno di un mondo senza barriere, aperto ai flussi globali di capitale, merci e persone. Alla fine del secolo XIX il pianeta viveva la sua prima grande globalizzazione, alimentata da una serie di innovazioni tecnologiche nel campo delle comunicazioni e dei trasporti, che consentirono di accelerare la circolazione di merci, denaro e capitali. Un mondo che gli apologeti del capitale dipingevano come “pacificato” dagli scambi commerciali.

Ma, ricordano Monereo e Illueca, la pace è durata solo finché ognuna delle potenze occidentali è riuscita a saziare la propria sete di profitto attingendo a una quota del bottino generato dal saccheggio dell’Occidente nei confronti dei popoli coloniali. È in questa prima fase del capitalismo monopolistico, che si è consolidata la divisione del mondo in due sfere: da una parte un centro industrializzato, dall’altra una periferia sottosviluppata che fornisce al centro materie prime e riserve inesauribili di forza lavoro a basso costo. Tuttavia, sotto la superficie apparentemente tranquilla di un Occidente che scarica la sua aggressività omicida lontano dai propri confini, si agitano tensioni crescenti: una classe operaia sempre più forte, combattiva e organizzata che, attraverso una serie di lotte culminate con la Rivoluzione russa del 1917, suscita lo spettro del comunismo; una concorrenza sempre più feroce fra potenze imperiali, che i possedimenti coloniali non bastano più a placare; un  crescendo di crisi finanziarie (sintomo di più profonde contraddizioni strutturali) che culminerà nel disastro del 1929.

Nella prima metà del Novecento la grande anomalia della società capitalista – l’unica, come argomenta Polanyi[ii], che abbia trasformato lavoro, terra e denaro in altrettante “merci fittizie”, mettendo l’economia e il mercato al centro di ogni attività umana  – presenta il conto. Un conto sanguinoso fatto dei milioni di morti delle due guerre mondiali e di immani distruzioni di merci, capitali e infrastrutture. Dalla catastrofe, ricordano Monereo e Illueca, si esce con la svolta di Bretton Woods e con la generalizzazione delle strategie keynesiane, che promuovono crescita e occupazione attraverso politiche monetarie e fiscali espansive e il controllo sui flussi di capitale tramite cambi fissi ma regolabili. È la grande trasformazione annunciata da Polanyi, iniziata con il ritorno dello Stato e del controllo politico sull’economia imposto dai regimi fascisti e socialisti e proseguita, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, con il compromesso fordista fra capitale e lavoro.

La fine di questa lunga parentesi, chiusa dalla controrivoluzione neoliberista dei primi anni Ottanta, che decreta la fine del keynesismo e inaugura la liberalizzazione selvaggia dei movimenti di capitale avviando la seconda globalizzazione, non è solo dovuta alla contrazione del saggio di profitto eroso dalla forza contrattuale delle classi subalterne, dalla crisi petrolifera e dalla crisi fiscale dello Stato: è anche e soprattutto frutto dell’inversione di rotta degli Stati Uniti, pressati dalla crescente concorrenza di Germania e Giappone e appesantiti dai debiti generati dalla guerra del Vietnam, la loro prima sconfitta militare dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro decretata da Nixon nel 1971, gli Stati Uniti mandano in soffitta gli accordi di Bretton Woods e preparano le condizioni della liberalizzazione dei mercati finanziari. La globalizzazione che le élite politiche, economiche e mediatiche presentano oggi come l’esito di un processo “naturale” delle “leggi” del mercato, l’approdo irreversibile a un’economia mondiale aperta e integrata che annuncia la nascita di una nuova comunità universale, destinata a unificare costumi e norme delle differenti nazioni, non è altro che l’estremo tentativo degli Stati Uniti di conservare la propria egemonia, di fare del XXI un nuovo secolo americano.

