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30/05/2020

Il coronavirus ai tempi dell’Ecuador/2

di Alberto Acosta

A questo link il capitolo precedente.

Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale e alle tutele del lavoro.

Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con l’FMI.

Il 26 maggio viene firmato dal Ministro della Difesa Oswaldo Jarrín l’Acuerdo Ministerial 179, che permette alla forze armate di utilizzare armi da fuoco contro i manifestanti per disperdere le proteste sociali.

Nel frattempo la popolazione e la natura subiscono l’attacco delle attività estrattive. Foto dal satellite mostrano l’avvenuta costruzione, in pieno coprifuoco da pandemia, di una strada nella selva della riserva naturale di Yasuni, funzionale ai progetti di sfruttamento petrolifero. Poco più a nord la rottura di due oleodotti sta provocando uno dei peggiori disastri ambientali della regione. Alexik

*****

Guayaquil tra neoliberismo e filantropia

Se il problema dell’inadeguatezza delle abitazioni caratterizza tutto l’Ecuador, a Guayaquil si presenta in maniera ancora più accentuato.

È una città “escludente e neoliberista” a causa del suo tipo di rigenerazione a favore del capitale, con una grande quantità di carenze denunciate già prima della pandemia, e ostinatamente negate dalle autorità e dalle élite cittadine, che anche in questo momento stanno cercando di minimizzare le propie responsabilità additando come causa dei problemi il  centralismo della capitale.

In realtà, come succede da molte altre parti, queste città si trasformano in una macchina che genera sempre più disuguaglianze. L'avvocatessa guayaquileña Adriana Rodriguez così sintetizza la questione:

Non c’è da sorprendersi che Guayaquil, la città dell’Ecuador dove è maggiore la disuguaglianza sociale, sia al primo posto per il numero di contagi e di morti per Covid-19. La città, governata dal partito Social Cristiano da più di 20 anni, è l’evidente dimostrazione del fallimento del “vittorioso modello” neoliberista, tanto celebrato dalle élite al potere.

È che si intrecciano grandi imprese commerciali ed una opulenta ricchezza in una città con il maggior numero di poveri del paese, che rappresentano quasi il 17% della sua popolazione se si sommano gli indicatori di povertà a quelli della povertà estrema1.

In questa città portuale, contrassegnata da differenze sociali estreme, il coronavirus è arrivato ovunque.

Per quel che ci è dato sapere, è giunto  dall’Europa portato tanto da gente benestante, che tornava da viaggi di studio o di turismo, che da persone che lavoravano in Spagna e in Italia.

È evidente che chi ha più possibilità economiche affronta meglio il coronavirus negli ospedali privati, mentre coloro che non hanno questa fortuna, includendo settori di classe media duramente colpiti, hanno dovuto rivolgersi al sistema pubblico causandone la saturazione.

E tra l’altro, portando al collasso l’intero sistema di registrazione dei decessi e sepoltura dei cadaveri.

Covid-19 ha messo a nudo queste e molte altre aberrazioni in una città dove anche a livello municipale si lavora attraverso una serie di alleanze fra pubblico e privato.

Il sistema sanitario negli ultimi anni ha oscillato tra gli sforzi progressisti per modernizzarlo e l’esistenza di sistemi di assistenza sanitaria e sociale provenienti da una curiosa logica filantropico-neoliberista, che ha caratterizzato le strutture di potere della città.

Le amministrazioni comunali cristiano sociali – al potere ininterrottamente da oltre 20 anni – spinte dai populismi e dai sogni di modernizzazione e lungi dall’occuparsi di problemi strutturali come salute, cibo, occupazione e abitazioni, hanno cercato soprattutto di ripulire la “facciata” della città, migliorando ad esempio piazze e parchi con l’intervento di fondazioni in partenariato pubblico-privato.

La questione è più complessa se si considera che questa città – la quale, oltre ad essere la più popolosa dell’Ecuador, è stata anche il suo motore commerciale – continua ad attrarre molte persone che arrivano da altre regioni impoverite alla ricerca di un lavoro.

