di Marco Pondrelli
Nel titolo di un'opera molto citata quanto poco capita Graham Allison si chiedeva se Stati Uniti e Cina sono destinati alla guerra. La riflessione di Matteo Dian parte da questa domanda e nel primo capitolo del suo libro tenta, attraverso l'analisi delle principali teorie che si occupano di relazioni internazionali, di gettare le fondamenta per rispondere.
Per l'Autore, personalmente mi sento di condividere questa analisi, lo scontro per l'egemonia nella regione asiatica è centrale. Oggi sia Stati Uniti che Cina hanno individuato nell'Indo-Pacifico il fronte principale. Se per Washington è normale guardare fuori dai propri confini la politica estera cinese si sta scoprendo maggiormente assertiva solo negli ultimi anni. Deng Xiaoping aveva teorizzato la necessità di 'mantenere un profilo basso e nascondere le proprie forze' [pag. 66], oggi però nascondere la forza della seconda potenza mondiale (la prima calcolando il PIL a parità di potere d'acquisto) diventa problematico. Con Xi Jinping 'la rivendicazione del ruolo di grande potenza è diventata più esplicita' [pag. 68], arrivando a ridefinire il ruolo internazionale della Cina nella costruzione di una comunità di futuro condiviso per tutta l'umanità.
La Cina è stata quindi considerata dall'Amministrazione Trump (e successivamente da quella Biden) 'revisionista non solo nell'ambito della sicurezza, ma anche in quello delle governance economica' [pag. 85].
Secondo l'Autore il confronto fra queste due potenze e innanzitutto un confronto fra due modelli differenti. Pechino e Washington guardano alle relazioni internazionali in due modi diversi, i secondi hanno una visione 'liberale e solidarista dell'ordine internazionale' [pag. 97], da qui il diritto ad intervenire nella politica interna di altri stati per difendere i diritti umani, la Cina adotta invece un approccio pluralista rispettando la sovranità dei singoli stati. Nell'approccio statunitense permane l'eredità wilsoniana ma, personalmente, ritengo che non si possa riassumere questa posizione solamente come la Weltanschauung americana, in realtà la difesa dei diritti umani è lo strumento scelto dall'imperialismo per giustificare la propria azione. Così come si è data una motivazione per la guerra in Iraq (le armi di distruzione di massa) a suo tempo si diede anche una giustificazione al colonialismo, giustificazione anche giuridica che permetteva di commettere crimini che nella liberale Europa era inconcepibili anche durante il periodo di guerra.
È nel terzo capitolo (Cina, Stati Uniti e la competizione militare) che l'Autore affronta in modo chiaro ed analitico questa competizione, che è prima di tutto una competizione militare. Essa si dispiega su 3 terreni: nucleare, convenzionale e ibrida. Nel primo caso la Cina sviluppa il suo potenziale solo come arma di deterrenza, l'importante è mantenere l'equilibrio per dissuadere il nemico dall'usare per primo le armi nucleari. Quando si parla di scontro convenzionale si affronta il tema della 'guerra asimmetrica', nella quale la Cina gode del vantaggio di non dovere sconfiggere il proprio nemico ma impedirne l'accesso, anche solo temporaneamente, in alcune aree. Dall'altra parte gli Stati Uniti hanno un altro problema ovverosia quello di combattere lontano da casa, ovviamente Washington sta rafforzando la propria presenza ed anche la propria capacità operativa e per questo l'utilizzo delle nuove tecnologie sarà fondamentale. C'è poi una zona grigia costituita dalla guerra ibrida, la cui area operativa è principalmente il Mar Cinese Meridionale dove la Cina svolge un ruolo assertivo rispetto alle molte isole contese.
In questo scenario una precipitazione bellica è difficile da prevedere, se un tempo, come giustamente nota Dian, era più accettato dagli Stati Uniti che il prezzo per la difesa di Berlino Ovest o di Tokyo sarebbe stata la distruzione di intere città americane oggi è difficile convincere la propria popolazione che l'occupazione di alcune rocce in mezzo al mare valga questo prezzo. Nonostante queste considerazioni continuo a pensare che le nuove tecnologie militari che abbassano la soglia di utilizzo delle armi nucleari ne rendano maggiormente probabile l'utilizzo. Occorre allora chiedersi pensando a von Clausewitz se di fronte all'utilizzo di armi nucleari, seppur di potenza limitata e magari utilizzate in una regione del mondo differente, sarà possibile contenere il conflitto.
L'ultima parte del libro affronta la situazione regionale dal punto di vista degli altri protagonisti. La Cina nelle ultime due crisi (1997 e 2007) è cresciuta ed è diventata fattore di stabilità per l'intera area. Gli strumenti su cui la Cina può contare per rafforzare la propria posizione sono la nuova via della seta, la AIIB (Banca Asiatica d'Investimento per le infrastrutture) e il RCEP.
Passando in rassegna gli stati coinvolti in questo confronto, a prescindere dalle differenze presenti, emerge un denominatore comune, la contrapposizione fra una posizione statunitense che investe tutto sulla forza militare e quella cinese che sempre più diventa partner commerciale anche per paesi, come Giappone o Australia, parte dello sforzo anti-cinese deciso da Washington.
È un tema che ho tentato di affrontare anche nel mio libro e che a mio avviso vedrà in futuro una Cina sempre più forte, ecco perché è giusto sottolineare quello che l'Autore scrive nelle conclusioni ovverosia come 'la regione possa fare progressi anche in assenza di una leadership americana' [pag. 280].
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