Gli effetti di questa mossa strategica sono sotto gli occhi di tutti: l’economia del XXI secolo somiglia incredibilmente a quella del XIX. Concentrazione spaventosa della ricchezza, progressione geometrica delle disuguaglianze fra classi, etnie, popoli e generi;  sovraproduzione e sottoconsumo, economia del debito privato (finanziarizzazione della vita quotidiana); drastica riduzione della spesa pubblica, smantellamento del welfare e deregolamentazione del mercato del lavoro (la capacità contrattuale del proletariato occidentale si dissolve nel momento in cui ogni tentativo di limitare i benefici alle imprese e difendere i livelli di protezione sociale fa sì che la produzione si sposti verso luoghi più accoglienti per il capitale); una crisi ecologica sempre più drammatica che minaccia le stesse condizioni di convivenza fra la specie umana e il pianeta. Prima di analizzare le reazioni della società civile alla catastrofe, di quello che potremmo definire come un nuovo “momento Polanyi”, occorre però richiamare il modo in cui Monereo e Illueca applicano il loro modello interpretativo al caso europeo.

II. La Ue come paradigma della relazione centro-periferia

Per comprendere quale forma specifica la globalizzazione neoliberista abbia assunto in Europa, vanno chiarite due cose. La prima: negli anni Settanta il processo di decolonizzazione dei Paesi del Terzo mondo sembrava compiuto ma, come spiega Samir Amin[iii], il colonialismo non è affatto finito, più semplicemente ha abbandonato la forma classica dell’occupazione territoriale per assumere quella dell’espropriazione sistematica di risorse dei Paesi del Nord del mondo nei confronti di quelli del Sud; un dispositivo fondato sull’economia del debito pubblico governata dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e sull’asservimento delle borghesie nazionali che, da guida delle lotte di liberazione, si trasformano progressivamente in agenti al servizio dell’imperialismo occidentale. Un destino cui riescono a sottrarsi solo due grandi potenze emergenti come la Cina e l’India.

La seconda: la relazione centro-periferia descritta dai teorici della dipendenza[iv] non si applica solo ai rapporti fra Paesi occidentali e Terzo mondo, vale anche all’interno del territorio europeo. Già il nazismo, come chiarito da Domenico Losurdo[v] e come ricordano a loro volta Monereo e Illueca, aveva tentato di colonizzare gli altri Paesi europei, a partire da quelli dell’Est, per impadronirsi delle loro risorse e ridurne in schiavitù la forza lavoro, proponendo, di fatto, la continuazione della politica coloniale occidentale sul territorio europeo. Altri due esempi di colonizzazione interna allo spazio europeo sono quelli dell’unificazione italiana del 1861[vi] e di quella tedesca del 1990, due processi che hanno assunto il carattere di vere e proprie annessioni delle regioni deboli dei due Paesi da parte delle regioni dominanti sul piano economico e politico.

Ecco perché, scrivono Monereo e Illueca, “L’apparato concettuale della teoria della dipendenza risulta imprescindibile per comprendere l’autentica natura del progetto europeo”, nella misura in cui il processo di costruzione della Ue presenta caratteristiche del tutto simili a quelle del processo di subordinazione dei Paesi ex coloniali alle nuove potenze imperiali. Come ha drammaticamente dimostrato il caso della Grecia, gli “aiuti” ai Paesi indebitati garantiti da dispositivi come il MES, svolgono esattamente lo stesso ruolo dei procedimenti del FMI che servono a imporre la legge dell’economia del debito, mentre le borghesie dei Paesi periferici dell’Est e del Sud Europa svolgono nei confronti della nazione egemone, la Germania, esattamente lo stesso ruolo delle borghesie compradore dei Paesi ex coloniali. Nella terminologia gramsciana, scrivono Monereo e Illueca, si potrebbe dire che le classi dirigenti dei Paesi periferici, includendo la destra, la sinistra e gli stessi sindacati, sono una “lumpen-oligarchia” che si comporta “come il partito dello straniero che garantisce la subordinazione e l’assoggettamento economico alla potenza egemonica nello spazio europeo”.