Proprio per questo il lavoro informale è una delle sue caratteristichepeculiari e i quartieri marginali – spesso privi di pavimentazione, acqua potabile e fognature – crescono inarrestabilmente in assenza di piani di urbanizzazione adeguati e di risposte che risolvano strutturalmente le disuguaglianze e le esclusioni.

Secondo i dati del 2016 sulle abitazioni, il 20% delle case ha carenze di spazio, acqua potabile e fognature. Il 17% della popolazione locale vive in sovraffollamento.

C’è da considerare che questo non è l’unico problema, poiché i servizi sanitari ed educativi sono estremamente precari.

Come osserva l’architetto di Guayaquil Patricia Sánchez, profonda conoscitrice dei problemi della sua città:

L’emergere del settore informale nella città è legato alla logica della concentrazione della proprietà dei terreni in mani private nonché alle rigide normative sul territorio urbano, vere e proprie barriere istituzionali quando si tratta il tema degli alloggi popolari.

Il carattere elitario e tecnocratico di pianificazione urbana finisce per escludere in questo modo gran parte della popolazione, riservando ai poveri le terre di nessun interesse per il mercato immobiliare
2.

Di fatto, in questa città portuale vibrante per il commercio e le migrazioni ma caratterizzata da profonde disuguaglianze, mancano le strategie abitative per creare le condizioni materiali che consentano di articolare modalità più favorevoli per la riproduzione della vita.

Si è trascurato l’habitat popolare, spazio privilegiato per l’autogestione collettiva delle condizioni di produzione e riproduzione di un’economia basata sul lavoro, totalmente contrapposta alla logica del capitalismo immobiliare che concepisce gli alloggi e gli habitat semplicemente come merce.

E certamente non si è fatto nulla per provare almeno a stabilire relazioni di armonia con il contesto naturale.

Riflessioni valide per l’intero paese, di cui resta tanto da conoscere, comprendere e migliorare.

Il rischio di abbandono delle campagne

L’altro pilastro della salute, l’alimentazione, è sempre più dominata dall’agroindustria, ed il controllo dei mercati è nelle mani di pochi gruppi commerciali.

Per citare solo un aspetto, tre catene controllano il 91% del mercato dei prodotti alimentari che necessitano qualche tipo di lavorazione.

La maggior parte delle terre migliori e delle forniture di acqua sono destinate sempre più alle colture rivolte all’agro-esportazione.

Nel frattempo il settore dei lavoratori agricoli sopravvive ad un’emarginazione di lunghissima data.

Contrariamente a quanto si possa immaginare dall’esterno, sono molteplici nelle campagne gli effetti della crisi economica e della pandemia.

Tanto per cominciare i livelli di povertà e marginalità sono più alti che nelle città, elemento ancora più lacerante se rapportato ai gruppi indigeni.

Poi c’è anche da tenere presente la minaccia che può rappresentare il contagio di coronavirus in comunità distanti da infrastrutture sanitarie, già colpite da varie penurie, come già accade in alcune aree amazzoniche.

Secondo i dati del Instituto Nacional de Estadística y Censos (INEC) la povertà è sempre stata molto superiore nelle aree rurali che nel mondo urbano.

Ad esempio il tasso della povertà multidimensionale arrivava al 38,1% a livello nazionale, al 22,7% nei centri urbani ed al 71,1% nelle campagne: in pratica sette abitanti su dieci del settore rurale vivono in condizioni di povertà.

Una realtà che contrasta con la capacità dei contadini e delle contadine di alimentare la società ecuadoriana.

Le piccole unità produttive inferiori a cinque ettari, per lo più gestite da donne, soddisfano il 65% dei generi di consumo alimentare del paniere dei beni nazionale.

Tuttavia, in campagna la malnutrizione infantile è maggiore che in città: il 38% dei bambini da zero a cinque anni soffre di malnutrizione nelle zone rurali, e il 40% nei territori indigeni (rispetto al 26% della media nazionale).

Questa è un infamia per un paese così orientato alla biodiversità e così pieno di potenzialità in tal senso.

