È un autentico schiaffo all’Italia ed al suo Presidente del Consiglio quello che ieri il Presidente turco, Erdogan, ha rifilato. Draghi, infatti, indossati i panni del difensore d’ufficio di Ursula von der Layen, vittima di uno sgarbo politico e personale ordito da Michael, ha ritenuto di sentirsi in diritto di apostrofare il Presidente turco come un “dittatore”.
Sul fatto che Erdogan sia un dittatore c’è poco da cavillare. È persino molto peggio.
Stupisce semmai come non lo fosse fino a che massacrava kurdi e invadeva la Siria, arrestava e lasciava morire oppositori, sosteneva l’Isis (dal quale comprava petrolio siriano rubato a basso costo e forniva corridoi per l’afflusso di mercenari in Siria). Fin lì ci si ricordava di quanto la Turchia fosse centrale nello scacchiere mediterraneo, di come il Bosforo fosse strategico e di quanto Ankara fosse necessaria nello spostamento sulla rotta balcanica dei flussi migratori. E che la Turchia sia il secondo esercito NATO non aveva destato allarme nella professione di atlantismo che Draghi espose nel suo discorso d’insediamento alla Camera. Solo che ora, con l’Isis sconfitto e la caccia al tesoro libico, improvvisamente l’educazione protocollare del sultano diventa oggetto di riprovazione. Il Presidente turco diventa così un dittatore ma le parole di Draghi diventano un boomerang.
Infatti, a dimostrazione di quanto in politica la regola aurea sia quella di contenere intemperanze verbali, e di come la diplomazia sia strumento di avvicinamento tra diversi e non inginocchiamento tra eguali, nemmeno il tempo di valutare le ricadute delle esternazioni del primo ministro italiano che già lo sganassone turco veniva caricato.
Poche ore prima, lo stesso Draghi si era recato in Libia per dare inizio alla controffensiva politica italiana che dovrebbe riaprire le porte all’Eni e rimettere Roma nel grande gioco petrolifero. Aveva incontrato il nuovo Premier libico, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, ma si era trattato di incontro interlocutorio.
La risposta di Erdogan non si è fatta attendere. Se all’accusa di essere un dittatore aveva risposto suggerendo a Draghi di rileggere bene la storia italiana prima di fornire epiteti, la risposta più forte l’ha data sul piano politico, convocando tutto il governo libico ad Ankara. Una delegazione di 14 persone tra le quali presidente, vicepresidente, Capo di stato Maggiore delle forze armate e quasi tutti i ministri in carica. I temi della riunione? La presenza militare sul terreno, la partnership economica e la conferma del Memorandum d’intesa stipulato in precedenza con al-Sarraj sullo sfruttamento delle risorse marittime nel Mediterraneo. Se i 2000 contractor della compagnia russa Wagner blindano Sirte e la sorte di Haftar, Ankara protegge al-Serraj, ha la Tripolitania sotto il suo controllo ed è l’unico Paese ad essere presente militarmente sul territorio libico, cosa che ne accresce a dismisura l’influenza politica.
Il messaggio di Erdogan è stato più o meno il seguente: caro Draghi, se tu hai bisogno di recarti in Libia per incontrare un Premier, io in 24 ore convoco tutto il governo libico da me. Perché il ruolo della Turchia in Libia è divenuto preponderante. E qui poco importa discutere delle ragioni per cui Erdogan cerca di spostare l’attenzione sulla politica estera come bilanciamento della crisi interna che morde le caviglie dei turchi. Il messaggio che Ankara manda a Roma è il seguente: se pure l’Italia ha avuto un ruolo indiscutibile nel panorama libico fino alla morte di Gheddafi, adesso il paese è sotto la mia autorità politica. Tu non hai nemmeno il sostegno di Francia e Gran Bretagna, io divido con la Russia l’influenza politica e militare sulla Libia e in buona parte il suo destino.
Insomma uno sganassone autentico quello sferrato dal dittatore Erdogan al democratico Draghi. Il quale insultando un Capo di Stato ha forse pensato di fare un figurone presso Biden, che ha inaugurato questa novelle vague. Quella dell’insulto è una tecnica di comunicazione politica che fa parte del patrimonio lessicale statunitense: da Gheddafi un ad ogni altro leader mediorientale laico, si sono sprecati appellativi quali “pazzo”, “dittatore sanguinario”, “assassino” e via dicendo.
Il fatto che non vi sia nessun presidente nella storia statunitense che non avrebbe dovuto essere condotto a giudizio per crimini contro l’umanità, appare come un dettaglio trascurabile. Draghi, che non manca di reiterarci la sua professione di atlantismo, farebbe bene, in futuro, a misurare ciò che dice. Certo, sa di essere la miglior risposta possibile in assenza di risposte vere per tutto l’arco politico-parlamentare, e sa che la forza del sostegno lo tiene al riparo da domande incalzanti; ma è altrettanto vero che i suoi primi mesi non paiono una carrellata di trionfi, visto che fa ciò che già faceva Conte, solo con i media che soffiano vento in poppa.
Sarà bene che in futuro tenga conto di diversi aspetti nel suo governare e non solo della smania di rappresentare i poteri forti europei succubi di quelli statunitensi. La tecnicalità riconosciuta di cui fa sfoggio in scienza delle finanze non necessariamente porta con sé la cultura politica necessaria al governo di un Paese. Lo stato di immunità politico-giornalistica di cui gode potrebbe, nel breve-medio periodo, trasformarsi in narrazione priva di interesse per molti, se non per tutti.
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