La costituzione materiale della Ue coincide con il Trattato di Maastricht e successivi accordi come il Fiscal Compact, che hanno costituzionalizzato le politiche neoliberali per sottrarle al dibattito democratico, instaurando uno stato di eccezione in cui i poteri reali sovvertono lo stato sociale di diritto e pervertono l’idea stessa di democrazia. Trova così attuazione il sogno di von Hayek, il quale vedeva nella realizzazione di uno spazio sovranazionale fondato sui principi dell’ordoliberalismo la chance di instaurare una separazione radicale fra politica ed economia, che avrebbe sradicato qualsiasi possibilità di  interferenza popolare nello sviluppo del libero mercato. Ma l’egemonia tedesca non è frutto di un’imposizione, bensì della rinuncia spontanea dei Paesi periferici alla propria sovranità, nella misura in cui “la Germania fa il lavoro sporco che nessuna borghesia del Sud Europa potrebbe realizzare da sola, in cambio le viene garantito il predominio economico e la supremazia politica”. A prescindere dalla peculiarità europea del processo di globalizzazione neoliberista, i suoi effetti sono identici a quelli che tutti i cittadini occidentali sperimentano sulla loro pelle: si attenua la frontiera tra lavoratori precari, disoccupati e fissi; i lavoratori a tempo indeterminato, i pensionati e i funzionari pubblici si percepiscono come privilegiati, detentori di un “privilegio” che appare tuttavia minacciato da future riforme del lavoro, dalla insicurezza sociale generalizzata, dalla paura ambientale, dalla sfiducia. Il futuro non è più prevedibile né, tantomeno, controllabile. Tutte le condizioni di un nuovo momento Polanyi sono dunque largamente presenti.

III. Dal populismo alla costruzione di un nuovo soggetto politico della trasformazione

In tutto il mondo stiamo oggi assistendo a “un’insurrezione plebea e nazional-popolare” contro la globalizzazione che assume forme diverse – progressive o reazionarie – a seconda delle circostanze: da un lato abbiamo le rivoluzioni bolivariane in America Latina, grandi sollevazioni spontanee come le primavere arabe, Occupy Wall Street, il 15M, i gilet gialli, il voto inglese sulla Brexit, il voto italiano contro le riforme costituzionali proposte da Renzi e la nascita di progetti politici inediti come Podemos, France Insoumise, il Movimento 5Stelle che prendono distanza dalle sinistre tradizionali, sempre più compromesse nella gestione di politiche neoliberiste e antipopolari; dall’altro lato crescono reazioni nazionaliste e xenofobe al globalismo incarnate da leader politici come Salvini e Marine Le Pen. Questa ondata “populista”, contro cui le élite politiche, economiche e mediatiche cercano di costruire dei fronti comuni dei partiti tradizionali di destra, centro e sinistra contro una presunta minaccia totalitaria[vii] a quel sistema democratico che loro stessi hanno contribuito a distruggere, nasce da una diffusa domanda di protezione dei perdenti al gioco della globalizzazione (precari, disoccupati, lavoratori poveri, classi medie proletarizzate, artigiani, piccoli e medi imprenditori, dipendenti pubblici minacciati da privatizzazioni e tagli alla spesa sociale, ecc.) che chiedono sicurezza sociale e livelli di reddito in grado di garantire una vita dignitosa. Il fatto che a rappresentare politicamente questa domanda siano oggi soprattutto formazioni di destra, argomentano Monereo e Illueca, è dovuto alla mutazione delle sinistre socialdemocratiche e radicali che, dopo essersi convertite al liberismo e dopo aver spostato la loro attenzione e il loro impegno dalle classi subalterne ai ceti medio alti e alle minoranze di ogni tipo, appaiono prive di qualsiasi progetto alternativo nonché portatrici di una cultura elitista e cosmopolita che disprezza il popolo.

Se il populismo rappresenta la forma che la lotta di classe assume in un’epoca in cui le classi subalterne, dopo anni di guerra di classe dall’alto[viii] , appaiono divise, individualizzate, disorganizzate sia sul piano sindacale che su quello politico, prive di identità culturale e scarsamente consapevoli dei propri interessi comuni[ix], allora alle sue versioni “di sinistra” spetta il ruolo di occupare un vuoto di rappresentanza sempre più grande e di costruire alternative in una fase in cui queste non sembrerebbero praticabili, smentendo la sentenza di Margareth Tatcher (“There is no alternative”). Il rischio, tuttavia, è quello di interpretare questo compito nei termini d’una banale alternativa elettorale. Costruire una forza politica con volontà di maggioranza e di governo, costruire un’alternativa credibile al bipartitismo per andare al governo e cambiare le cose è un obiettivo fondamentale, ma non basta. Monereo e Illueca prospettano orizzonti più ambiziosi: l’alleanza fra Podemos e Izquierda Unida ha dato sì vita a una coalizione elettorale che ha ottenuto risultati importanti, ma la sua influenza è rimasta perlopiù confinata sul terreno dell’opinione. Le sono mancate la capacità e la volontà di radicarsi nel territorio, di creare comitati unitari di base capaci di stimolare la cittadinanza a impegnarsi nella lotta sociale ed elettorale al di là dei partiti organizzati nella coalizione.

Da quest’ultima riflessione critica si capisce chiaramente dove mirano i due autori: il vero obiettivo non è costruire una coalizione elettorale bensì un nuovo soggetto politico. Per questo occorre “pensare in grande”, proiettarsi al di là della coalizione elettorale e seguire la lezione di Gramsci, che invita a ragionare nei termini della costruzione di un blocco sociale. Per questo ci vuole molto di più che lanciare efficaci campagne di opinione: occorre costruire un forza politica con volontà di egemonia, capace di produrre un discorso proprio e un vocabolario che lo espliciti, che si radichi nella mente della maggioranza fino a divenire senso comune. Solo così sarà possibile costruire una speranza cosciente e realistica[x], perché “passare dalla rassegnazione alla speranza esige capacità di sognare ed emozionarsi, proposte capaci di costruire nuovi immaginari per grandi maggioranze”. Occorre, infine, costruire un’immagine molto chiara del nemico, perché senza nemico non può esistere politica[xi].

Ancorché la logica populista appaia rozza e semplificatoria, è difficile non riconoscerle il merito[xii] di essere particolarmente efficace nello svolgere tale compito, nella misura in cui, in tutti contesti in cui ha strutturato la rabbia popolare contro la globalizzazione, ha permesso di identificare il nemico nell’oligarchia, concepita come il meccanismo che unifica, centralizza e organizza i tre grandi poteri economico, politico e mediatico. In Italia, per identificare questo nemico, si è usato soprattutto il termine di casta. All’inizio ciò è avvenuto anche in Spagna, ma poi si è preferito utilizzare trama (una metafora “tessile” che fa riferimento al fitto intreccio di interessi fra i tre grandi poteri appena citati). Il concetto di casta, argomentano i due autori, viene spesso associato alla corruzione dei tradizionali leader politici, ma ciò comporta il rischio che si finisca per rimuovere il fatto che non ci sono solo i corrotti, ma anche i corruttori, e che a dominare sono soprattutto i secondi, i quali controllano le leve dei grandi poteri economici. Se l’attenzione si concentra esclusivamente sui primi, ciò può alimentare l’illusione che per cambiare le cose basti mandare al governo dei politici onesti, una visione moralista che rimuove la necessità di un cambio radicale di sistema. La vera posta in gioco dello scontro consiste nella costruzione di una patria che, scrivono i nostri, “non è comunità immaginata né nazionalismo, ma res publica, un futuro da costruire collettivamente, società di uomini e donne liberi che lottano per l’autogoverno della cittadinanza, sovranità popolare e indipendenza nazionale”. Così siamo arrivati al nodo cruciale del rapporto fra sovranità popolare, sovranità nazionale e rivoluzione sociale.