In Ecuador persiste una spiccata disuguaglianza nella distribuzione della proprietà in generale, e della terra in particolare, che non è stata in nessuna maniera affrontata dal precedente governo e meno che mai da quello attuale.

Alcune stime basate sui dati dell’INEC indicano che, nel 2017, il coefficiente di Gini3 sulla distribuzione della Terra ha superato 0,8 punti.

In pratica il 2,3% delle unità produttive possiede il 42% della terra coltivabile, con proprietà superiori a 100 ettari prevalentemente orientate alla produzione per l’esportazione.

Mentre il 63% delle unità di produzione agricola, soprattutto condotte da indigeni e contadini, possiede il 6% della superficie coltivabile, e la stragrande maggioranza ne ha meno di un ettaro.

Se questa è la situazione della concentrazione della terra, per l’acqua risulta ancora più iniqua.

Tutto ciò pone una questione assai problematica.

Un tempo, gran parte dei contadini, in particolare quelli appartenenti alle popolazioni indigene, potevano badare a loro stessi e raggiungere, in qualche modo, un livello di maggiore autosufficienza, così da distanziarsi da questo mondo reso folle dall’accumulazione di capitale, che è poi il mondo dove si sta sviluppando il coronavirus.

Ora invece i contadini e gli indigeni sono sempre più legati alla logica del mercato e nonostante producano cibo, soffrono la fame.

E questo si spiega perché traggono i loro prodotti sempre più attraverso monoculture: hanno perso gran parte della capacità di gestire il proprio orto, la loro chacra (fattoria), con prodotti diversificati, con i quali potrebbero soddisfare i propri bisogni alimentari e persino medicinali.

In ogni caso, nonostante si trovi ai margini di molti servizi sociali, come ad esempio quelli sanitari, la campagna sembra comunque maggiormente in grado di affrontare la pandemia rispetto alle grandi città.

Un’economia in asfissia come un paziente con coronavirus

Lo scenario è complesso e, senza peccare di pessimismo, le prospettive sono sempre più oscure.

Come già segnalato, questa conclusione è stata ipotizzata da vari organismi internazionali, e anche il governo dà segnali in questo senso. Per esempio, il vice presidente Otto Sonnenholzner stima che il costo della pandemia raggiungerà il 10-12% del PIL.

Come un paziente con coronavirus, l’economia sta letteralmente asfissiando.

Un soffocamento aggravato dalla mancanza di apparato respiratorio, visto che, trattandosi di una economia dollarizzata4, non ha la possibilità di gestire una propria politica monetaria.

È un’economia che non ha una bombola di ossigeno perché non ha risparmi.

È un’economia gravata da enormi oneri come il debito estero, irresponsabile e molto oneroso, e da molti altri e gravi problemi, sia congiunturali, come il crollo del prezzo del petrolio, sia strutturali, come l’assenza di reali diversificazioni produttive.

Il quadro si complica con le misure recessive del FMI e con l’ostinazione di un governo che non accetta misure creative, straordinarie, e soprattutto sostenute da un modello che riesca ad unire la solidarietà alla giustizia sociale ed ambientale.

Un simile caos genera lugubri prospettive.

Il governo di Lenín Moreno – insensibile ed estremamente disorientato – ha risposto presentando in modo frammentario diverse misure economiche, tra cui la rinegoziazione del debito estero e la richiesta di nuovi prestiti, l’introduzione di nuove imposte sui redditi dei lavoratori del settore pubblico e privato, una tassa del 5% sugli utili delle grandi società, garanzie pubbliche per i crediti alle imprese private, bonus di protezione sociale (60$ per le famiglie più povere), nuove forme di flessibilità del lavoro, la preminenza della contrattazione privata sulle norme in materia di affitti e di lavoro, insieme a misure varie di ampliamento dell’assistenza sociale e sanitaria.

Allo studio anche la riduzione permanente dello stipendio del 10% di tutti i dipendenti pubblici.

Sulla rinegoziazione del debito estero, considerando le esperienze precedenti, non si prevedono miglioramenti sostanziali se le regole dei creditori internazionali continueranno ad essere accettate passivamente dal nostro paese.

