Chiunque abbia affrontato un processo, in vita sua, sa che qualsiasi sentimento può esser provato tranne l'“avere fiducia nella magistratura”. Quando capiti in mano a un giudice la prima cosa che ti chiedi è “chi è? Come la pensa? A chi dà conto di solito?”.
Se ciò accade anche ad imputati “qualsiasi”, di peso zero nella scala sociale, a maggior ragione la domanda si impone quando a finire nel “registro degli indagati” è qualcuno che conta. In quel caso la sua prima domanda diventa “per incarico di chi, questo stronzo mi indaga?”
Non parliamo poi di quando le indagini della magistratura riguardano altri magistrati. Lì si va direttamente nella guerra politica tra correnti, individui, consorterie e fratellanze (solo i militari, forse, hanno più frequentazioni dei magistrati quanto a logge massoniche...).
L’inchiesta perugina che ha puntato su Luca Palamara – ex presidente dell’Anm, ex componente togato del Csm, ex sostituto Procuratore a Roma (uno dei tanti che si è dilettato con il “caso Moro”) – scoperchia un verminaio piuttosto fetido. Che ha certamente per protagonista un “pezzo grosso” tra le toghe, ma che richiede qualche ragionamento sull’intera casta di appartenenza.
Per quanto uno possa esser bravo nel suo mestiere, infatti, è singolare la serie di incarichi accumulati in pochi anni da un 51enne in un mondo dove il potere, di solito, è solidamente in mano agli ultra-sessantenni.
Le intercettazioni tra lui, i colleghi, i politici, i giornalisti e persino gli attori (Raul Bova che chiede “protezione” contro la condanna per evasione fiscale...), sono da sole un testo da commedia dell’arte.
Ma soprattutto rivelano che la famosa “indipendenza della magistratura” esiste solo nelle parole della Costituzione, oltre che nei libri sulla “tripartizione dei poteri in democrazia”. Ma nei fatti è l’esatto contrario...
Non nel senso banale che i giudici siano “servi del capitale” (viviamo in un assetto capitalistico, ovvio che istituzionalmente non possano esser altro). Ma in quello assai più concreto per cui ogni magistrato è altamente consapevole di disporre di un potere fortissimo (decide sulla libertà e il successo di chi capita a tiro) e lo usa per motivazioni che nulla hanno a che fare con le istituzioni della Repubblica.
La carriera personale al primo posto, come confessa – sconfortato – il presidente dimissionario dell’Anm, Luca Poniz. Sottolineando come non ci sia nei fatti troppa distinzione tra “membri togati” (ossia magistrati di carriera eletti dai colleghi) e “membri laici” (di nomina politica) nel Consiglio Superiore della Magistratura, cosiddetto “organo di autogoverno della magistratura” presieduto formalmente dal Presidente della Repubblica.
“Si discute molto dei togati, ma non ci si preoccupa che negli anni la componente togata ha espresso candidati molto più vicini alla politica di quanto fosse in passato”. Traduzione semplice, ma utile: significa che le differenze sono ormai solo nei titoli universitari e nel ruolo ufficialmente ricoperto, non nel concreto operare quotidiano.
Poi, certo, ci sono sempre le eccezioni, e tutti si nascondono velocemente dietro le statue erette a Falcone e Borsellino, per poter continuare a fare i propri “magheggi”.
Establishment è del resto definizione flessibile, che abbraccia chiunque abbia un ruolo rilevante negli assetti di governance di un Paese, indipendentemente dal ruolo momentaneamente esercitato. Il passaggio da un ruolo all’altro (dalla magistratura alla politica, o alle strutture commissariali o ai vertici aziendali) è la norma, non il caso raro.
E la frequentazione continua, di tutti con tutti, è la condizione sine qua non per restare a galla, avanzare, rintuzzare i concorrenti più pericolosi, arricchirsi. Sembra un quadro di “Cafonal”, ma è molto peggio...
Le intercettazioni smentiscono che il “far politica” attraverso inchieste e sentenze sia una prerogativa delle “toghe rosse”. Le differenze tra correnti sono infatti inessenziali, e lo prova lo stesso Palamara. Il quale, mentre concerta con Flavio Lotti (ricordate? Il braccio destro di Matteo Renzi che a volte prendeva deleghe ai servizi segreti, in altre il ministero dello sport e – tutti i giorni – brigava per le nomine in magistratura), contemporaneamente briga con magistrati che per realizzare le proprie ambizioni “sentono la Lega”.
È la fogna normale della “classe dirigente” di questo disgraziato Paese. Quella melma che rende molto problematico qualsiasi progetto di radicale cambiamento sociale, perché ha maciullato competenze, etica, “professionalità”, rigore morale, senso del bene pubblico e quant’altro, ma è indispensabile per ricostruire un assetto funzionante per gli interessi collettivi.
Di questo non porta la responsabilità solo “il capitalismo” – che c’è ovunque. Accontentarsi di questa “spiegazione” lascia impotenti di fronte a una struttura (e una cultura) del Potere che affonda nello Stato sabaudo, nelle gerarchie vaticane, nei residui borbonici, nella “modernizzazione fascista” e nella “mancata epurazione” repubblicana.
Un inguacchio che fa funzionare male anche lo stesso capitalismo (a pezzi oggi per la crisi sistemica mondiale) e che minaccia di sopravvivere e condizionare qualsiasi sviluppo futuro.
Per decenni, di recente, siamo stati bombardati con il mito della magistratura e delle polizie, come se questi corpi separati fossero, per ragioni incomprensibili, immuni dal “contagio”.
Finalmente crolla. E forse si può cominciare a ragionare guardando la realtà e cercando le soluzioni. Senza più affidarsi a “santi” che sono solo un travestimento degli stessi demoni.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento