Vale senz’altro la pena di dedicare una serata alla visita della mostra virtuale A ferro e fuoco, che documenta l’invasione e l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943.
Alla mostra, realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Trieste, hanno contribuito alcuni degli storici impegnati nello studio dell’occupazione italiana della Jugoslavia, coordinati da Raoul Pupo, già docente all’Università di Trieste.
La messa in rete della mostra ha coinciso, il 6 aprile, con l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia, a cui parteciparono truppe tedesche, italiane e ungheresi. Una data che è stata scelta da oltre ottanta storici italiani per inviare una lettera al Presidente Mattarella affinché a tale pagina ignobile e sanguinosa della nostra storia sia finalmente tolto il velo di omertà che la copre, mandando finalmente nel museo degli orrori il mito degli “italiani brava gente”, smentito da studi storici e da infinite testimonianze. Pagina ancora oggi nascosta a livello di massa, basti pensare che nei libri di storia delle scuole è quasi sempre ignorata o descritta con inspiegabile benevolenza.
Circa cinquanta cartelli, ciascuno accompagnato da testimonianze video di storici, sopravvissuti e militari italiani costituiscono il corpo della mostra. I cartelli si presentano in realtà come piuttosto “freddi” e distaccati, creando un contrasto voluto con le testimonianze, in diversi casi invece assai vibranti, che li accompagnano.
La mostra documenta tutte le fasi dell’occupazione italiana, durata dal 1941 sino all’armistizio del 1943, quindi dalle prime fasi dell’occupazione, alla repressione della lotta partigiana jugoslava, ai massacri e alle razzie perpetrate dalle truppe italiane sulla popolazione civile, ai campi di concentramento costruiti dagli italiani in vari luoghi della Jugoslavia e dell’Italia.
Dalla documentazione e dalle testimonianze emerge un quadro terribile, da cui si evince che le direttive di repressione della lotta partigiana e di sottomissione, umiliazione e in alcuni casi sterminio della popolazione civile emanate dai comandanti italiani, i generali Robotti e Roatta, furono molto simili a quelle naziste che la popolazione italiana dovette subire dal 1943 al 1945. Paesi messi a ferro e fuoco, civili uccisi solo per il gusto di ammazzare, razzie di cibo e di abiti che lasciavano la popolazione senza sostentamento e difesa dal freddo furono all’ordine del giorno.
La documentazione di questi crimini di guerra è sostenuta, nella mostra, soprattutto in base a testimonianze, tratte da lettere alle famiglie, di camicie nere e soldati italiani, persone quindi insospettabili di ingigantire la gravità dei loro stessi atti.
Una pagina particolarmente tragica riguarda i campi di concentramento in cui vennero deportati non tanto partigiani (che erano subito fucilati, se caduti prigionieri), ma soprattutto un gran numero di civili jugoslavi detenuti in condizioni disumane, che provocarono la morte di migliaia di questi uomini e donne, causata da malattie, dalla fame e dalla sete, dal freddo o dal caldo opprimente.
Particolarmente grave è la storia del campo dell’isola di Rab/Arbe, ma orribili furono anche quelli di Gonars (Udine) e di Renicci (Arezzo), dove vennero mandati i deportati eccedenti alla capienza del primo. Una storia peraltro già ben documentata nel libro di Alessandra Kersevan Lager italiani, pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, di Roma, nel 2008.
Di fronte a tutti questi veri e propri crimini di guerra e contro l’umanità, è stupefacente che nessuno dei responsabili sia mai stato punito. È purtroppo la nota storia della mancata “Norimberga Italiana”, ma soprattutto della copertura che lo Stato Italiano dette ai criminali di guerra che avevano insanguinato la Jugoslavia (lo stesso discorso vale per l’URSS e per le imprese coloniali africane).
Una copertura che fece si che dei quasi 4.000 italiani che la Jugoslavia denunciò alla commissione dell’ONU per i crimini di guerra e dei 729 che come tali furono riconosciuti ufficialmente, nessuno pagò per ciò che aveva fatto. I generali Roatta e Robotti, assolti dai tribunali italiani, trascorsero la loro vita il primo in Spagna, ospite del caudillo Franco e il secondo semplicemente nella sua casa al mare di Rapallo.
Quanto al generale Gambara, responsabile del campo di concentramento di Rab, anch’egli riparato in Spagna, nel 1952 fu persino reintegrato nell’esercito italiano.
A questo punto è doveroso aprire anche la pagina della continuità di molte istituzioni della neonata Repubblica Italiana con il fascismo, che vide molti criminali del ventennio non solo uscire indenni dopo quanto avevano commesso, ma persino rientrare nella vita pubblica.
Per rimanere solo ai fatti della Jugoslavia, basta ricordare che Giuseppe Pieche, ufficiale di collegamento tra il governo fascista italiano e gli ustascia di Ante Pavelič, diresse per anni una struttura segreta anticomunista, anticipatrice di Gladio, al Ministero degli Interni diretto dal democristiano Mario Scelba.
La mostra si può visitare a questo sito.
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