Firenze – Sulle prospettive del dopo Covid, Stamptoscana si rivolge all’economista Joseph Halevi.
Halevi è nato a Haifa nel 1946 da madre lucchese e ha studiato a Roma,
dove si è laureato nel 1975 in filosofia con una tesi in economia.
Sempre nel 1975 ha lasciato l’Italia e ha insegnato economia alla New
School for Social Research a New York e alla Rutgers University nel New
Jersey. Ha anche insegnato per svariati anni alle Università di
Grenoble, di Nizza e di Amiens. Nel periodo compreso fra il 1990 e il
2012 è stato collaboratore del Manifesto. Dal 2009 insegna economia nel
programma Master di giurisprudenza presso l’International University
College a Torino.
D. Quale sarà il problema o i problemi più immediati che dovremo affrontare nella fase del dopo coronavirus?
R. La risposta dipende molto dall’angolatura con cui si guarda a
tutta la vicenda del Covid-19. Partirei da una visione che combini sia
la dimensione di classe che quella strutturale che specificherò dopo una
breve premessa. L’aspetto economico principale di questa crisi consiste
nel fatto che è la prima volta che il sistema si blocca sia dal lato
della produzione, cioè dell’offerta, sia dal lato della domanda. Il
blocco della produzione ha a sua volta prodotto il blocco degli
investimenti che, sommato ai licenziamenti di massa, ha fatto
precipitare le economie occidentali in una recessione molto simile ad
una grande depressione.
Questo è successo nei paesi sviluppati. Le ripercussioni su quelli
molto più poveri che, in maniera mistificante, vengono chiamati mercati
emergenti, sono state disastrose. Le catene di valorizzazione – già
meccanismi di sfruttamento acuto negli ‘emergenti’ e di precarizzazione
del lavoro nei paesi ‘avanzati’ – si sono a loro volta disarticolate sia
sul piano produttivo sia su quello finanziario. Gli ‘emergenti’ stanno
immergendosi fin sopra la testa nella crisi. Fino a poco tempo fa
giornali, riviste e siti economici dei paesi occidentali speravano in un
andamento a V in cui, ad una forte discesa, segue una rapida salita.
Ora non ne parlano più. Con le flotte della loro aviazione civile a
terra e con le compagnie che stanno smobilitando i loro grossi vettori
intercontinentali inviandoli ai parcheggi-deposito nel deserto
dell’Arizona e perfino nel centro dell’Australia ad Alice Springs, nei
paesi occidentali si sta facendo avanti l’ipotesi che la ripresa sarà
probabilmente lenta ed assai problematica. Un certa ripresa
probabilmente ci sarà ma bisogna tenere a mente che essa può avvenire
con l’economia che complessivamente rimane in uno stato ancora interno
alla stagnazione causata dalla depressione (esempio: l’economia cala del
-10% e si riprende con un 3% per poi trascinarsi con un 0,5/1%, il che
significa che dopo 10 anni non ha ancora raggiunto il livello precedente
alla caduta).
D. Lo scenario futuro o immediatamente prossimo potrebbe far
emergere diverse reattività da parte dei vari Paesi, nonostante la
globalizzazione? In altre parole: la barca è la stessa, ma i passeggeri
no?
R. In questo contesto vale la pena sottolineare che il Covid-19 ha
messo in evidenza alcune fenomeni di natura strutturale. I paesi che
sono riusciti a prendere in mano la situazione dopo lo sbandamento delle
prime settimane che ha permesso il rapido propagarsi del virus, sono
stati quelli che hanno una notevole completezza nei settori che
producono macchinari e beni capitale in genere. La Cina malgrado la
forte negligenza iniziale e pur essendo ancora un paese realmente in via
di sviluppo per reddito pro capite, deve essere annoverata fra questi,
in cui primeggiano il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan, mentre in
Europa lo stacco tra la Germania ed il resto dei grandi paesi dell’UE è
netto e crescente.
Ciò è dovuto alla capacità tecnico produttiva di affrontare la crisi
pandemica che gli altri paesi, inclusa la Francia, non hanno. Austria,
Svizzera, quest’ultima con ritardo, e Repubblica Ceca si collocano
nell’ambito tedesco e così sarebbe stato per la Svezia se non fosse per
la leggerezza con cui il governo ha trattato il Covid-19 dovendosi poi
scusare pubblicamente al cospetto della cittadinanza. Al polo opposto
abbiamo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, paesi importanti e altamente
destrutturati sia perché hanno capacità produttive sbrindellate non
coerenti tra di loro, sia per l’assetto sociale del loro sistema
sanitario; gerarchicamente privato negli Stati Uniti, svuotato
dall’interno – attraverso la famigerata partnership tra privato e
pubblico (come in Lombardia) di blairiana memoria – nel Regno Unito.
D. Desta apprensione in molti osservatori la situazione degli
USA, punto chiave per l’economia mondiale. Quali potrebbero essere le
conseguenze sugli assetti economici del mondo?
