È da poco uscito, per i tipi di Meltemi, “Un progetto di liberazione. Repubblica, sovranità, socialismo”,
un libro di Manolo Monereo e Hector Illueca. Monereo, militante del
PCE, imprigionato e torturato durante la dittatura, ne viene espulso per
le sue critiche all’atteggiamento arrendevole del partito nella
transizione democratica. A metà degli anni '80 aderisce a Izquierda
Unida, di cui diventa uno dei massimi dirigenti sotto la gestione di
Julio Anguita (da poco scomparso). Successivamente è consulente per i
governi progressisti dell’America latina prima di ritornare in Spagna,
dove aderisce a Podemos e viene eletto deputato per la circoscrizione di
Cordoba. Nel 2018 decide di non ricandidarsi, in dissenso con la
proposta di formare un governo di coalizione fra Podemos e il Psoe.
Illueca è ispettore del lavoro e professore di diritto del lavoro,
attuale deputato di Unidas Podemos eletto nella circoscrizione di
Valencia. Queste scelte differenti sono il motivo per cui l’analisi
della recente storia politica spagnola dei due autori si ferma al 2018,
in quanto non avrebbero potuto esprimere giudizi condivisi sull’operato
del governo Sanchez – Iglesias. Il testo che segue riproduce, quasi
integralmente, quello della mia Introduzione al libro.
Gli scritti contenuti in questo volume ci aiutano a capire in che
misura le sfide che il popolo spagnolo si trova oggi a fronteggiare
somiglino a quelle con cui anche noi italiani dobbiamo fare i conti. Ma
soprattutto ci aiutano capire che, per affrontarle, dovremo liberarci di
quelle che Monereo e Illueca chiamano “idee zombie”, riferendosi a
concetti come globalizzazione, europeismo, mondo senza barriere e
confini, idee “impossibili da uccidere perché l’immaginario sociale
continua a rimanere ancorato al passato”. Compito tutt’altro che
agevole, ove si consideri che le élite politiche e culturali mainstream
presentano questi cadaveri ambulanti come il non plus ultra del nuovo e
della modernità, ritorcendo contro chi li critica l’accusa di essere
nemici del progresso, nostalgici di un’epoca irreversibilmente
tramontata o, per citare gli insulti preferiti dalle sinistre
“radicali”, populisti, sovranisti, “rossobruni”[i]. Ma procediamo con ordine.
I. Dalla prima alla seconda globalizzazione
Non è la prima volta che il sistema capitalista accarezza il sogno di
un mondo senza barriere, aperto ai flussi globali di capitale, merci e
persone. Alla fine del secolo XIX il pianeta viveva la sua prima grande
globalizzazione, alimentata da una serie di innovazioni tecnologiche nel
campo delle comunicazioni e dei trasporti, che consentirono di
accelerare la circolazione di merci, denaro e capitali. Un mondo che gli
apologeti del capitale dipingevano come “pacificato” dagli scambi
commerciali.
Ma, ricordano Monereo e Illueca, la pace è durata solo finché ognuna
delle potenze occidentali è riuscita a saziare la propria sete di
profitto attingendo a una quota del bottino generato dal saccheggio
dell’Occidente nei confronti dei popoli coloniali. È in questa prima
fase del capitalismo monopolistico, che si è consolidata la divisione
del mondo in due sfere: da una parte un centro industrializzato,
dall’altra una periferia sottosviluppata che fornisce al centro materie
prime e riserve inesauribili di forza lavoro a basso costo. Tuttavia,
sotto la superficie apparentemente tranquilla di un Occidente che
scarica la sua aggressività omicida lontano dai propri confini, si
agitano tensioni crescenti: una classe operaia sempre più forte,
combattiva e organizzata che, attraverso una serie di lotte culminate
con la Rivoluzione russa del 1917, suscita lo spettro del comunismo; una
concorrenza sempre più feroce fra potenze imperiali, che i possedimenti
coloniali non bastano più a placare; un crescendo di crisi finanziarie
(sintomo di più profonde contraddizioni strutturali) che culminerà nel
disastro del 1929.