4. Sovranità popolare, sovranità nazionale e cambiamento sociale. Convergenze mediterranee (Grecia, Italia e Spagna)

Se la globalizzazione ha depoliticizzato l’economia, mercantilizzato beni comuni e relazioni sociali, de-democratizzato lo Stato e le istituzioni,  il compito di ogni forza politica che si proponga di costruire una reale alternativa al sistema liberista dev’essere quello di ripoliticizzare, demercantilizzare, ridemocratizzare. Tuttavia, per realizzare tali obiettivi, andare al governo è condizione necessaria ma non sufficiente: occorre ricostruire lo Stato su nuove basi, dotandolo di un potere capace di regolare l’economia, di garantire il pieno impiego, di redistribuire reddito e diritti sociali, di rifondare la democrazia restituendo il potere costituente del popolo, occorre avviare un processo costituente che dia vita a un nuovo progetto di Paese giusto, solidale e democratico.

Questo vale soprattutto per la Spagna che, fra l’altro, deve sbarazzarsi di una monarchia obsoleta e delegittimata dagli scandali e risolvere le gravi tensioni interne fra culture e tradizioni diverse e in conflitto reciproco, dando vita a uno Stato federale e plurinazionale. Vale forse meno per l’Italia, dove il problema è piuttosto quello di restaurare e dare attuazione ai principi della Costituzione del '48, sconciata da una serie di “riforme” liberiste che hanno fatto di tutto per neutralizzarne il potenziale di trasformazione in senso socialista del Paese. In entrambi i casi, tuttavia, l’obiettivo prioritario è conquistare il potere per restaurare la democrazia e la sovranità popolare. Ma nessuna sovranità popolare sarà possibile senza riconquistare la sovranità nazionale.

Per sostenere l’occupazione, difendere i salari e lo stato sociale occorre infatti sganciarsi da un’Europa a guida tedesca che non consente alla Spagna (ma il discorso vale per tutti gli altri Paesi mediterranei) di sviluppare un’industria forte, diversificata e tecnicamente avanzata, né di garantire ai propri cittadini il pieno godimento dei diritti sociali e sindacali e uno stato sociale degno. La posizione degli europeisti “critici”, che sognano di realizzare questi obiettivi democratizzando la Ue, è puramente illusoria. Se è infatti vero che i conflitti sociali continuano ad avere al centro gli Stati nazionali, che la democrazia continua a fondarsi su un’uguaglianza giuridica fondata sulla cittadinanza e l’appartenenza ad una comunità di uguali, ne deriva che la sovranità popolare non può disconnettersi dallo Stato e dalla democrazia intesa come autogoverno delle popolazioni e chi pensa si tratti semplicemente di trasferire il compito di realizzare queste condizioni dai singoli Stati membri della Ue a degli immaginari Stati Uniti d’Europa non ha capito che non esiste uno stato nazione europeo né esiste alcuna possibilità che possa essere creato in futuro, perché l’Unione Europea non è nata per questo ma solo per costruire quel sistema monetario e quella rete di trattati e accordi intergovernativi che garantiscono l’egemonia della Germania e il rigoroso rispetto dei principi ordoliberali. Non si può riformare l’Europa anche perché oggi “per essere riformisti bisogna essere rivoluzionari” e la Ue è nata precisamente per frustrare qualsiasi velleità rivoluzionaria dei popoli che ne fanno parte.

