Cooperazione o collisione di interessi tra Italia e Turchia? “Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno” ha affermato Draghi a seguito dello screzio sulla visita della Von der Leyen ad Ankara, e poi ha aggiunto che: “Con questi chiamiamoli dittatori bisogna essere franchi nell’espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l’equilibrio giusto”.
Dopo le parole di Draghi contro Erdogan, il ministero degli Esteri di Ankara ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara. Il ministro degli Esteri turco, Cavusoglu, ha replicato alle dichiarazioni del Presidente del consiglio italiano con toni pesanti: “Il premier italiano, nominato, Mario Draghi, ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile nei confronti del nostro presidente della Repubblica, che è stato scelto attraverso elezioni” – ha detto Cavusoglu – “Condanniamo con forza le parole riprovevoli e fuori dai limiti e le rispediamo al mittente”.
Con un tocco di perfidia molto levantina, il ministro degli esteri turco ha sottolineato come Draghi non sia un presidente eletto – ma nominato – mentre Erdogan è stato eletto. Altri esponenti politici turchi hanno invece fatto esplicito riferimento ai dittatori nella storia italiana ricordando Mussolini.
Potremmo disquisire a lungo se l’essere nominati o eletti sia sinonimo di democrazia. Alcuni eletti nella storia si sono rivelati dittatori peggiori di quelli nominati. Ed alcuni presidenti nominati si sono rivelati migliori di dittatori democraticamente eletti. Non ci sembra però questo il caso.
La sostanza delle cose che intendiamo mettere in evidenza è un’altra. Nel XXI Secolo e nel Mediterraneo gli interessi di Italia e Turchia possono convivere (come dice Draghi) o sono destinati ad entrare in collisione?
Non pare, ma i punti di collisione con Ankara in questi ultimi anni sono diventati superiori a quelli di cooperazione, dentro e fuori la “casa comune” della Nato.
Lo testimonia la visita di stato di Draghi in Libia e il frenetico attivismo del Ministro degli Esteri Di Maio nella regione mediterranea e subsahariana.
In Libia l’Italia ha sistematicamente incespicato cercando di barcamenarsi tra la lealtà ufficiale al governo di Tripoli e il dialogo con Haftar, con diversi incidenti di percorso che ne hanno minato la credibilità di interlocutore storico e privilegiato della Libia (1).
Dentro questa smagliatura si è infilata la Turchia sostenendo apertamente e militarmente il governo di Tripoli contro Haftar e la cordata sunnita che lo ha sostenuto (Egitto, Emirati, Arabia Saudita).
Adesso l’impronta di Ankara sugli assetti della Libia è molto più forte che cinque anni fa. E non solo sulla terraferma.
Una partita sostanziosa ma rischiosa, si è aperta infatti sui confini marittimi delle Zee (Zone Economiche Esclusive) nel Mar Mediterraneo. Nel settore orientale la Turchia si sta allargando a discapito di Grecia e Cipro nelle aree dove sono stati rilevati importanti giacimenti di gas nei fondali marini. Nel corso di questa operazione espansiva Ankara non ha esitato a mostrare i denti sia all’Italia (costringendo nel febbraio 2018 una nave dell’Eni ad allontanarsi dalle acque di Cipro) sia alla Francia (incidenti navali con le navi militari francesi nel giugno 2020). E stiamo parlando di tensioni e conflitti tra paesi aderenti alla stessa organizzazione: la Nato.
Nel settore occidentale la Turchia ha stretto un accordo con la Libia per agganciare le due reciproche Zee a discapito dell’Egitto. Quest’ultimo e l’Italia – tramite l’Eni – collaborano da tempo allo sfruttamento del gigantesco giacimento di gas di Zhor e in quello di Noor al largo delle acque egiziane. La congiunzione delle Zee di Libia e Turchia limiterebbe fortemente le possibilità di esplorazione e perforazione marina sia dell’Egitto che dell’Italia.
Molti si sono indignati per il basso profilo avuto dalle autorità italiane verso l’Egitto sul brutale assassinio di Regeni. La spiegazione sta nel fatto che l’Egitto, anche con il regime di Al Sisi, non è solo un interlocutore privilegiato da sempre, ma è diventato un alleato strategico dell’Italia in questa prova di forza contro la Turchia in Libia e nel Mediterraneo.
Draghi dice che Erdogan è un dittatore ma che in qualche modo occorre cooperarci. Sembra di sentire il giudizio degli Stati Uniti sul dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: “è un figlio di puttana, ma è il “nostro” figlio di puttana”.
Infatti Erdogan al momento regola i rubinetti dei flussi migratori verso la rotta balcanica e le isole greche ed in questo modo ricatta – profumatamente pagato – le frontiere terrestri dell’Unione Europea.
Ma con la sua pesante ingerenza in Libia controlla anche il rubinetto dei flussi migratori nel Mediterraneo dirimpetto all’Italia. Quindi una rottura con la Turchia vedrebbe una ondata di profughi ripartire dalle coste libiche verso le coste italiane e una competizione a tutto campo sugli interessi italiani e gli assetti politico/economici in Libia dopo anni di guerra civile e destabilizzazione totale.
In questi anni la Nato e l’Unione Europea hanno consentito a Erdogan di crescere e rafforzare il suo ambizioso progetto di recupero ed espansione della turcofonia e dei fasti dell’impero ottomano.
