Con il lockdown durato per settimane c’è stato il boom del lavoro in smart working. Le stime parlano di circa 8 milioni di persone che hanno lavorato da casa o comunque da remoto. Lo rivela una indagine promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, secondo cui, prima dell’epidemia, erano circa 500mila le persone che lavoravano in questa modalità.
È evidente che questa trasformazione in un pezzo così rilevante del mondo del lavoro non potrà che avere conseguenze e, nonostante il gradimento espresso da molte lavoratrici e lavoratori, riteniamo che non saranno affatto tutte positive, al contrario.
Si sta palesando davanti a noi, in tutta evidenza, quel processo di sussunzione nel capitale di quel lavoro mentale che tende a caratterizzare la nuova fase del mondo in cui ci è toccato di vivere.
L’indagine è stata condotta attraverso un questionario online al quale hanno risposto 6.170 persone, di cui il 94% lavoratrici e lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Dall’analisi emerge anche che il 60% degli intervistati vorrebbe proseguire l’esperienza di smart working anche quando l’emergenza sarà finita, mentre il 20% non vorrebbe continuare a lavorare in questa modalità. I più propensi al lavoro agile sono gli uomini.
Nel 37% dei casi il lavoro a distanza è stato attivato in modo concordato con il datore di lavoro. Nel 36% dei casi in modo unilaterale dal datore di lavoro; nel 27% dei casi in modo negoziato attraverso intervento del sindacato.
Il 69% di chi sta lavorando in smart working aveva già competenze informatiche mentre il 31% non ne era in possesso. Solo il 31% ha risposto di poter disporre di una stanza per sé per poter lavorare da casa in relativa tranquillità (per il telelavoro ad esempio è un requisito obbligatorio). Gli altri si sono dovuti arrangiare. Nella maggior parte dei casi gli spazi per lavorare sono stati ricavati (50%) oppure si è proceduto ad un “nomadismo domestico” (19%).
Nel lavoro da casa gli intervistati risultano prestare poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%) e al controllo a distanza (55%). Si presta invece abbastanza o molta attenzione al ricircolo d’aria (85%), alla tutela della privacy (73%), alla correttezza della postazione di lavoro (66%), alle pause di lavoro (54%).
Il fatto che 8 milioni di lavoratrici e lavoratori in questi mesi abbia assicurato la produzione (talvolta anche con incrementi) attraverso lo smart working, sta indubbiamente indicando una modalità lavorativa che aziende e amministrazioni pubbliche potrebbero sfruttare al massimo. Con tante conseguenze.
Di solito si tende a mettere in evidenza quelle positive (meno traffico, meno assembramenti sui luoghi di lavoro, risparmi aziendali su consumi energetici, risparmi sui benefit dei lavoratori etc.). Si tende invece a nascondere il bicchiere mezzo vuoto: dispersione e isolamento delle lavoratrici e lavoratori dai necessari rapporti sociali che intervengono sui luoghi di lavoro, allungamento fattuale della giornata lavorativa, estensione e sanzione definitiva del controllo a distanza, reintroduzione del cottimo, riduzione delle retribuzioni.
Sullo smart working è bene alzare un muro adesso per poterlo contrattare al meglio. Una ulteriore atomizzazione del mondo del lavoro è foriera di sventura, anche nelle sue ricadute sociali complessive che evocano la Shut in economy e la società del distanziamento/autosiolamento.
Se si lascia andare oggi lo smart working senza stabilire subito e più che bene parametri, limiti e caratteristiche delle prestazioni da remoto, ci si troverà di fronte ad un fatto compiuto che ipotecherà il mondo del lavoro e la società del futuro, rendendo lavoratrici e lavoratori immensamente più deboli e subalterni e magari con l’impressione di essere più felici.
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