Certamente non lo aveva capito Syriza. Analizzando il catastrofico esito della crisi del debito greco, culminata con i diktat della Troika che hanno imposto al popolo greco un feroce regime di austerità che i cittadini di quel Paese hanno pagato – e continuano tuttora a pagare – a carissimo prezzo, gli autori ne rintracciano le radici in quel miscuglio di riformismo socialdemocratico ed europeismo che ha ispirato le scelte politiche di Tsipras, il quale, in nessun momento della crisi che lo ha travolto, ha mai nemmeno lontanamente contemplato la possibilità che la Grecia potesse realmente uscire dall’Euro. Il Tsipras che vediamo oggi incarna – ove lo si paragoni al leader che tante aspettative aveva suscitato qualche anno fa – un perfetto esempio di trasformismo, pratica che, scrivono gli autori, consiste nel cooptare, integrare e domare i ribelli, uno “strumento per ampliare la classe politica dominante includendo alcune rivendicazioni popolari per dividere le classi subalterne”.

Non meno interessanti le considerazioni sull’Italia contenute negli articoli raccolti nel quinto e ultimo capitolo. Soprattutto quelli in cui gli autori replicano ai duri attacchi da parte delle sinistre radicali spagnole nei confronti di certi loro apprezzamenti su alcuni provvedimenti del governo “gialloverde”, come il cosiddetto “decreto dignità”. Nelle repliche argomentano che quel governo “populista e sovranista” aveva dato voce al sentimento antiglobalista di due blocchi sociali differenti e contraddittori: da un lato la Lega, espressione delle piccole e medie imprese del Nord (appoggiate dagli strati medi e superiori della forza lavoro) minacciate dall’invasione dei capitali e delle merci straniere, dall’altro il M5S, espressione della classi subalterne e dei ceti medi impoveriti del Centro-Sud. Quella composizione sociale, scrivono gli autori, ha fatto sì che, pur non rappresentando un progetto progressivo, quella coalizione sia stata costretta ad accogliere, sia pure in misura limitata, alcune rivendicazioni degli strati sociali inferiori, ma soprattutto abbia dimostrato l’esistenza di uno spazio politico occupabile da un terzo polo, alternativo al bipolarismo fra destra e sinistra e alla loro rituale alternanza nella gestione degli interessi delle élite neoliberiste.

I testi raccolti nel volume si fermano al 2018, quindi non sono aggiornati, per quanto riguarda l’Italia, alla caduta del governo gialloverde, alla successiva nascita del governo giallorosso (M5S e PD più frattaglie di centro e sinistra), né sono aggiornati, per quanto riguarda la Spagna, al ritorno di Sanchez alla guida del Psoe e, dopo una serie di elezioni inconcludenti, alla formazione di una coalizione fra il Psoe e una Podemos ridimensionata sul piano elettorale. Quest’ultimo evento è quello che ha fatto sì che Manolo Monereo abbia rinunciato a ricandidarsi come deputato di Cordoba, proprio in quanto contrario all’accordo fra Psoe e Podemos. L’alleanza di Podemos con il Psoe (come la nuova alleanza fra l’M5S e il PD) va inquadrata nel contesto del clima “frontista” che, in diversi Paesi europei, ha visto sempre più spesso i movimenti populisti di sinistra cedere agli argomenti delle sinistre liberali che invitano all’unione contro il “pericolo fascista” rappresentato dalle forze populiste di destra. Ed è in  questo contesto che il giudizio di Monereo sul governo gialloverde aveva suscitato scandalo, in quanto riferito all’operato di una coalizione fra l’M5S e il “fascista” Salvini. Ma questa assimilazione di tutti i partiti di destra al fascismo, che si basa soprattutto sulla loro ideologia xenofoba e sessista, rimuove quelle che furono le specifiche caratteristiche storiche del fenomeno nazifascista (a partire dal nazionalismo bellicoso ed espansionista), si tratta di una pericolosa “banalizzazione” del fascismo (“quando tutto è fascismo niente è fascismo”) che impedisce di comprendere come in Europa non sia in corso uno scontro fra fascismo ed europeismo liberale e cosmopolita, bensì fra due nazionalismi: quello economico tedesco e quello reattivo di altri Paesi. Una incomprensione che induce a pericolosi errori tattici e strategici, confonde le idee in merito a quale sia il nemico e soprattutto impedisce di capire che “il sovranismo è venuto per restare, e la vera domanda è chi organizzerà le forze sociali che chiedono protezione, sicurezza e identità”. Finché l’atteggiamento delle sinistre resterà quello descritto, la risposta è chiarissima: l’egemonia continuerà a spettare alle destre.