In questo scenario si potrà ottenere giusto un sollievo passeggero, un po’ di liquidità per qualche mese, ma l’Ecuador manterrà comunque il percorso di adeguamento preteso dal Fondo Monetario Internazionale, che comporta un’integrazione sempre più profonda nel mercato mondiale come paese esportatore di materie prime, in particolare petrolio.

Prospettiva estremamente preoccupante in un mondo sempre più incerto, e con il mercato del petrolio prossimo al collasso.

Per quanto riguarda l’aumento delle tasse per le aziende, il contributo del 5% degli utili non è un importo compatibile con i profitti accumulati negli ultimi anni, soprattutto dalle imprese più grandi del paese.

Gran parte delle imprese appartiene ad importanti gruppi economici dai quali si potrebbe esigere un contributo maggiore, senza considerare aziende come le compagnie telefoniche (Claro o Telefónica) che hanno registrato profitti superiori al 90%.

Si potrebbe richiedere un contributo più alto al settore bancario, ricordando come tra il 2007 e il 2016 abbia accumulato profitti per 2.820 milioni di dollari.

Come se non bastasse, negli ultimi anni le attività bancarie hanno continuato a guadagnare come mai prima d’ora nel bel mezzo di un’economia in crisi, al punto di ottenere profitti per 1.566 milioni tra il 2017 e il 2019.

A fronte di questa ‘età dell’oro’ del settore bancario un contributo del 5% sugli utili non è sufficiente.

Il governo punta ad ottenere maggiori risorse dalla tassazione delle persone fisiche che dalle società, quando sarebbe più comprensibile il contrario, soprattutto ricordando come una manciata di aziende e di banche hanno realizzato profitti milionari durante il boom dei prezzi di petrolio, ai tempi del governo di Correa, ed anche in seguito, in piena crisi, con il presidente Moreno.

Lo scenario si complica ancora di più con le crescenti pressioni estrattiviste sui territori.

Assieme alla flessibilizzazione del lavoro, anche la flessibilizzazione ambientale dovrà servire – ci diranno – a riattivare l’economia e tornare a rendere competitivo l’apparato produttivo.

In un’intervista televisiva all’inizio di aprile il Ministro delle Risorse Naturali dell’Ecuador, parlando delle attività petrolifere, dell’estrazione mineraria e delle risorse energetiche, ha sintetizzato la sua posizione senza peli sulla lingua:

Lavoreremo più velocemente ... il mondo non si è fermato, è in mezzo a questa crisi ma non si ferma, e noi trarremo da questa crisi l’opportunità di monetizzare [“privatizzare”, nota dell’autore] tutto ciò che è rimasto in sospeso“.

Il messaggio è chiaro. Per superare la crisi pandemica e la recessione globale si annuncia di voler spingere l’acceleratore sul neoliberismo e sull’estrattivismo.

Tutto questo lavorio per riavviare prima possibile l’apparato produttivo si svolge in assenza di considerazioni o analisi su quali siano i problemi di fondo, e in un contesto di crescente confusione politica.

Mentre la situazione diventa sempre più critica in termini economici e soprattutto in termini umanitari, molte forze politiche sono impegnate a pescare nel torbido.

Potenziali candidati per le elezioni parlamentari del 2021 muovono le loro fiches provando ad ottenere benefici elettorali, senza assumersi reali responsabilità neanche in questi momenti critici, incoraggiando ulteriormente il caos.

Il governo, nonostante la sua manifesta debolezza, preme sull’Assemblea Nazionale, che sta elaborando due grandi pacchetti di riforme.

Voci dal regime parlano apertamente di un possibile scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni generali per designare nuove autorità fino al completamento della legislatura, a maggio 2021. Ciò costituirebbe uno scenario molto complesso, tenendo conto della pandemia e della recessione, che potrebbe portare a qualche avventura dittatoriale palese o occulta.

Per ora non appare alcuna forza politica capace di dare una svolta basata su principi di autentica solidarietà, che imponga l’onere di un contributo superiore a chi più possiede e più guadagna.

Vale a dire introdurre tasse e contributi con criteri di equità, riscuotere le tasse non pagate, sospendere il pagamento del debito estero da cui dipende la privatizzazione della sanità, procedere verso la socializzazione del sistema bancario, porre sotto il controllo dello Stato le transazioni in moneta elettronica per dare ossigeno all’economia, sostenere una profonda trasformazione agraria improntata al principio della sovranità alimentare, trasformare il bonus di solidarietà in un reddito minimo vitale...

E tutto questo nel senso di una necessaria transizione post-estrattivista, che consenta al paese di superare la dipendenza perversa, la volatilità e l’incertezza di un’accumulazione basata sulle esportazioni di prodotti primari.

Dalla vecchia normalità ad una normalità ancora peggiore

Per concludere, non possiamo che costatare come il vecchio ordine stia cadendo a pezzi.

Il ritmo frenetico dell’economia mondiale si è fermato. Le società si rinchiudono in se stesse e diventano più precarie di fronte alla pandemia. I regimi politici si irrigidiscono.

Se ci fosse la necessaria comprensione di ciò che sta accadendo, il mondo dovrebbe approfittare di questa tregua e promuovere un cambiamento di rotta.

Ma non sembra sia così. Man mano che l’esistente viene smantellato, inizia a organizzarsi un nuovo regime che, per il momento, sembra recuperare il peggio del vecchio. Vi sono alcune indicazioni che consentono di giungere a questa conclusione scoraggiante.

Lungi dal trarre lezioni adeguate, in molti paesi si riprende a sostenere la vecchia economia, sperando in un rapido ritorno alla normalità.

Affrontano questa sfida per la salute globale proprio come farebbero con un dosso sulla strada.

Ma non si tratta solo di questo.

Ignorando la gravità del momento e le cause profonde che hanno provocato questa grande crisi, non mancano le voci che invocano il recupero della vecchia strada della prosperità.

In altre parole, l’economia deve crescere, aprirsi ancora di più al mercato internazionale, spingendo sulla competitività.

Così, nel mondo impoverito, si propone di accelerare l’inutile crociata per raggiungere lo sviluppo: un fantasma devastante.

Si cercano spiegazioni cospirative per non affrontare il collasso del clima, provocato dalla brutale velocità di accumulazione del capitale, che soffoca la vita degli umani e non umani.

Le ricette imposte dai grandi gruppi di potere, in particolare economici e politici, rimangono invariate. Cercano di approfittare del momento per accelerare l’estrattivismo attraverso una maggiore flessibilità delle normative ambientali, con il pretesto di affrontare la crisi e migliorare la “competitività” dell’apparato produttivo, sfruttando anche nuove forme di precarizzazione del lavoro.

Il risultato di questa evoluzione provocherà senza dubbio frustrazione e disperazione crescente, in particolare tra i settori popolari sempre più abbandonati nell’incertezza.

Per questo non bisognerà sorprendersi se nuove ribellioni sorgeranno dietro l’angolo.

Senza minimizzare la complessità del momento e le minacce incombenti, c’è però anche spazio per l’ottimismo.

Basta guardare le risposte di solidarietà delle comunità indigene e reti di vicinato, di molti gruppi della società tradizionalmente emarginati, e soprattutto delle donne, che attraverso il loro parlamento popolare sono consapevoli della necessità di un impegno collettivo per riorganizzare la speranza e per trasformare tutto, perché “esigono la cura delle persone, cura della vita, salute e dignità“, perchè “nel suono dei cacerolazos di questi giorni, si sente un’eco che dice ... solo el pueblo salva al pueblo“.

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(*) Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.

L’immagine di apertura è del 25 maggio scorso. Il cartello si riferisce alla ripresa delle lotte di massa in Ecuador, come nell’ottobre 2019.

Note:
  1. Rodríguez Adriana, Guayaquil, el coronavirus y la barbarie de la desigualdad, Línea de Fuego, 25/03/2020.
  2. Bertha Patricia Sánchez Gallegos, Mercado de suelo informal y políticas de hábitat urbano en la ciudad de Guayaquil, FLACSO, 2013.
  3. Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza nella distribuzione.
  4. Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense.
Fonte

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