Nella prima metà del Novecento la grande anomalia della società capitalista – l’unica, come argomenta Polanyi[ii],
che abbia trasformato lavoro, terra e denaro in altrettante “merci
fittizie”, mettendo l’economia e il mercato al centro di ogni attività
umana – presenta il conto. Un conto sanguinoso fatto dei milioni di
morti delle due guerre mondiali e di immani distruzioni di merci,
capitali e infrastrutture. Dalla catastrofe, ricordano Monereo e
Illueca, si esce con la svolta di Bretton Woods e con la
generalizzazione delle strategie keynesiane, che promuovono crescita e
occupazione attraverso politiche monetarie e fiscali espansive e il
controllo sui flussi di capitale tramite cambi fissi ma regolabili. È la
grande trasformazione annunciata da Polanyi, iniziata con il ritorno
dello Stato e del controllo politico sull’economia imposto dai regimi
fascisti e socialisti e proseguita, dopo la fine della Seconda Guerra
mondiale, con il compromesso fordista fra capitale e lavoro.
La fine di questa lunga parentesi, chiusa dalla controrivoluzione
neoliberista dei primi anni Ottanta, che decreta la fine del keynesismo e
inaugura la liberalizzazione selvaggia dei movimenti di capitale
avviando la seconda globalizzazione, non è solo dovuta alla contrazione
del saggio di profitto eroso dalla forza contrattuale delle classi
subalterne, dalla crisi petrolifera e dalla crisi fiscale dello Stato: è
anche e soprattutto frutto dell’inversione di rotta degli Stati Uniti,
pressati dalla crescente concorrenza di Germania e Giappone e
appesantiti dai debiti generati dalla guerra del Vietnam, la loro prima
sconfitta militare dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Con la
sospensione della convertibilità del dollaro in oro decretata da Nixon
nel 1971, gli Stati Uniti mandano in soffitta gli accordi di Bretton
Woods e preparano le condizioni della liberalizzazione dei mercati
finanziari. La globalizzazione che le élite politiche, economiche e
mediatiche presentano oggi come l’esito di un processo “naturale” delle
“leggi” del mercato, l’approdo irreversibile a un’economia mondiale
aperta e integrata che annuncia la nascita di una nuova comunità
universale, destinata a unificare costumi e norme delle differenti
nazioni, non è altro che l’estremo tentativo degli Stati Uniti di
conservare la propria egemonia, di fare del XXI un nuovo secolo
americano.
Gli effetti di questa mossa strategica sono sotto gli occhi di tutti:
l’economia del XXI secolo somiglia incredibilmente a quella del XIX. Concentrazione
spaventosa della ricchezza, progressione geometrica delle
disuguaglianze fra classi, etnie, popoli e generi; sovraproduzione e
sottoconsumo, economia del debito privato (finanziarizzazione della vita
quotidiana); drastica riduzione della spesa pubblica, smantellamento
del welfare e deregolamentazione del mercato del lavoro (la capacità
contrattuale del proletariato occidentale si dissolve nel momento in cui
ogni tentativo di limitare i benefici alle imprese e difendere i
livelli di protezione sociale fa sì che la produzione si sposti verso
luoghi più accoglienti per il capitale); una crisi ecologica sempre più
drammatica che minaccia le stesse condizioni di convivenza fra la specie
umana e il pianeta. Prima di analizzare le reazioni della società
civile alla catastrofe, di quello che potremmo definire come un nuovo
“momento Polanyi”, occorre però richiamare il modo in cui Monereo e
Illueca applicano il loro modello interpretativo al caso europeo.
II. La Ue come paradigma della relazione centro-periferia
Per comprendere quale forma specifica la globalizzazione neoliberista
abbia assunto in Europa, vanno chiarite due cose. La prima: negli anni
Settanta il processo di decolonizzazione dei Paesi del Terzo mondo
sembrava compiuto ma, come spiega Samir Amin[iii],
il colonialismo non è affatto finito, più semplicemente ha abbandonato
la forma classica dell’occupazione territoriale per assumere quella
dell’espropriazione sistematica di risorse dei Paesi del Nord del mondo
nei confronti di quelli del Sud; un dispositivo fondato sull’economia
del debito pubblico governata dal Fondo Monetario Internazionale e dalla
Banca Mondiale e sull’asservimento delle borghesie nazionali che, da
guida delle lotte di liberazione, si trasformano progressivamente in
agenti al servizio dell’imperialismo occidentale. Un destino cui
riescono a sottrarsi solo due grandi potenze emergenti come la Cina e
l’India.
La seconda: la relazione centro-periferia descritta dai
teorici della dipendenza[iv]
non si applica solo ai rapporti fra Paesi occidentali e Terzo mondo,
vale anche all’interno del territorio europeo. Già il nazismo, come
chiarito da Domenico Losurdo[v]
e come ricordano a loro volta Monereo e Illueca, aveva tentato di
colonizzare gli altri Paesi europei, a partire da quelli dell’Est, per
impadronirsi delle loro risorse e ridurne in schiavitù la forza lavoro,
proponendo, di fatto, la continuazione della politica coloniale
occidentale sul territorio europeo. Altri due esempi di colonizzazione
interna allo spazio europeo sono quelli dell’unificazione italiana del
1861[vi]
e di quella tedesca del 1990, due processi che hanno assunto il
carattere di vere e proprie annessioni delle regioni deboli dei due
Paesi da parte delle regioni dominanti sul piano economico e politico.
Ecco perché, scrivono Monereo e Illueca, “L’apparato concettuale
della teoria della dipendenza risulta imprescindibile per comprendere
l’autentica natura del progetto europeo”, nella misura in cui il
processo di costruzione della Ue presenta caratteristiche del tutto
simili a quelle del processo di subordinazione dei Paesi ex coloniali
alle nuove potenze imperiali. Come ha drammaticamente dimostrato il caso
della Grecia, gli “aiuti” ai Paesi indebitati garantiti da dispositivi
come il MES, svolgono esattamente lo stesso ruolo dei procedimenti del
FMI che servono a imporre la legge dell’economia del debito, mentre le
borghesie dei Paesi periferici dell’Est e del Sud Europa svolgono nei
confronti della nazione egemone, la Germania, esattamente lo stesso
ruolo delle borghesie compradore dei Paesi ex coloniali. Nella
terminologia gramsciana, scrivono Monereo e Illueca, si potrebbe dire
che le classi dirigenti dei Paesi periferici, includendo la destra, la
sinistra e gli stessi sindacati, sono una “lumpen-oligarchia” che si
comporta “come il partito dello straniero che garantisce la
subordinazione e l’assoggettamento economico alla potenza egemonica
nello spazio europeo”.
