Nel fine settimana è approdata indisturbata in un porto del Venezuela
la prima delle cinque petroliere inviate dal governo iraniano per
sopperire alla cronica carenza di carburante del paese latinoamericano
sottoposto alle feroci sanzioni di Washington. Una seconda imbarcazione è
già entrata nelle acque venezuelane e, per il momento, gli Stati Uniti
non hanno mosso un dito per impedirne il transito, nonostante la
retorica minacciosa dei giorni scorsi.
Complessivamente, il contributo della Repubblica Islamica alle
necessità di Caracas dovrebbe ammontare a oltre 1,5 milioni di barili di
benzina, assieme a un componente chimico da utilizzare nei processi di
raffinazione del greggio, per un valore totale di 46 milioni di dollari.
Secondo la stampa internazionale, il Venezuela avrebbe pagato in oro il
carico in arrivo dall’Iran, ma la notizia è stata smentita dal governo
di quest’ultimo paese.
L’arrivo delle petroliere iraniane è stato accolto trionfalmente
dalle autorità venezuelane. La marina bolivariana ha scortato le navi
all’interno delle proprie acque fino alla costa, mandando un messaggio
chiarissimo di sfida agli Stati Uniti e alle forze dispiegate
recentemente nel mar dei Caraibi dalla Casa Bianca con la scusa di
contrastare il traffico di droga. La decisione americana era stata una
delle ultime tra quelle messe in atto in piena emergenza Coronavirus per
fare pressioni su Caracas. In realtà, il movimento di stupefacenti
verso gli Stati Uniti è alimentato quasi interamente dalla Colombia e
transita attraverso i paesi centroamericani, i quali, ad eccezione del
Nicaragua, sono tutti strettissimi alleati di Washington.
Il governo USA non aveva comunque annunciato piani per intercettare e
ostacolare le petroliere iraniane. I vertici della Repubblica Islamica,
da parte loro, avevano avvertito la Casa Bianca a non interferire nella
legittima fornitura di carburante destinato al Venezuela. Il presidente
iraniano, Hassan Rouhani, sabato scorso aveva assicurato che gli Stati
Uniti si sarebbero ritrovati a fronteggiare seri “problemi” in caso di
ostacoli al movimento delle petroliere.
A scoraggiare un intervento americano è in primo luogo il timore di
una possibile escalation militare in Medio Oriente. Lo stop al petrolio
diretto in Venezuela potrebbe infatti spingere l’Iran a mettere in atto
la minaccia lanciata tempo fa a Washington, quella cioè di bloccare il
traffico di greggio nella stretto di Hormuz, da cui transita quasi un
terzo del totale mondiale spedito via mare.
La manovra venezuelano-iraniana è stata poi con ogni probabilità
progettata quanto meno con il consenso di Russia e Cina, sempre più
chiaramente coinvolte nelle vicende di Caracas a sostegno del legittimo
presidente Maduro. Entrambe le potenze hanno forti interessi economici e
strategici nel paese latinoamericano e nel recente passato avevano
chiarito a sufficienza l’assoluta indisponibilità ad accettare un colpo
di mano americano contro Maduro.
Se il cambio di regime a Caracas continua a essere in cima alla lista
delle priorità di determinati ambienti di potere americani, è
ugualmente innegabile che il precipitare della situazione in Venezuela
rappresenterebbe un rischio enorme per Trump a pochi mesi dalle
presidenziali e in presenza di una situazione interna drammatica sul
fronte economico e sanitario. In questo quadro, la mossa iraniana, in
collaborazione con Mosca e Pechino, alza ulteriormente la posta per
Washington, rendendo ancora più rischiosa una mossa avventata in ambito
militare.
Il
comportamento americano deve essere ad ogni modo valutato con
attenzione. Il livello di disperazione che caratterizza gli ambienti di
potere negli USA davanti alla rapida perdita di influenza su scala
globale suggerisce di non escludere decisioni irrazionali. Tanto più che
quanto sta accadendo nelle acque venezuelane è un’operazione
orchestrata da due paesi “canaglia”, soggetti a entrambi alle durissime
sanzioni economiche imposte unilateralmente da Washington.