R. Gli USA hanno le multinazionali più potenti ed aggressive al mondo,
forti del sostegno globale che ricevono dallo Stato americano. Esse
presiedono in gran parte ad una struttura produttiva sfilacciata per le
loro stesse scelte di delocalizzazione. Lo sfilacciamento colpisce ormai
tutti i settori ad eccezione forse di quello delle costruzioni. La
gravità della situazione è emersa chiaramente nelle dichiarazioni del
governatore dello stato di New York Andrew Cuomo che lamentava le
difficoltà di approvvigionamento in macchinari e di kit per attuare i
test di controllo.
Giornali come il New York Times hanno riportato la dipendenza dalle
importazioni cui è soggetto il sistema sanitario che sono, a loro volta,
connesse alle catene di valorizzazione che partendo da tutta l’Asia
sfociano negli Stati Uniti formando la rete su cui poggiano molte delle
multinazionali americane. La crisi pandemica negli USA è ancora in pieno
svolgimento ed ha portato allo scoperto la vulnerabilità del paese. Per
il momento non sono personalmente in grado di soppesarne la dimensione
ma la sua indubbia esistenza è un fatto molto preoccupante in quanto gli
USA sono la fonte principale di liquidità a livello mondiale e chiudono
il circuito economico del pianeta. Non sono sostituibili.
D. Quali potrebbero essere gli scenari se la pandemia statunitense non si arresta?
R. Facciamo l’ipotesi che la crisi pandemica continui acuendo quella
economica. La posizione mondiale della Cina ed il suo sviluppo intero
sono altamente dipendenti dagli USA. Dopo il picco delle esportazioni
nette raggiunto più o meno nei primi anni della scorsa decade la Cina ha
intrapreso una massiccia politica di importazione di macchinari, beni
strumentali e tecnologie varie in prevalenza dalla Germania, nonché
dalla Corea del Sud, dal Giappone e da Taiwan. Di conseguenza il surplus
netto cinese, calcolato in rapporto al PIL si è ridotto moltissimo. La
chiave nella possibilità di continuare tale politica da parte della Cina
sta nella capacità di mantenere un forte saldo attivo nei confronti
degli USA. Quando questo viene minacciato le importazioni cinesi vengono subito ridotte.
In altri termini è il saldo attivo nei confronti degli USA che
finanzia le importazioni cinesi dalla Germania e dagli altri paesi
industriali necessarie al proseguimento della modernizzazione cinese.
Con gli USA in crisi profonda, Pechino si troverebbe scoperta con
ripercussioni gravissime sulla UE attraverso la Germania.
Nell’attuale assetto mondiale, che sul piano monetario ha origini nel
1945, gli USA sono insostituibili; non c’è alcun sistema economico o
area economica del pianeta che non dipenda in maniera fondamentale dagli
USA.
Il passaggio verso un nuovo assetto è impossibile se non per rotture
incontrollate e attraverso crisi profondissime anche di natura bellica.
La stessa moneta europea, l’euro, è profondamente dollarizzata in quanto
la moneta USA costituisce la valuta di riferimento per le relazioni e
transazioni interbancarie all’interno della stessa UE. Inoltre le
massicce operazioni di investimento cinesi in Africa sono a loro volta
rese possibili dalle riserve in dollari di Pechino e costituiscono un
fattore di dollarizzazione accentuata del continente a scapito dell’euro
e del franco centroafricano ad esso connesso.
Ne consegue che la vulnerabilità USA emersa in questa crisi
costituisce un serio rischio economico globale e non è solo – e nemmeno
principalmente – un problema di rapporti di forze tra USA e Cina.
Bisogna dire che la Federal Reserve è consapevole della situazione in
quanto malgrado il degradarsi dei rapporti correnti tra USA e Cina, ha da poche settimane aperto uno sportello bancario per le
operazioni di dollar swaps e repo liberamente accessibile anche alla
banca centrale della Repubblica Popolare Cinese.
D. Quale sarà il ruolo della tecnologia nella ripresa
economico-sociale? E cosa pensa del digital divide e del rischio,
ventilato da alcuni, per i sistemi democratici?
R. Nel contesto delineato nella risposta alla domanda iniziale, si
possono individuare delle tendenze interessanti ma non rassicuranti. Su
Libération del 28 aprile scorso è apparsa un’intervista con Philip
Mirowski dell’università di Notre Dame du Lac nello stato USA
dell’Indiana. Mirowski è un filosofo ed epistemologo dell’economia e
pertanto ha sempre avuto un angolo di visuale più vasto degli economisti
numerici. Nell’intervista egli sostiene che è profondamente sbagliato credere che da questa crisi nasca una maggiore consapevolezza sociale.
Per Mirowski i ‘neoliberali’, contrariamente ad ogni forma di
‘sinistra’ politica (aggiungerei ad eccezione di Bernie Sanders che andò
a portare le sue tesi direttamente sul terreno dell’elettorato popolare
di Trump essendo l’unico tra i democratici capace di farlo), hanno
tratto tutte le lezioni dalla crisi finanziaria del 2007/8 e si sono
organizzati in conseguenza. Essi hanno sviluppato in maniera coerente
con la visione neoliberale delle posizioni sistematiche sui temi più
importanti.