La costituzione materiale della Ue coincide con il Trattato di
Maastricht e successivi accordi come il Fiscal Compact, che hanno
costituzionalizzato le politiche neoliberali per sottrarle al dibattito
democratico, instaurando uno stato di eccezione in cui i poteri reali
sovvertono lo stato sociale di diritto e pervertono l’idea stessa di
democrazia. Trova così attuazione il sogno di von Hayek, il quale vedeva
nella realizzazione di uno spazio sovranazionale fondato sui principi
dell’ordoliberalismo la chance di instaurare una separazione radicale
fra politica ed economia, che avrebbe sradicato qualsiasi possibilità
di interferenza popolare nello sviluppo del libero mercato. Ma
l’egemonia tedesca non è frutto di un’imposizione, bensì della rinuncia
spontanea dei Paesi periferici alla propria sovranità, nella misura in
cui “la Germania fa il lavoro sporco che nessuna borghesia del Sud
Europa potrebbe realizzare da sola, in cambio le viene garantito il
predominio economico e la supremazia politica”. A prescindere dalla
peculiarità europea del processo di globalizzazione neoliberista, i suoi
effetti sono identici a quelli che tutti i cittadini occidentali
sperimentano sulla loro pelle: si attenua la frontiera tra lavoratori
precari, disoccupati e fissi; i lavoratori a tempo indeterminato, i
pensionati e i funzionari pubblici si percepiscono come privilegiati,
detentori di un “privilegio” che appare tuttavia minacciato da future
riforme del lavoro, dalla insicurezza sociale generalizzata, dalla paura
ambientale, dalla sfiducia. Il futuro non è più prevedibile né,
tantomeno, controllabile. Tutte le condizioni di un nuovo momento
Polanyi sono dunque largamente presenti.
III. Dal populismo alla costruzione di un nuovo soggetto politico della trasformazione
In tutto il mondo stiamo oggi assistendo a “un’insurrezione plebea e
nazional-popolare” contro la globalizzazione che assume forme diverse –
progressive o reazionarie – a seconda delle circostanze: da un lato
abbiamo le rivoluzioni bolivariane in America Latina, grandi
sollevazioni spontanee come le primavere arabe, Occupy Wall Street, il
15M, i gilet gialli, il voto inglese sulla Brexit, il voto italiano
contro le riforme costituzionali proposte da Renzi e la nascita di
progetti politici inediti come Podemos, France Insoumise, il Movimento
5Stelle che prendono distanza dalle sinistre tradizionali, sempre più
compromesse nella gestione di politiche neoliberiste e antipopolari;
dall’altro lato crescono reazioni nazionaliste e xenofobe al globalismo
incarnate da leader politici come Salvini e Marine Le Pen. Questa ondata
“populista”, contro cui le élite politiche, economiche e mediatiche
cercano di costruire dei fronti comuni dei partiti tradizionali di
destra, centro e sinistra contro una presunta minaccia totalitaria[vii]
a quel sistema democratico che loro stessi hanno contribuito a
distruggere, nasce da una diffusa domanda di protezione dei perdenti al
gioco della globalizzazione (precari, disoccupati, lavoratori poveri,
classi medie proletarizzate, artigiani, piccoli e medi imprenditori,
dipendenti pubblici minacciati da privatizzazioni e tagli alla spesa
sociale, ecc.) che chiedono sicurezza sociale e livelli di reddito in
grado di garantire una vita dignitosa. Il fatto che a rappresentare
politicamente questa domanda siano oggi soprattutto formazioni di
destra, argomentano Monereo e Illueca, è dovuto alla mutazione delle
sinistre socialdemocratiche e radicali che, dopo essersi convertite al
liberismo e dopo aver spostato la loro attenzione e il loro impegno
dalle classi subalterne ai ceti medio alti e alle minoranze di ogni
tipo, appaiono prive di qualsiasi progetto alternativo nonché portatrici
di una cultura elitista e cosmopolita che disprezza il popolo.
Se il populismo rappresenta la forma che la lotta di classe assume in
un’epoca in cui le classi subalterne, dopo anni di guerra di classe
dall’alto[viii]
, appaiono divise, individualizzate, disorganizzate sia sul piano
sindacale che su quello politico, prive di identità culturale e
scarsamente consapevoli dei propri interessi comuni[ix],
allora alle sue versioni “di sinistra” spetta il ruolo di occupare un
vuoto di rappresentanza sempre più grande e di costruire alternative in
una fase in cui queste non sembrerebbero praticabili, smentendo la
sentenza di Margareth Tatcher (“There is no alternative”). Il rischio,
tuttavia, è quello di interpretare questo compito nei termini d’una
banale alternativa elettorale. Costruire una forza politica con volontà
di maggioranza e di governo, costruire un’alternativa credibile al
bipartitismo per andare al governo e cambiare le cose è un obiettivo
fondamentale, ma non basta. Monereo e Illueca prospettano orizzonti più
ambiziosi: l’alleanza fra Podemos e Izquierda Unida ha dato sì vita a
una coalizione elettorale che ha ottenuto risultati importanti, ma la
sua influenza è rimasta perlopiù confinata sul terreno dell’opinione. Le
sono mancate la capacità e la volontà di radicarsi nel territorio, di
creare comitati unitari di base capaci di stimolare la cittadinanza a
impegnarsi nella lotta sociale ed elettorale al di là dei partiti
organizzati nella coalizione.
Da quest’ultima riflessione critica si capisce chiaramente dove
mirano i due autori: il vero obiettivo non è costruire una coalizione
elettorale bensì un nuovo soggetto politico. Per questo occorre “pensare
in grande”, proiettarsi al di là della coalizione elettorale e seguire
la lezione di Gramsci, che invita a ragionare nei termini della
costruzione di un blocco sociale. Per questo ci vuole molto di più che
lanciare efficaci campagne di opinione: occorre costruire un forza
politica con volontà di egemonia, capace di produrre un discorso proprio
e un vocabolario che lo espliciti, che si radichi nella mente della
maggioranza fino a divenire senso comune. Solo così sarà possibile
costruire una speranza cosciente e realistica[x],
perché “passare dalla rassegnazione alla speranza esige capacità di
sognare ed emozionarsi, proposte capaci di costruire nuovi immaginari
per grandi maggioranze”. Occorre, infine, costruire un’immagine molto
chiara del nemico, perché senza nemico non può esistere politica[xi].
Ancorché la logica populista appaia rozza e semplificatoria, è difficile non riconoscerle il merito[xii]
di essere particolarmente efficace nello svolgere tale compito, nella
misura in cui, in tutti contesti in cui ha strutturato la rabbia
popolare contro la globalizzazione, ha permesso di identificare il
nemico nell’oligarchia, concepita come il meccanismo che unifica,
centralizza e organizza i tre grandi poteri economico, politico e
mediatico. In Italia, per identificare questo nemico, si è usato
soprattutto il termine di casta. All’inizio ciò è avvenuto anche in Spagna, ma poi si è preferito utilizzare trama
(una metafora “tessile” che fa riferimento al fitto intreccio di
interessi fra i tre grandi poteri appena citati). Il concetto di casta,
argomentano i due autori, viene spesso associato alla corruzione dei
tradizionali leader politici, ma ciò comporta il rischio che si finisca
per rimuovere il fatto che non ci sono solo i corrotti, ma anche i
corruttori, e che a dominare sono soprattutto i secondi, i quali
controllano le leve dei grandi poteri economici. Se l’attenzione si
concentra esclusivamente sui primi, ciò può alimentare l’illusione che
per cambiare le cose basti mandare al governo dei politici onesti, una
visione moralista che rimuove la necessità di un cambio radicale di
sistema. La vera posta in gioco dello scontro consiste nella costruzione
di una patria che, scrivono i nostri, “non è comunità immaginata né
nazionalismo, ma res publica, un futuro da costruire
collettivamente, società di uomini e donne liberi che lottano per
l’autogoverno della cittadinanza, sovranità popolare e indipendenza
nazionale”. Così siamo arrivati al nodo cruciale del rapporto fra
sovranità popolare, sovranità nazionale e rivoluzione sociale.
