Sulla rivolta di Minneapolis, nel frattempo tracimata in ribellione
sociale in tutto il paese, si sono come di consueto formati due campi
ideologici della sinistra inutile. Da una parte il rioters di
professione, immarcescibile prodotto dell’Occidente post-novecentesco, a
cui la rivolta americana provoca brividi di godimento proprio perché ne
valorizza il lato “impolitico”, “disorganizzato”, “insorgente” e,
quindi, svincolato completamente da quel Novecento che, al contrario,
presentava la politica come fatto mediato da un pensiero e da
un’organizzazione strutturati; al lato opposto il “marxista” smaliziato,
pronto a derubricare le rivolte americane a “riot” in quanto non ne
scorge l’azione politica consapevole di un qualche “partitocomunista” o
“sindacatodiclasse” alle sue spalle o alla sua testa. Ambedue questi
atteggiamenti raccontano della crisi della sinistra, almeno di quella
italiana.
In primo luogo, la rivolta di Minneapolis va riconosciuta per quello
che è: una lotta di classe. Non altro, non di meno. Non è una rivolta
semplicemente “antirazzista”, sicuramente non nei termini e nel valore
che tale concetto ha in Europa, per ragioni storicamente determinate. In
secondo luogo, è una lotta di classe organizzata e cosciente, sebbene
non nelle forme tradizionali a cui siamo abituati in Europa. Abitudine,
anche qui, formata per determinazioni storiche che differenziano le due
sponde dell’Atlantico. Il dato di fatto, scarsamente riconosciuto alle
altezze della politica italiana, profondamente introflessa e
provinciale, è il grado e la natura di classe di queste rivolte, che
ciclicamente esplodono per motivi profondi, che si coalizzano attorno
alle “ragioni dei neri” perché è proprio attorno a quel pezzo di società
americana che si ritrovano le fratture di classe e i suoi antagonismi
fondamentali.
Non è certo Minneapolis che rende evidente questo processo
politico-sociale traumatico e fervido di coscienza radicale. Sono
decenni che le lotte di classe negli Usa avvengono su di un terreno più
avanzato, più radicale e più cosciente delle lotte di classe in Europa. È
questo il fatto determinante che dovremmo imparare a riconoscere. La
violenza ragionata, la radicalità politica e la consapevolezza
sociale che tali rivolte ogni volta palesano, in connessione con pezzi
di società profonda americana, e quindi per nulla “avanguardistiche” o
scollegate dalla realtà, può non essere replicabile nei contesti
europei, ma andrebbe riconosciuta per quel tanto che può insegnare alle
lotte di classe di questa parte del mondo.
Esistono delle differenze che impediscono a queste lotte di agire,
influenzare e piegare i rapporti della rappresentanza politica alle
ragioni di queste lotte di classe. Un sistema di potere stratificato che
impedisce, al momento, di convogliare queste lotte in un progetto
politicamente organizzato e influente. È un dato di fatto:
l’anticapitalismo nordamericano non riesce a varcare le soglie del
duopolio repubblicano-democratico, ed è dentro questa logica che trovano
ragione e razionalità le scelte di lottare dentro il partito
democratico da parte di alcuni esponenti di queste lotte di classe e di
“liberazione razziale”. Consapevoli, tutti quanti, che non è dentro quel
sistema chiuso e corrispondente alle ragioni del monopolio industriale
(e militare-industriale, altra caratteristica locale senza paragoni in
Europa), che si troverà la soluzione dei problemi della società
americana, ma – al tempo stesso – costituisce una manovra tattica per
sopravvivere e intercettare la massima parte di quel proletariato
americano che si situa lungo una linea del colore che – anche qui – non
trova ancora aderenze paragonabili nel contesto europeo.
Sono lotte di classe “malate”, così come è malata la società
americana. Lotte di classe che per innescarsi hanno bisogno di un fatto
particolare e plateale (ma non sono così tutte le lotte di classe?), e
che hanno come combustibile una società nera che corrisponde, in sua
massima parte, al proletariato povero americano. Non quella forma di
“aristocrazia operaia” impoverita e sconvolta dalla retrocessione
sociale che ha votato Trump, ma quel pezzo (enorme) di società
subalterna, e su cui si scaricano, in aggiunta, le dinamiche perverse
dell’esclusione razziale, della ghettizzazione, della ulteriore
marginalizzazione culturale. Il comburente, invece, è dato dalla
repressione poliziesca, e poi militare, di una violenza anche qui
“malata”, diversa dalle latitudini europee – se di differenza repressiva
è possibile parlare. Una linea di classe che si innesta su di una linea
del colore che taglia verticalmente – e non trasversalmente – la
società americana, secondo parossistiche determinazioni altrove
sconosciute, almeno a questo grado di profondità.
È dalla massima alienazione che può scorgersi la massima liberazione.
E una società radicalmente alienata come quella nordamericana promette
istanze di emancipazione altrove meno gravide di potenzialità. Non per
questo è destinata ad un avvenire di sicuro progresso, ma quel che
conta, per noi, è qualcosa di molto più importante: che anche nel ventre
dell’impero è possibile la lotta di classe, ed è proprio qui che è
possibile una sua più cosciente radicalità, di pensiero e di azione.
Quel proletariato in lotta non leggerà Marx o Lenin, ma di sicuro lo sta
applicando alla realtà meglio dei tanti glossatori nostrani. È questo
il vero insegnamento che proviene da Minneapolis, Minnesota, Usa.
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