Hanno incoraggiato l’intervento militare della Turchia prima in Siria e poi nel Nagorno Karabach, sostenendola nel primo caso e facendo i finti tonti nel secondo. In Siria perché la Ue e la Nato si sono associate in modo vergognoso al tentativo di rovesciamento di Assad e poi all’attacco contro le enclavi curde. Nel Nagorno Karabach perché le istanze dell’Armenia e degli armeni erano sostenute dalla Russia.
I miliardi che ogni anno la Ue fornisce alla Turchia per tenere sotto controllo i flussi dei profughi, hanno consentito ad Ankara una rendita di posizione politica ed economica, liberando così risorse da destinare ai propri progetti espansionisti.
Ultimo in ordine di tempo è quello faraonico del Canale di Instanbul, una nuovo corridoio navale tra il Mar Nero e il Mediterraneo orientale, alternativo alle Stretto dei Dardanelli, dove il traffico è regolato internazionalmente dal Trattato di Montreaux. Il nuovo canale sarebbe invece esclusivamente sotto il controllo della Turchia.
Insomma ci troviamo dentro una partita in cui ogni scelta – cooperazione o conflitto con la Turchia – comporta costi pesanti da pagare.
Fino a qualche anno fa queste contraddizioni interne avevano una loro “camera di compensazione”: la Nato. In nome della sua funzione strategica contro l’Urss prima e la Russia poi, la Turchia è stata armata, finanziata, tollerata fino a poter disporre di ingenti armamenti e forze armate.
È bene ricordare che la Turchia ha fatto anche parecchio “lavoro sporco” per conto di Usa ed Unione Europea nei Balcani durante la dissoluzione e le guerre civili della ex Jugoslavia e che nel gennaio 1999 l’Italia consegnò il leader del Pkk Ocalan nelle mani dei turchi.
Quando le classi dirigenti europee hanno provato ad allargare la “camera di compensazione” cercando di includere la Turchia nell’Unione Europea, dopo qualche anno e troppe ramanzine sui diritti umani, la Turchia ha risposto picche continuando ad allargare la sua area di influenza nella turcofonia (le repubbliche asiatiche dell’ex Urss) e il Medio Oriente.
Qui Ankara ha deciso di rafforzare e collegarsi con il network della Fratellanza Musulmana, entrando così in competizione con quello saudita, ed ha allargato la sua sfera d’influenza all’Egitto di Morsi, alla Somalia, al Sudan e alla Libia destabilizzata dall’intervento militare occidentale nel 2011 e in preda alla guerra civile.
Il golpe di Al Sisi contro il governo dei Fratelli Musulmani in Egitto e poi il sostegno saudita/emiratino al gen. Haftar in Libia, hanno spinto la Turchia a intervenire pesantemente in Libia al fianco del governo di Tripoli, bloccando la marcia trionfale di Haftar e diventando azionista di riferimento delle nuove autorità libiche a discapito dell’Italia.
Adesso con le dichiarazioni sibilline ma improvvide di Draghi e la crisi diplomatica che si è aperta con la Turchia, lo scenario appare piuttosto definito. L’Italia, sobillata da think thank piuttosto bellicosi (da Limes all’Ispi) intende recuperare la sua funzione strategica – perduta da tempo – nel Mediterraneo, per poter in qualche modo avere voce in capitolo sia nella Nato sia nell’Unione Europea. Intende cioè sgomitare per avere maggiore autorevolezza dentro due gabbie.
Per questa ragione i governi italiani hanno inviato navi militari nel Mar Rosso, nel Golfo Persico nel Mediterraneo hanno inviato soldati in Mali e Niger, mantengono contingenti militari in Iraq, Libia, Libano, Afghanistan, aumentano le spese militari e i finanziamenti per le missioni militari all’estero, esportano armamenti a iosa in Egitto, e adesso vorrebbero mostrare i muscoli verso la Turchia.
È una scelta consapevolmente avventurista nella quale l’apparente pragmatismo di Draghi (competere ma anche cooperare con la Turchia), rischia di diventare un boomerang doloroso. E sarebbe un guaio serio se, in nome della geopolitica, alla fine qualcuno ritenesse che gli interessi nazionali e strategici dell’Italia siano anche i propri.
Il nostro compito non potrà mai essere quello di assecondare il banditismo e le ambizioni “imperialiste” dei nostri e degli altri governi. Al contrario il nostro compito è quello di rompere nettamente con tutti i vincoli e gli automatismi che inchiodano il nostro paese dentro gabbie come Nato ed Unione Europea, per portare il paese sul terreno del non allineamento, della neutralità attiva e della cooperazione internazionale sulla base della reciprocità, proprio a cominciare dall’area euromediterranea.
Rinunciare a questa funzione significa assistere, o peggio ancora assecondare, quei passi e quei “fatti compiuti” che nella storia hanno trascinato popoli e paesi nel gorgo delle ambizioni coloniali e delle guerre. E che oggi si ripresentano con inquietante nitidezza, con leader eletti o nominati che siano.
Note
(1) Tra le maggiori debacle dell’Italia sulla Libia va ricordato il maldestro tentativo del gennaio 2020 di far incontrare Haftar e il premier libico Al Serraj a Roma, a insaputa di quest’ultimo. Prima ancora c’era stato l’abbattimento di un drone militare italiano che spiava le postazioni delle milizie di Haftar a sud di Tripoli nel novembre 2019.
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