4. Sovranità popolare, sovranità nazionale e cambiamento sociale. Convergenze mediterranee (Grecia, Italia e Spagna)
Se la globalizzazione ha depoliticizzato l’economia, mercantilizzato
beni comuni e relazioni sociali, de-democratizzato lo Stato e le
istituzioni, il compito di ogni forza politica che si proponga di
costruire una reale alternativa al sistema liberista dev’essere quello
di ripoliticizzare, demercantilizzare, ridemocratizzare. Tuttavia, per
realizzare tali obiettivi, andare al governo è condizione necessaria ma
non sufficiente: occorre ricostruire lo Stato su nuove basi, dotandolo
di un potere capace di regolare l’economia, di garantire il pieno
impiego, di redistribuire reddito e diritti sociali, di rifondare la
democrazia restituendo il potere costituente del popolo, occorre avviare
un processo costituente che dia vita a un nuovo progetto di Paese
giusto, solidale e democratico.
Questo vale soprattutto per la Spagna che, fra l’altro, deve
sbarazzarsi di una monarchia obsoleta e delegittimata dagli scandali e
risolvere le gravi tensioni interne fra culture e tradizioni diverse e
in conflitto reciproco, dando vita a uno Stato federale e
plurinazionale. Vale forse meno per l’Italia, dove il problema è
piuttosto quello di restaurare e dare attuazione ai principi della
Costituzione del '48, sconciata da una serie di “riforme” liberiste che
hanno fatto di tutto per neutralizzarne il potenziale di trasformazione
in senso socialista del Paese. In entrambi i casi, tuttavia, l’obiettivo
prioritario è conquistare il potere per restaurare la democrazia e la
sovranità popolare. Ma nessuna sovranità popolare sarà possibile senza
riconquistare la sovranità nazionale.
Per sostenere l’occupazione, difendere i salari e lo stato sociale
occorre infatti sganciarsi da un’Europa a guida tedesca che non consente
alla Spagna (ma il discorso vale per tutti gli altri Paesi
mediterranei) di sviluppare un’industria forte, diversificata e
tecnicamente avanzata, né di garantire ai propri cittadini il pieno
godimento dei diritti sociali e sindacali e uno stato sociale degno. La
posizione degli europeisti “critici”, che sognano di realizzare questi
obiettivi democratizzando la Ue, è puramente illusoria. Se è infatti
vero che i conflitti sociali continuano ad avere al centro gli Stati
nazionali, che la democrazia continua a fondarsi su un’uguaglianza
giuridica fondata sulla cittadinanza e l’appartenenza ad una comunità di
uguali, ne deriva che la sovranità popolare non può disconnettersi
dallo Stato e dalla democrazia intesa come autogoverno delle popolazioni
e chi pensa si tratti semplicemente di trasferire il compito di
realizzare queste condizioni dai singoli Stati membri della Ue a degli
immaginari Stati Uniti d’Europa non ha capito che non esiste uno stato
nazione europeo né esiste alcuna possibilità che possa essere creato in
futuro, perché l’Unione Europea non è nata per questo ma solo per
costruire quel sistema monetario e quella rete di trattati e accordi
intergovernativi che garantiscono l’egemonia della Germania e il
rigoroso rispetto dei principi ordoliberali. Non si può riformare
l’Europa anche perché oggi “per essere riformisti bisogna essere
rivoluzionari” e la Ue è nata precisamente per frustrare qualsiasi
velleità rivoluzionaria dei popoli che ne fanno parte.
Certamente non lo aveva capito Syriza. Analizzando il catastrofico
esito della crisi del debito greco, culminata con i diktat della Troika
che hanno imposto al popolo greco un feroce regime di austerità che i
cittadini di quel Paese hanno pagato – e continuano tuttora a pagare – a
carissimo prezzo, gli autori ne rintracciano le radici in quel
miscuglio di riformismo socialdemocratico ed europeismo che ha ispirato
le scelte politiche di Tsipras, il quale, in nessun momento della crisi
che lo ha travolto, ha mai nemmeno lontanamente contemplato la
possibilità che la Grecia potesse realmente uscire dall’Euro. Il Tsipras
che vediamo oggi incarna – ove lo si paragoni al leader che tante
aspettative aveva suscitato qualche anno fa – un perfetto esempio di
trasformismo, pratica che, scrivono gli autori, consiste nel cooptare,
integrare e domare i ribelli, uno “strumento per ampliare la classe
politica dominante includendo alcune rivendicazioni popolari per
dividere le classi subalterne”.
