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20/05/2020

L’ipoteca dello smart working. Più subalterni ma con la convinzione del contrario

Con il lockdown durato per settimane c’è stato il boom del lavoro in smart working. Le stime parlano di circa 8 milioni di persone che hanno lavorato da casa o comunque da remoto. Lo rivela una indagine promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, secondo cui, prima dell’epidemia, erano circa 500mila le persone che lavoravano in questa modalità.

È evidente che questa trasformazione in un pezzo così rilevante del mondo del lavoro non potrà che avere conseguenze e, nonostante il gradimento espresso da molte lavoratrici e lavoratori, riteniamo che non saranno affatto tutte positive, al contrario.

Si sta palesando davanti a noi, in tutta evidenza, quel processo di sussunzione nel capitale di quel lavoro mentale che tende a caratterizzare la nuova fase del mondo in cui ci è toccato di vivere.

L’indagine è stata condotta attraverso un questionario online al quale hanno risposto 6.170 persone, di cui il 94% lavoratrici e lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Dall’analisi emerge anche che il 60% degli intervistati vorrebbe proseguire l’esperienza di smart working anche quando l’emergenza sarà finita, mentre il 20% non vorrebbe continuare a lavorare in questa modalità. I più propensi al lavoro agile sono gli uomini.

Nel 37% dei casi il lavoro a distanza è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro. Nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro; nel 27% dei casi in modo negoziato attraverso intervento del sindacato.

Il 69% di chi sta lavorando in smart working aveva già competenze informatiche mentre il 31% non ne era in possesso. Solo il 31% ha risposto di poter disporre di una stanza per sé per poter lavorare da casa in relativa tranquillità (per il telelavoro ad esempio è un requisito obbligatorio). Gli altri si sono dovuti arrangiare. Nella maggior parte dei casi gli spazi per lavorare sono stati ricavati (50%) oppure si è proceduto ad un “nomadismo domestico” (19%).
Nel lavoro da casa gli intervistati risultano prestare poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%) e al controllo a distanza (55%). Si presta invece abbastanza o molta attenzione al ricircolo d’aria (85%), alla tutela della privacy (73%), alla correttezza della postazione di lavoro (66%), alle pause di lavoro (54%).

Il fatto che 8 milioni di lavoratrici e lavoratori in questi mesi abbia assicurato la produzione (talvolta anche con incrementi) attraverso lo smart working, sta indubbiamente indicando una modalità lavorativa che aziende e amministrazioni pubbliche potrebbero sfruttare al massimo. Con tante conseguenze.

Di solito si tende a mettere in evidenza quelle positive (meno traffico, meno assembramenti sui luoghi di lavoro, risparmi aziendali su consumi energetici, risparmi sui benefit dei lavoratori etc.). Si tende invece a nascondere il bicchiere mezzo vuoto: dispersione e isolamento delle lavoratrici e lavoratori dai necessari rapporti sociali che intervengono sui luoghi di lavoro, allungamento fattuale della giornata lavorativa, estensione e sanzione definitiva del controllo a distanza, reintroduzione del cottimo, riduzione delle retribuzioni.

Sullo smart working è bene alzare un muro adesso per poterlo contrattare al meglio. Una ulteriore atomizzazione del mondo del lavoro è foriera di sventura, anche nelle sue ricadute sociali complessive che evocano la Shut in economy e la società del distanziamento/autosiolamento.

Se si lascia andare oggi lo smart working senza stabilire subito e più che bene parametri, limiti e caratteristiche delle prestazioni da remoto, ci si troverà di fronte ad un fatto compiuto che ipotecherà il mondo del lavoro e la società del futuro, rendendo lavoratrici e lavoratori immensamente più deboli e subalterni e magari con l’impressione di essere più felici.

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