Imperversano interviste e dichiarazioni di imprenditori che, dopo aver maledetto il reddito di cittadinanza che indurrebbe a credere che si possa lavorare per più di 500 euro al mese, ora se la prendono con quei giovani che al colloquio di lavoro osano chiedere quali siano la paga, l’orario e le condizioni di lavoro.
Sfacciati ed insensibili costoro, come lamenta un albergatore, che li accusa di non aver capito che c’è stata la pandemia. In realtà non è nuova questa consuetudine di considerare maleducazione la richiesta delle condizioni salariali e contrattuali nei colloqui di assunzione.
La pandemia, come per tante altre cose, ha solo peggiorato i guasti che c’erano già prima.
Ricordo due anni fa che una giovane neo assunta in una grande catena commerciale, mi raccontò che nell’incontro con il responsabile aziendale si era ben guardata da chiedere quanto avrebbe preso.
Le aveva caldamente consigliato chi già lavorava in quell’azienda di non sembrare troppo interessata ai soldi, perché sarebbe stata scartata come possibile piantagrane. Noi ti diamo il lavoro e tu parli subito di danaro? Ma allora sei una persona venale, vergogna.
Come abbiamo detto la pandemia ha accentuato e reso più diffuse tutte le ingiustizie e le porcherie della nostra società, tuttavia per i ristoratori, gli albergatori, gli imprenditori così attenti al disinteresse dei propri dipendenti c’è una risposta.
Quando costoro presenteranno il conto, facciamo come Cochi e Renato in uno dei loro surreali e geniali dialoghi: “Ti dò un tot... Ma quant’è un tot?... Un tot è un tot... Ah vabbè...”
Ecco, quando uno di questi imprenditori che vogliono pagare con un tot i loro dipendenti ci chiederanno i soldi per il pranzo o il pernottamento, rispondiamo anche noi che c’è la pandemia e che troviamo insopportabile una richiesta così materiale, quando dovrebbero averci servito prima di tutto per passione e sentimento.
E paghiamo con un tot.
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