Non meno interessanti le considerazioni sull’Italia contenute negli
articoli raccolti nel quinto e ultimo capitolo. Soprattutto quelli in
cui gli autori replicano ai duri attacchi da parte delle sinistre
radicali spagnole nei confronti di certi loro apprezzamenti su alcuni
provvedimenti del governo “gialloverde”, come il cosiddetto “decreto
dignità”. Nelle repliche argomentano che quel governo “populista e
sovranista” aveva dato voce al sentimento antiglobalista di due blocchi
sociali differenti e contraddittori: da un lato la Lega, espressione
delle piccole e medie imprese del Nord (appoggiate dagli strati medi e
superiori della forza lavoro) minacciate dall’invasione dei capitali e
delle merci straniere, dall’altro il M5S, espressione della classi
subalterne e dei ceti medi impoveriti del Centro-Sud. Quella
composizione sociale, scrivono gli autori, ha fatto sì che, pur non
rappresentando un progetto progressivo, quella coalizione sia stata
costretta ad accogliere, sia pure in misura limitata, alcune
rivendicazioni degli strati sociali inferiori, ma soprattutto abbia
dimostrato l’esistenza di uno spazio politico occupabile da un terzo
polo, alternativo al bipolarismo fra destra e sinistra e alla loro
rituale alternanza nella gestione degli interessi delle élite
neoliberiste.
I testi raccolti nel volume si fermano al 2018, quindi non sono
aggiornati, per quanto riguarda l’Italia, alla caduta del governo
gialloverde, alla successiva nascita del governo giallorosso (M5S e PD
più frattaglie di centro e sinistra), né sono aggiornati, per quanto
riguarda la Spagna, al ritorno di Sanchez alla guida del Psoe e, dopo
una serie di elezioni inconcludenti, alla formazione di una coalizione
fra il Psoe e una Podemos ridimensionata sul piano elettorale.
Quest’ultimo evento è quello che ha fatto sì che Manolo Monereo abbia
rinunciato a ricandidarsi come deputato di Cordoba, proprio in quanto
contrario all’accordo fra Psoe e Podemos. L’alleanza di Podemos con il
Psoe (come la nuova alleanza fra l’M5S e il PD) va inquadrata nel
contesto del clima “frontista” che, in diversi Paesi europei, ha visto
sempre più spesso i movimenti populisti di sinistra cedere agli
argomenti delle sinistre liberali che invitano all’unione contro il
“pericolo fascista” rappresentato dalle forze populiste di destra. Ed è
in questo contesto che il giudizio di Monereo sul governo gialloverde
aveva suscitato scandalo, in quanto riferito all’operato di una
coalizione fra l’M5S e il “fascista” Salvini. Ma questa assimilazione di
tutti i partiti di destra al fascismo, che si basa soprattutto sulla
loro ideologia xenofoba e sessista, rimuove quelle che furono le
specifiche caratteristiche storiche del fenomeno nazifascista (a partire
dal nazionalismo bellicoso ed espansionista), si tratta di una
pericolosa “banalizzazione” del fascismo (“quando tutto è fascismo
niente è fascismo”) che impedisce di comprendere come in Europa non sia
in corso uno scontro fra fascismo ed europeismo liberale e cosmopolita,
bensì fra due nazionalismi: quello economico tedesco e quello reattivo
di altri Paesi. Una incomprensione che induce a pericolosi errori
tattici e strategici, confonde le idee in merito a quale sia il nemico e
soprattutto impedisce di capire che “il sovranismo è venuto per
restare, e la vera domanda è chi organizzerà le forze sociali che
chiedono protezione, sicurezza e identità”. Finché l’atteggiamento delle
sinistre resterà quello descritto, la risposta è chiarissima:
l’egemonia continuerà a spettare alle destre.
