Si sono svolti ieri a Roma i funerali del partigiano romano Mario Fiorentini. Qui di seguito un documento di straordinario valore: la sua intervista del 1998 a il manifesto, una storia che tutti dovrebbero leggere, conoscere, apprezzare.
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Dall’archivio storico de il manifesto. Riproponiamo l’intervista di Alessandro Portelli a Mario Fiorentini pubblicata sul manifesto del 14 gennaio 1998. Si trattava della prima intervista rilasciata dal partigiano a un giornale.
Come nacque l’idea dell’azione di via Rasella?
Ascolta: il 16 ottobre 1943, vennero i tedeschi a via Capo le Case (una traversa di via del Tritone, nel centro di Roma), dove abitavo con i miei genitori. Mio padre era ebreo, ma non aveva mai avuto rapporti con la comunità, e non era nelle liste; perciò i tedeschi non cercavano noi, ma un mio zio di cui non so come avevano il nome.
Io ero già nella resistenza; li vidi arrivare, riconobbi il verde marcio delle loro divise, e feci in tempo a scappare attraverso i tetti e le terrazze.
Però presero i miei genitori e li portarono via, con tutti gli altri rastrellati; poi mia madre inventò uno stratagemma e riuscirono a fuggire. Io nel frattempo mi rifugiai in via Margutta, in casa di Emilio Vedova e Giulio Turcato, i pittori, che erano in contatto con la resistenza.
Stetti lì qualche tempo, e ogni tanto andavo a dormire anche da una mia zia che abitava dall’altro lato di via del Tritone, proprio vicino a via Rasella. E da lì vedo passare il battaglione Bozen, che transitava lì sotto saltuariamente (non tutti i giorni come poi si è sempre detto).
Li vedo passare, e mi metto in allerta, subito: io ho rivisto il verde marcio di quelli che sono venuti a prendere i miei genitori. Psicologicamente io l’ho vissuto così; e questo può darsi che sia un sentimento che forse non è nobile, troppo personale, quasi di vendetta; però io c’ho messo pure quello.
Simbolicamente però mi pare importante: in un certo senso via Rasella comincia il 16 ottobre, è una risposta anche alla retata e alla deportazione degli ebrei romani.
Bisogna tenere conto di questo, perché in tutte le polemiche sulla vicenda di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, la versione antipartigiana parla della rappresaglia come se fosse solo la reazione a posteriori ad una provocazione partigiana, come se la violenza a Roma cominciasse con via Rasella.
La rappresaglia non sarebbe che una risposta a posteriori a una vostra “provocazione”. Ma Roma era tutt’altro che una “città aperta”, era una città occupata e in guerra, dove le violenze degli occupanti erano quotidiane.
Roma era usata dai tedeschi come una retrovia del fonte, era continuamente attraversata dai convogli militari tedeschi; anche per questo gli alleati non la riconobbero mai come “città aperta”. Una città aperta non può essere occupata...
Perciò l’azione di Via Rasella – non da sola, perché va vista insieme a tutte le altre azioni che abbiamo fatto, alle tante e tante azioni che abbiamo fatto prima – è stata in un certo senso il culmine, un coronamento di un programma che noi abbiamo indicato già dal mese di ottobre del ’43, e che ci veniva dettato anche dagli alleati e dalla direzione politica del movimento di liberazione: noi dovevamo attaccare i fascisti e i tedeschi, rendere insicura la loro permanenza a Roma; non dovevano essere padroni della città.
Tu fai notare giustamente che via Rasella non è stata la prima azione partigiana, ma fu preceduta da numerosi altri attacchi ai tedeschi, anche con vittime, ai quali non erano seguite rappresaglie simili. Questo smentisce l’idea diffusa, secondo cui la rappresaglia era automatica, e quindi voi avreste dovuto prevederla. L’accusa è sempre che voi sapevate che ci sarebbe stata la rappresaglia – quando non si arriva addirittura a dire che l’avete fatto proprio per provocarla.
Se io prendo un compasso e faccio centro a via del Boccaccio, dove stavo allora, potrei indicare una quindicina di azioni che ho compiuto in un arco di poche centinaia di metri, e che altri hanno compiuto qui attorno: l’attacco ai tedeschi fuori del cinema Barberini, all’albergo Flora a via Veneto, alla sfilata fascista a via Tomacelli, tanto per dire le più clamorose; e poi ancora in via Veneto, a piazza dell’Opera, in via Crispi, a Villa Borghese.
A nessuna seguì automaticamente una rappresaglia. D’altra parte, via Rasella fu solo una delle azioni che avevamo programmato per quei giorni. Noi stavamo preparando un assalto al carcere di via Tasso e un’azione contro l’adunata fascista per l’anniversario della fondazione del partito, lo stesso giorno. Poi le circostanze fecero sì che le altre azioni non si potessero realizzare, e via Rasella fu l’unica che siamo stati in grado di condurre a termine quel giorno.
La strage delle Fosse Ardeatine avvenne nell’arco di ventiquattro ore dopo l’attentato, ma se si chiede alla gente a Roma quanto tempo è trascorso fra via Rasella e la strage delle Ardeatine ti rispondono le cose più incredibili – tre giorni, una settimana, c’è chi pensa che sia passato qualche mese, addirittura un anno... E così si crea lo spazio per un’altra narrazione antipartigiana: quella per cui foste invitati a consegnarvi, con manifesti, con comunicati radio, e che se lo aveste fatto avreste evitato la strage.
In realtà – anche ammesso che fosse giusto consegnarsi – il problema non si pose proprio, perché la strage delle Ardeatine fu fatta immediatamente, e fu annunciata solo a cose fatte (“questo ordine è già stato eseguito” diceva il comunicato dell’Agenzia Stefani).
Persino il comandante tedesco Kesselring e lo stesso Kappler al processo per le Ardeatine dissero che non ci fu nessun manifesto né comunicato, e che non gli era venuto nemmeno in mente di cercare chi aveva fatto l’azione.
Quando noi abbiamo iniziato sapevamo che potevamo andare incontro alle rappresaglia. Come ci saremmo comportati? Come si sarebbero sviluppate? Ma noi pensavamo a una trattativa, pensavamo a una fase negoziata.
Ma Kappler è stato un demone, è stato di una rapidità, di una determinazione, una forza della natura: si è mobilitato e ha realizzato in pochissimo tempo la rappresaglia. Sarebbe bastato un piccolissimo ritardo che poteva venire dai fascisti, dai tedeschi, dalle circostanze: se la strage delle Ardeatine fosse stata rinviata di un po’ di tempo, solo di qualche ora, si sarebbe potuti entrare in una logica di trattativa, che sarebbe stata già in sé un successo strategico – costringere i tedeschi a scendere alla trattativa, soprattutto a Roma.
È chiaro che i partigiani non volevano le rappresaglie. Sarebbe bastato un po’ più di tempo e sarebbe potuto intervenire il Vaticano, che aveva dei preti detenuti a Regina Coeli, detenuti a Via Tasso, almeno per mitigare. Lo stesso Mussolini non poteva rimanere inerte, perché quello non era un fatto microscopico, era un grosso fatto. I partigiani del Nord potevano proporre uno scambio di prigionieri.
E poi c’eravamo noi, che potevamo fare degli attacchi contro le carceri; come ti ho già detto, stavamo già progettando un’azione contro via Tasso. Ma né il Vaticano né tanto meno noi abbiamo avuto il tempo materiale di poter fare qualche cosa, perché Kappler ci ha distrutti dal punto di vista di una possibile trattativa. Capisci: Kappler è stato diabolico per la sua rapidità.
A me sembra che ai nazisti interessasse più di dare una lezione alla città che di catturare i partigiani. Forse quella che distingue via Rasella, oltre al numero dei tedeschi uccisi, è che non si è trattato di un attentato isolato ma di un’azione militare in piena regola, contro un reparto in formazione. I tedeschi non potevano tollerare una sconfitta sul piano militare.
Noi non ci aspettavamo un esito così clamoroso, ma senz’altro ci ponevamo anche l’obbiettivo di mostrare ai tedeschi che la Wermacht non era invincibile. Perciò l’azione fu preparata nei minimi particolari, anche se dovemmo rivedere i piani più volte negli ultimi giorni, tanto che io preparai tre diversi piani di attacco. Vi furono coinvolte tutte le forze dei Gap centrali, dei gruppi di azione patriottica, non meno di sedici persone.
La si fa passare come se l’avessero fatta da soli Rosario Bentivegna e Carla Capponi, in modo da farla somigliare più a un’iniziativa terroristica personale che a un’azione di guerra. Certo, poteva bastare un secondo o due di differenza, e il numero dei morti sarebbe stato diverso; ma il significato sarebbe stato lo stesso.
Nel libro di Aurelio Lepre, e anche in certe annotazioni del diario di Calamandrei, si parla delle reazioni della gente all’attentato, non positive. C’è chi tende a dare un’immagine dei Gap come di un gruppo di pochi isolati, non sostenuti da una popolazione inerte, opportunista e passiva.
Non è questa la mia esperienza. La gente era con noi, nella grande maggioranza. Certo, c’era molta paura, e anche molta fame, e questo era un limite. Ma certo non erano indifferenti, fra i tedeschi e noi. Senza generalizzare, penso a episodi che mi toccano direttamente.
Per esempio, il 16 ottobre, dopo che li avevano presi, mio padre e mia madre furono caricati su un camion; e mentre erano lì lei scrive il telefono di mia zia su un biglietto, e butta questo pezzetto di carta fuori dal finestrino. Un passante, o una passante, non lo sappiamo perché neanche lei se ne è resa conto, lo prende e avverte i miei zii. Questo ti fa vedere anche la solidarietà che c’era tra la gente.
Poi tornarono le SS a via Capo Le Case – stavolta erano fascisti italiani, SS italiane – e cercavano me. E allora il mio portinaio, Domenico Pascucci, gli ha detto “ah, Mario Fiorentini? è stato preso in una retata e portato in Germania, so che sta in Germania, non c’è più qui”. E allora questi hanno perso le tracce, non sono più ritornati.
