La cosiddetta “economia pura” (ammettendo che esista come statuto scientifico in un senso formale ed esplicativo della realtà) non riesce a offrire una teoria del modo di produrre del capitalismo (mpc) nelle sue forme di movimento, leggi e tendenze per ogni epoca (che è precisamente il livello di astrazione raggiunto da Marx nel Capitale).
È necessario passare alla pratica, con una serie di casi concreti, per comprendere l’attuale fase di globalizzazione della produzione e della riproduzione sociale in termini capitalistici, considerando la teoria del modo di produzione capitalistico come un processo globale.
In questo senso, si tratta di economia applicata e non di un tentativo puramente accademico, che individua le varie economie applicate all’ambiente, all’ingegneria, alla sociologia, tra gli altri aspetti.
Presentare una critica complessiva – non esaustiva – significa anche suggerire possibili linee di approfondimento, sia affrontando il materiale empirico sia esaminando aspetti qui appena accennati, e sviluppando le determinazioni concettuali che vengono proposte, talvolta in modo semplificato.
Ne sono un esempio i fenomeni di esternalizzazione, delocalizzazione o dislocazione produttiva in regioni e stati diversi, precarietà, disoccupazione fluttuante o stagnante; sono tutti processi interni di una fabbrica sociale generalizzata.
Si tratta di:
a) continuità della produzione come produzione e riproduzione (perché se il lavoro di una ipotetica comunità, piccola o grande, si fermasse anche solo per un mese, morirebbero tutti);
b) lavoro e produzione sempre entro certi rapporti di produzione. Inoltre, ciò suppone che;
c) le forze produttive della comunità – soggettive e oggettivate (macchine, “tecnologie”, ecc.) – esistano, si modifichino, si sviluppino e si deteriorino anche nell’ambito di certi rapporti di produzione.
Infatti, le “forze produttive” immobilizzate nella loro astrazione, indipendentemente dai rapporti in cui si sviluppano e operano, non possono esistere se non al di fuori del processo produttivo, come scarti che la ruggine farebbe rientrare nel ciclo naturale.
In questo processo pluriennale (basta leggere i dati statistici provenienti da fonti ufficiali come Eurostat, Banca Mondiale, ecc.) viene modificato e rafforzato un triplice comando sul lavoro salariato.
Primo comando: rispetto alla massa segmentata, stratificata, disponibile dei venditori di forza lavoro, il capitale tende a scegliere in ogni momento quali e quanti lavoratori incorporare nella produzione o, al contrario, scartare; cioè li rende precari o semplicemente ci invita a considerarli inutili (come dice Mazzone, invitato a morire).
Il secondo comando del capitale è quello esercitato sul processo produttivo stesso. Dal momento in cui si vuole creare un bene o un servizio, il capitale tende ad assumerlo e fa apparire come sua forza produttiva l’utilizzo di tecniche, l’organizzazione del lavoro, le innovazioni di processo e di prodotto, che rendono possibile la realizzazione del prodotto o di una gamma di loro in un dato momento.
Il terzo comando del capitale è che il prodotto (bene o servizio) è merce e, quindi, deve essere venduto; solo con questa vendita si concretizza la rivalutazione del capitale. Di conseguenza, l’intero processo produttivo dei beni è regolato dalla logica della valorizzazione.
Se si rinuncia a quanto sopra, non è possibile comprendere il processo di globalizzazione capitalista.
Ecco perché, nei vari tentativi di costruire una scienza economica – ma anche una critica dell’economia – la scarsa conoscenza delle dinamiche del capitalismo porta a sbagliare il percorso e a finire per “catturare formiche credendo di cacciare elefanti”.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento