Ci dicono che i Wu Ming abbiano preso il consueto granchio
rossobruno. Capita anche ai migliori. Ne prendessero anche altri dieci,
non ci sogneremmo mai di additarli alla pubblica vendetta in quanto
rossobruni. Figuriamoci: sono compagni, con cui magari condividiamo
ormai poco. Il problema è che per un decennio si sono intestati il ruolo
di censori morali della sinistra non allineata. A cosa, non si capisce
bene, visto che l’eclettismo la fa da padrone: soprattutto Foucault, un
po’ di Zizek, tanta italian theory. L’importante, come detto, è
stato marchiare di rossobrunismo tutto ciò che valicava il confine del
rispettabile. Ovviamente, come ogni processo politico-culturale di
questo tipo (e di questi tempi), l’operazione wuminghiana si è inserita
su di un fenomeno esistente, sebbene dalle proporzioni notevolmente
accresciute ad arte dagli accusatori: il rossobrunismo esiste
effettivamente, ed è andato espandendosi in questi anni. Eppure, si
trattava e si tratta soprattutto di un fenomeno marginalissimo e
unicamente virtuale. Innalzarlo a problema decisivo dei nostri tempi,
almeno a sinistra, ha fatto parte di un’operazione di costruzione del
nemico utile, attraverso cui definire i campi dell’amicizia e
dell’inimicizia.
Le giuste accuse verso determinati scivolamenti a destra, nella
geopolitica e nell’ultra-realismo di stampo bismarckiano, statolatrico e
apertamente nazionalista, si sono subito convertite in scomuniche verso
tutti quei compagni e verso tutta quella sinistra che non coincidesse
con le proprie posizioni. La lotta all’Unione europea, per dire.
L’involuzione nazionalista di certo anti-europeismo – fenomeno da
condannare – ha finito immediatamente per marchiare, a volte
implicitamente altre volte esplicitamente, tutta quella sinistra
anti-europeista come “equivoca”, “ambigua”, insomma una destra
mascherata. Collegato a questo, ma su di un piano più generale, chiunque
osasse, a sinistra, organizzare un discorso sulla questione nazionale
nel XXI secolo in Occidente, chiunque proponesse un ragionamento
originale, magari anche rischioso – perché no? – sul confine tra
sovranità nazionale e sovranità popolare, anch’esso subiva la scomunica:
rossobruno. Uscire dalle famigerate comfort zone vale solo per
chi ha i quarti di nobiltà intellettuale a prova di interdizione,
evidentemente. Ci si può allontanare solo in direzione di mettersi più
comodi, mai di rischiare veramente pur di uscire dalla crisi.
Lo stesso dicasi per la questione sociale. Rossobruno veniva indicato
colui che provasse a riconoscere uno specifico problema di
impoverimento e di disorientamento di porzioni di proletariato locale (horribile dictu)
senza intrecciare immediatamente e acriticamente tale discorso con la
questione migrante. Questione importantissima, decisiva e, anche secondo
noi, profondamente collegata alla questione sociale intesa nei termini
più vasti. E però, anche qui, l’ipotesi stessa di ragionare sulle
contraddizioni materiali, che non sempre coincidono nel discorso
politico con le contraddizioni principali, trovava pronto l’anatema:
rossobruno, sciovinista, cripto-razzista.
Sul campo della lotta antimperialista, poi, non ne parliamo. Chiunque
non difendesse accanitamente le posizioni occidentali, chiunque
provasse – in termini accorti e circostanziati – a sostenere “le ragioni
degli altri”, siano questi la Cina, la Russia, il Venezuela o il
Donbass, aveva sempre e comunque inequivocabilmente scavallato il campo,
accampandosi tra le fila del nemico. L’imperialismo veniva, e viene,
negato in nome del “tutti sono imperialisti”: lo sono gli Usa come la
Russia, la Cina come la stessa Italia. Tutti sono imperialisti, dunque
non è più possibile l’antimperialismo. A meno che non provenga da popoli
derelitti, disorganizzati e destinati alla sconfitta, su cui costruire
narrazioni artificiosamente mitopoietiche che disperdono una gerarchia
di poteri secondo i quali esiste una scala di problemi definita, non
tutta la realtà si presenta come problema indefinito.
Il fatto è che su queste ed altre questioni le difficoltà della
sinistra di costruire una posizione originale e di classe si scontrano
con la deriva geopolitica in corso da parte di alcuni, anche nella
stessa sinistra. La critica doveva e dovrà continuare ad essere serrata.
Ma la scomunica verso i compagni non ha aiutato, anzi: ha contribuito
solamente ad approfondire il solco, facendo cadere alcuni a destra,
altri nell’impossibilità di pensare davvero a una via d’uscita. E così,
ricostruiti e rinsaldati i fronti pericolosamente vacillanti nel
post-Genova, ecco di nuovo la comfort zone ideologica e
intellettuale, l’accomodamento nel consentito e nel prevedibile, nel
rassicurante e nell’appagante. Di qua “i compagni”, quelli veri, anzi:
gli unici possibili; di là i geopolitici, i nazionalisti inconsapevoli,
insomma i traditori. Verso cui è inevitabile la lista di proscrizione.
Ricapitolando, dunque: uno scivolone, anche fossero altri dieci, non
cambia la natura di un collettivo, anche fosse di scrittori quali i Wu
Ming. Non lo cambia per loro, ma non lo cambia – non lo ha cambiato –
per tutti quei compagni che hanno provato a pensare diversamente in
questi anni. Questa e solo questa sarebbe l’autocritica necessaria.
Consapevoli, però, che farla significherebbe uscire veramente dalla comfort zone,
decidere di confrontarsi davvero, e non con in mano il pulsante “fine
di mondo” della scomunica ad arte, usata sovente per regolare conti
politici che andavano ben al di là dei meriti della questione. Una
dinamica perversa che, una volta inaugurata, non ha potuto portare ad
altra soluzione che la scomunica vicendevole: rossobruni contro
globalisti, sovranisti contro europeisti. Dove sono le ragioni di classe
in questa dialettica?
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