La rottura del presunto isolamento del Venezuela, peraltro di natura
soprattutto simbolica visto che le forniture iraniane copriranno un
fabbisogno di non più di tre settimane, risulta di estremo rilievo anche
perché arriva a poca distanza da iniziative eclatanti tentate
dall’amministrazione Trump per rovesciare il governo Maduro. La Casa
Bianca aveva messo ad esempio una taglia da 15 milioni di dollari sul
presidente venezuelano, ridicolmente accusato di narcotraffico.
Inoltre, solo poche settimane fa era finito malamente un tentativo di
invasione sulle coste del Venezuela ad opera di mercenari al servizio
di una compagnia americana, reclutata dal fantoccio di Washington, Juan
Guaidó, da pagarsi con oltre 200 milioni di dollari letteralmente rubati
al governo e al popolo venezuelani. Come quest’ultima impresa fallita
miseramente, anche l’arrivo delle petroliere iraniane contribuisce a
screditare le forze di opposizione su cui si basano gli Stati Uniti per
tentare il golpe a Caracas. Infatti, lo stesso Guaidó aveva di fatto
invocato l’intervento militare USA per impedire la fornitura di beni di
cui il suo paese ha assoluto bisogno.
Gli eventi di questi giorni nel mar dei Caraibi potrebbero
concludersi in un’autentica umiliazione per gli Stati Uniti, i quali
stanno vedendo emergere un elemento nuovo nella competizione strategica
in quello che è considerato da sempre il “giardino di casa” di
Washington. La frustrazione, assieme all’arroganza, americana a questo
proposito è trapelata tra l’altro dalle dichiarazioni del comandante
responsabile delle operazioni nel continente americano, ammiraglio Craig
Faller. Quest’ultimo ha condannato il comportamento dell’Iran perché
diretto a “conquistare vantaggi in una regione vicina [agli USA] a
discapito dei nostri interessi”.
Per quanto riguarda l’impotenza evidenziata finora davanti
all’iniziativa iraniana, la frustrazione a Washington è stata
inequivocabile nei giorni scorsi. Un editoriale del Wall Street Journal
era arrivato a chiedere apertamente un’azione militare per fermare le
petroliere dirette in Venezuela. Per il giornale di Rupert Murdoch,
l’inazione sarebbe infatti più rischiosa della possibile esplosione di
un conflitto armato, nonostante la più che dubbia legalità di
un’operazione da condursi in acque internazionali.
Il Washington Post di Jeff Bezos ha invece dato credito alle
congetture di quanti sostengono come l’Iran non stia fornendo solo
benzina, ma utilizzi le petroliere per portare in Venezuela materiale di
intelligence per installare una postazione nel paese latinoamericano da
cui intercettare comunicazioni “aeree” e “marine”. Il Post,
inoltre, ha evidenziato con irritazione come a uscire vincitrice dalla
violazione dell’embargo imposto al Venezuela sia soprattutto la Russia.
Per finire, l’imbarazzo americano è moltiplicato anche dal fatto che
la provocazione iraniana si colloca in un frangente segnato da una
relativa de-escalation dello scontro con Teheran, da cui proprio
l’amministrazione Trump sembra dover trarre i maggiori benefici.
Principalmente per ragioni elettorali, la Casa Bianca aveva acconsentito
tacitamente ad abbassare i toni e ad astenersi da iniziative minacciose
dirette contro la Repubblica Islamica, così da evitare un conflitto
rovinoso in Medio Oriente.
Il
convergere degli interessi dei due paesi nemici era apparso chiarissimo
in Iraq, dove recentemente si è insediato un nuovo primo ministro dopo
mesi di stallo politico grazie al via libera di Washington e Teheran. In
questa prospettiva andava inquadrata anche la decisione USA di ritirare
una parte del proprio contingente militare dall’Arabia Saudita, ovvero
il principale rivale strategico dell’Iran in Medio Oriente dopo Israele.
Un riesplodere delle tensioni in America Latina riporterebbe perciò
all’ordine del giorno l’ipotesi di uno scontro armato tra USA e Iran,
con i rischi già ricordati per le prospettive di rielezione di Trump,
per non parlare dei contraccolpi economici. Le intenzioni americane
potranno essere comunque verificate meglio nei prossimi giorni, quando
sulle coste del Venezuela dovrebbero attraccare le tre petroliere
iraniane ancora in navigazione nell’oceano Atlantico.
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