A chi invita a lottare per la sovranità nazionale come precondizione
necessaria alla restaurazione della sovranità popolare e della
democrazia, e del diritto di promuovere politiche sociali a favore delle
classi subalterne, gli europeisti “critici” ribattono puntualmente che
la globalizzazione è un processo “oggettivo” e irreversibile, al quale è
impossibile opporsi. Ma questo argomento appare svuotato dall’evidente
tendenza in atto alla rinazionalizzazione della politica, dal riapparire
delle pratiche protezioniste e dall’intensificazione dello scontro fra
potenze locali, regionali e globali in un contesto geopolitico sempre
più conflittuale e caotico. La globalizzazione perde sempre più la sua
aura “neutrale” di processo economico e si rivela per ciò che è: vale a
dire lo sforzo degli Stati Uniti per conservare un’egemonia che ha
progressivamente perso legittimità per trasformarsi in un dominio basato
esclusivamente sul potere militare. Uno sforzo pericoloso per la pace
mondiale, dal momento che gli Stati Uniti non sono disposti a rinunciare
pacificamente alla propria posizione dominante accettando il gigantesco
trasferimento di potere in atto da Occidente a Oriente. In questo
contesto i Paesi del Sud Europa dovranno scegliere se restare nel campo
di un Occidente in crisi, se alimentare le velleità europee di
costituirsi in terzo polo imperialista, oppure se guardare a quel
paradigma politico basato sul ruolo dello Stato come centro di una
strategia di sviluppo nazionale che aspira a integrare le classi
popolari che emerge, anche se contraddittoriamente, dall’esperienza
dei Brics. L’opzione che gli autori di questo libro ci invitano a
scegliere è chiara.
Note:
[i]
Questo insulto, che evoca uno spettro degli anni Trenta del Novecento,
allorché i nazional bolscevichi tedeschi tentarono di costruire un terzo
polo fra nazisti e comunisti (Cfr. Milanesi, Ribelli e borghesi, Nazionalbolscevismo e rivoluzione conservatrice. 1914-1933,
Aracne, Roma 2011), suona oggi anacronistico in assenza di una
credibile minaccia fascista (vedi in merito quanto scrivono Monereo e
Illueca nell’ultima parte di questo libro, laddove analizzano la
situazione italiana).
[ii] Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
[iii] Vedi, in particolare: S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986; Classe et nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015; L’implosion du capitalisme contemporain, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2014.
[iv]
Una approfondita descrizione della storia delle teorie della
dipendenza, e del pensiero degli autori che le hanno elaborate, da Paul
Baran a Samir Amin, passando per Frank, Arrighi, Wallerstein e altri, si
può trovare nel sito di Alessandro Visalli “Nella fertilità cresce il
tempo” (http://tempofertile.blogspot.com ).
[v] Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.
[vi] Sull’unificazione italiana come processo di colonizzazione del Sud da parte del Nord cfr. N. Zitara, L’unità d’Italia. Nascita di una colonia, Jaka Book, Milano 2010.
[vii]
Il culmine della sfrontatezza e della mistificazione ideologica si è
raggiunto con la risoluzione del Parlamento europeo che equipara
fascismo e comunismo.
[viii] Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
[ix] In effetti questa definizione del populismo è quella che chi scrive ha formulato ne La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016 (vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019) ma, come il lettore potrà verificare, non si discosta molto da quella che ne danno i due autori.
[x]
Nel libro sono frequenti i riferimenti alla categoria della speranza,
formulata in termini di utopia concreta, un approccio che evoca il
pensiero di un autore marxista “classico” come Ernst Bloch (cfr. Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine 2019 (3 voll.).
[xi] Qui il riferimento a Carl Schmitt è trasparente: cfr. le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972.
[xii] Cfr. in questo senso le opere di E. Laclau: vedi, in particolare, la ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.
Fonte
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