La crisi, sottolinea Mirowski, ha rafforzato i detentori di
ricchezza: nello stesso periodo in cui 26 milioni di lavoratori
dipendenti sono stati licenziati la ricchezza dei miliardari è aumentata
di 308 miliardi di dollari. I neoliberali stanno spingendo verso
ulteriori concentrazioni privatistiche del sistema sanitario aumentando
la libertà di azione ed il potere monopolistico delle grandi società
farmaceutiche, indebolendo deliberatamente le istituzioni federali di
supervisione e controllo.
Steven Mnuchin, attuale segretario al Tesoro dell’amministrazione
Trump, quintessenza del capitalismo opaco della finanza speculativa, è
un elemento centrale nella strategia neoliberale, specialmente per ciò che
riguarda la gestione dei fondi stanziati per la ripresa economica
dalla crisi causata dal Covid-19. A tal riguardo in una recente
intervista al giornale e rete Naked Capitalism, Thomas Ferguson, uno dei
maggiori politologi USA che è anche economista, ha sottolineato come i
fondi pubblici stanziati per le piccole e medie imprese in realtà
vengano incanalati verso le grandi società monopolistiche mentre oltre
ai licenziamenti le città stanno andando in bancarotta.
D. Ma è pensabile che dalla pandemia non nasca un nuovo senso
collettivo bensì un’ulteriore spinta all’individualizzazione e alla
privatizzazione come nel verbo neoliberale?
R. La privatizzazione ed individualizzazione dell’istruzione è uno
dei principali obiettivi dei neoliberali e la pandemia, nota Mirowski,
ha fornito un’ottima occasione per far dei grandi passi in avanti in
questo progetto attraverso l’uso di tecnologie per l’insegnamento a
distanza e la riduzione dei contatti diretti. Oggi la tecnologia non può
essere assolutamente vista da un punto di vista neutrale registrabile
nella rubrica ‘progresso tecnico’, ‘rivoluzione tecnologica’ e via
dicendo. In realtà essa non è mai stata neutrale quasi scaturisse da un
processo puramente ingegneristico. Marx docet. Attualmente le tecnologie
di punta del mondo anglo-occidentale si concentrano nelle nuove
formazioni del capitale monopolistico come Google, Amazon ecc.
In un articolo recentemente uscito negli USA sulla rivista online The
Intercept, ripreso interamente dal londinese Guardian, Naomi Klein
descrive ed analizza la strategia di tali società nel contesto della
crisi pandemica che si presenta come una grande opportunità di sviluppo
non a fini sociali. Il fondamentale pezzo della Klein si concentra sul
ruolo di Eric Schmidt, già CEO di Google e ora presidente della pubblica
NSCAI, National Security Commission Artificial Intelligence. Questa
commissione nazionale di fatto unifica le nuove tecnologie stile Google
ed il complesso militar industriale. Uno dei principali punti concreti e
attuali di contatto riguarda lo sviluppo delle tecnologie G5 in
concorrenza conflittuale con la Cina che hanno una valenza altamente
militare oltre che di consumo.
Fino allo
scoppio della pandemia Covid-19 il punto di coagulo era appunto il
conflitto da sviluppare nei confronti della Cina e delle sue società in
questi campi. L’arrivo del covid ha allargato l’arco d’azione in quanto
ha permesso a persone come l’ex capo di Google – il quale oltre che a
presiedere il NSCAI è attualmente il presidente del Defense Innnovation
Advisory Board del ministero della difesa di Washington – di spingere
al massimo per l’erogazione di fondi pubblici alle attività di
intelligenza artificiale partendo dalla considerazione che le persone
sono dei rischi biologici mentre le macchine no. Un mondo e una società
con contatti minimi, possibilmente contactless, in cui il militare,
l’eternizzazione dell’emergenza sicurezza ed il possesso di metadati
riguardo le persone costituiscono le caratteristiche salienti delle
nuove forme del capitale monopolistico.
D. In tutto questo, il lavoro?
R. Klein osserva che non si tratta però di una società asettica senza
contatti in senso stretto. Dietro i droni di Amazon ad esempio ci sono
decine di migliaia di lavoratori precari impiegati nei centri di
raccolta e smistamento, analoga precarietà caratterizza i dipendenti
delle altre società tecnologiche cui viene dato sempre più il compito di
guidare le trasformazioni infrastrutturali (a scapito delle spese per
infrastrutture civili che negli USA stanno messe malissimo),
istituzionali e amministrative aperte dalla pandemia. Queste nuove forme
del capitale monopolistico – che si fondono sino a confondersi col
settore finanziario – si portano dietro anche il capitale monopolistico
tradizionale fatto di ferraglie varie soprattutto grazie al militare.
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