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31/05/2020

Il pensiero inutile di fronte alle lotte di classe

Sulla rivolta di Minneapolis, nel frattempo tracimata in ribellione sociale in tutto il paese, si sono come di consueto formati due campi ideologici della sinistra inutile. Da una parte il rioters di professione, immarcescibile prodotto dell’Occidente post-novecentesco, a cui la rivolta americana provoca brividi di godimento proprio perché ne valorizza il lato “impolitico”, “disorganizzato”, “insorgente” e, quindi, svincolato completamente da quel Novecento che, al contrario, presentava la politica come fatto mediato da un pensiero e da un’organizzazione strutturati; al lato opposto il “marxista” smaliziato, pronto a derubricare le rivolte americane a “riot” in quanto non ne scorge l’azione politica consapevole di un qualche “partitocomunista” o “sindacatodiclasse” alle sue spalle o alla sua testa. Ambedue questi atteggiamenti raccontano della crisi della sinistra, almeno di quella italiana.

In primo luogo, la rivolta di Minneapolis va riconosciuta per quello che è: una lotta di classe. Non altro, non di meno. Non è una rivolta semplicemente “antirazzista”, sicuramente non nei termini e nel valore che tale concetto ha in Europa, per ragioni storicamente determinate. In secondo luogo, è una lotta di classe organizzata e cosciente, sebbene non nelle forme tradizionali a cui siamo abituati in Europa. Abitudine, anche qui, formata per determinazioni storiche che differenziano le due sponde dell’Atlantico. Il dato di fatto, scarsamente riconosciuto alle altezze della politica italiana, profondamente introflessa e provinciale, è il grado e la natura di classe di queste rivolte, che ciclicamente esplodono per motivi profondi, che si coalizzano attorno alle “ragioni dei neri” perché è proprio attorno a quel pezzo di società americana che si ritrovano le fratture di classe e i suoi antagonismi fondamentali.

Non è certo Minneapolis che rende evidente questo processo politico-sociale traumatico e fervido di coscienza radicale. Sono decenni che le lotte di classe negli Usa avvengono su di un terreno più avanzato, più radicale e più cosciente delle lotte di classe in Europa. È questo il fatto determinante che dovremmo imparare a riconoscere. La violenza ragionata, la radicalità politica e la consapevolezza sociale che tali rivolte ogni volta palesano, in connessione con pezzi di società profonda americana, e quindi per nulla “avanguardistiche” o scollegate dalla realtà, può non essere replicabile nei contesti europei, ma andrebbe riconosciuta per quel tanto che può insegnare alle lotte di classe di questa parte del mondo.

Esistono delle differenze che impediscono a queste lotte di agire, influenzare e piegare i rapporti della rappresentanza politica alle ragioni di queste lotte di classe. Un sistema di potere stratificato che impedisce, al momento, di convogliare queste lotte in un progetto politicamente organizzato e influente. È un dato di fatto: l’anticapitalismo nordamericano non riesce a varcare le soglie del duopolio repubblicano-democratico, ed è dentro questa logica che trovano ragione e razionalità le scelte di lottare dentro il partito democratico da parte di alcuni esponenti di queste lotte di classe e di “liberazione razziale”. Consapevoli, tutti quanti, che non è dentro quel sistema chiuso e corrispondente alle ragioni del monopolio industriale (e militare-industriale, altra caratteristica locale senza paragoni in Europa), che si troverà la soluzione dei problemi della società americana, ma – al tempo stesso – costituisce una manovra tattica per sopravvivere e intercettare la massima parte di quel proletariato americano che si situa lungo una linea del colore che – anche qui – non trova ancora aderenze paragonabili nel contesto europeo.

Sono lotte di classe “malate”, così come è malata la società americana. Lotte di classe che per innescarsi hanno bisogno di un fatto particolare e plateale (ma non sono così tutte le lotte di classe?), e che hanno come combustibile una società nera che corrisponde, in sua massima parte, al proletariato povero americano. Non quella forma di “aristocrazia operaia” impoverita e sconvolta dalla retrocessione sociale che ha votato Trump, ma quel pezzo (enorme) di società subalterna, e su cui si scaricano, in aggiunta, le dinamiche perverse dell’esclusione razziale, della ghettizzazione, della ulteriore marginalizzazione culturale. Il comburente, invece, è dato dalla repressione poliziesca, e poi militare, di una violenza anche qui “malata”, diversa dalle latitudini europee – se di differenza repressiva è possibile parlare. Una linea di classe che si innesta su di una linea del colore che taglia verticalmente – e non trasversalmente – la società americana, secondo parossistiche determinazioni altrove sconosciute, almeno a questo grado di profondità.

È dalla massima alienazione che può scorgersi la massima liberazione. E una società radicalmente alienata come quella nordamericana promette istanze di emancipazione altrove meno gravide di potenzialità. Non per questo è destinata ad un avvenire di sicuro progresso, ma quel che conta, per noi, è qualcosa di molto più importante: che anche nel ventre dell’impero è possibile la lotta di classe, ed è proprio qui che è possibile una sua più cosciente radicalità, di pensiero e di azione. Quel proletariato in lotta non leggerà Marx o Lenin, ma di sicuro lo sta applicando alla realtà meglio dei tanti glossatori nostrani. È questo il vero insegnamento che proviene da Minneapolis, Minnesota, Usa.

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