A chi invita a lottare per la sovranità nazionale come precondizione necessaria alla restaurazione della sovranità popolare e della democrazia, e del diritto di promuovere politiche sociali a favore delle classi subalterne, gli europeisti “critici” ribattono puntualmente che la globalizzazione è un processo “oggettivo” e irreversibile, al quale è impossibile opporsi. Ma questo argomento appare svuotato dall’evidente tendenza in atto alla rinazionalizzazione della politica, dal riapparire delle pratiche protezioniste e dall’intensificazione dello scontro fra potenze locali, regionali e globali in un contesto geopolitico sempre più conflittuale e caotico. La globalizzazione perde sempre più la sua aura “neutrale” di processo economico e si rivela per ciò che è: vale a dire lo sforzo degli Stati Uniti per conservare un’egemonia che ha progressivamente perso legittimità per trasformarsi in un dominio basato esclusivamente sul potere militare. Uno sforzo pericoloso per la pace mondiale, dal momento che gli Stati Uniti non sono disposti a rinunciare pacificamente alla propria posizione dominante accettando il gigantesco trasferimento di potere in atto da Occidente a Oriente. In questo contesto i Paesi del Sud Europa dovranno scegliere se restare nel campo di un Occidente in crisi, se alimentare le velleità europee di costituirsi in terzo polo imperialista, oppure se guardare a quel paradigma politico basato sul ruolo dello Stato come centro di una strategia di sviluppo nazionale che aspira a integrare le classi popolari che emerge, anche se contraddittoriamente, dall’esperienza dei Brics. L’opzione che gli autori  di questo libro ci invitano a scegliere è chiara.

Note:

[i] Questo insulto, che evoca uno spettro degli anni Trenta del Novecento, allorché i nazional bolscevichi tedeschi tentarono di costruire un terzo polo fra nazisti e comunisti (Cfr.  Milanesi, Ribelli e borghesi, Nazionalbolscevismo e rivoluzione conservatrice. 1914-1933, Aracne, Roma 2011), suona oggi anacronistico in assenza di una credibile minaccia fascista (vedi in merito quanto scrivono Monereo e Illueca nell’ultima parte di questo libro, laddove analizzano la situazione italiana).
[ii] Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
[iii] Vedi, in particolare: S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986; Classe et nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015; L’implosion du capitalisme contemporain, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2014.
[iv] Una approfondita descrizione della storia delle teorie della dipendenza, e del pensiero degli autori che le hanno elaborate, da Paul Baran a Samir Amin, passando per Frank, Arrighi, Wallerstein e altri, si può trovare nel sito di Alessandro Visalli “Nella fertilità cresce il tempo” (http://tempofertile.blogspot.com ).
[v] Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.
[vi] Sull’unificazione italiana come processo di colonizzazione del Sud da parte del Nord cfr. N. Zitara, L’unità d’Italia. Nascita di una colonia, Jaka Book, Milano 2010.
[vii] Il culmine della sfrontatezza e della mistificazione ideologica si è raggiunto con la risoluzione del Parlamento europeo che equipara fascismo e comunismo.
[viii] Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
[ix] In effetti questa definizione del populismo è quella che chi scrive ha formulato ne La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016 (vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019) ma, come il lettore potrà verificare, non si discosta molto da quella che ne danno i due autori.
[x] Nel libro sono frequenti i riferimenti alla categoria della speranza, formulata in termini di utopia concreta, un approccio che evoca il pensiero di un autore marxista “classico” come Ernst Bloch (cfr. Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine 2019 (3 voll.).
[xi] Qui il riferimento a Carl Schmitt è trasparente: cfr. le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972.
[xii] Cfr. in questo senso le opere di E. Laclau: vedi, in particolare, la ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.

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