Una critica all’azione di via Rasella – ma credo che sia rivolta in realtà a tutta la resistenza – riguarda la sua presunta inutilità militare. Tu più volte hai detto che invece ha avuto un peso rilevante anche sul piano militare strategico. Su che base lo dici?
Ne sono stato convinto fin dall’inizio e la mia convinzione poi è stata suffragata da alcuni fatti che si sono verificati nelle settimane successive e quasi subito.
Il primo è stata la decisione del comando militare tedesco di fare divieto alle truppe tedesche di utilizzare la città per i loro trasporti di truppe o di materiale o di uomini. Difatti il comando tedesco ufficialmente in una dichiarazione trasmessa con molto rilievo, a un certo momento dice: «noi per salvaguardare la città di Roma, per difendere Roma città aperta dalle insidie di elementi irresponsabili eccetera, da questo momento eviteremo alle nostre truppe di passare per il centro della città».
Naturalmente questo è un primo risultato di natura militare e strategica rilevante, perché i tedeschi sono stati costretti ad allargare, ad aumentare il percorso, girando intorno alla città e anche a esporsi ai bombardamenti e alle azioni partigiane lungo le strade. E questo è un primo fatto.
Il secondo fatto è quando tutte le radio alleate hanno comunicato con enfasi e con grande rilievo e hanno inneggiato al valore e all’eroismo dei patrioti romani, della cittadinanza dei romani che aveva attaccato, inferto un colpo così duro, così sanguinoso alla macchina bellica tedesca. Roma è stata l’unica capitale europea che ha opposto una resistenza così massiccia all’occupazione tedesca.
La terza conferma mi è venuta quando io, attraversate le linee, sono andato al comando del Generale Alphonse Juin, comandante del corpo di spedizione francese; là, sotto una grande tenda, insieme al suo stato maggiore, a una serie di ufficiali, noi abbiamo discusso e io mi sono reso conto che intanto loro conoscevano bene l’attività dei partigiani romani, cioè erano al corrente che noi avevamo attaccato; sapevano che i partigiani romani avevano attaccato i tedeschi ripetutamente e in particolare poi avevano attaccato a Via Rasella, duramente.
Ma non solo a Via Rasella, anzi, in quell’occasione io feci una relazione: raccontai loro l’azione di Via Rasella e loro ne furono molto impressionati. Furono tanto impressionati che il Generale Alphonse (Dejouet) a un certo momento ha commentato pronunciando due volte la parola formidable, formidable!
Ma voi quando sapeste che cosa era successo alle Ardeatine che cosa pensaste?
Sapemmo della strage solo a cose fatte, e direi che ognuno reagì secondo il proprio carattere. Noi dei Gap centrali, Franco Calamandrei, Franco Salinari ed io, qualche volta Ernesto Borghesi, nel periodo immediatamente prima e subito dopo il 23 marzo, ci siamo incontrati tutti i giorni.
Non c’è dubbio che fu un colpo duro per molti di noi. Allora io ho colto l’angoscia che c’era in Calamandrei. Carlo Salinari lo faceva vedere meno, perché era molto controllato e era uno che parlava poco, ma in quei giorni era quasi ammutolito. Ma io proprio ho vissuto, ho vissuto l’angoscia di Franco Calamandrei, e di tutti noi. Chi ha colto meglio lo stato d’animo di quel momento è stato Vasco Pratolini, nel Diario sentimentale.
Ascolta: nessuno di noi lo faceva a cuore leggero. Di me hanno detto che ero diventato un guerriero, e davvero mi sentivo invulnerabile, soprattutto perché sentivo che stavo facendo una cosa giusta per il mio paese, una cosa che andava fatta. Ma il costo emotivo c’era.
C’era una compagna nei Gap, allora lei che ha fatto tante e tante azioni, che non ha voluto mai parlare delle tante azioni che noi abbiamo fatto, soprattutto i primi due mesi. Lei si portava uno sfilatino e dopo le azioni, soprattutto quelle individuali, ma anche di gruppo, lei prendeva e mangiava uno sfilatino che si portava dietro, perché c’era evidentemente qui qualcosa che attanagliava dentro.
Io mi mettevo a sentire musica classica; Franco Calamandrei nel suo diario, dopo le azioni, scrive che si metteva a tradurre; capisci, lui traduceva Diderot, traduceva Gérard de Nerval; si metteva a tradurre. Ma perché si metteva a tradurre? per cercare di domare l’angoscia.
A differenza di altri partigiani, tu dopo la guerra hai ricominciato da capo in un ambito del tutto nuovo, la studio e l’insegnamento della matematica, nelle scuole medie e poi fino all’università. Non c’era nessun rapporto con la tua esperienza partigiana?
Forse la volontà, una volontà di ferro che mi ha sempre sostenuto era la stessa. Io avevo fatto le scuole commerciali; dopo la guerra, prendere da privatista la maturità classica, iscrivermi a matematica, laurearmi, ci è voluta la stessa volontà che ci voleva nei momenti difficili della resistenza, e spesso sacrifici non minori.
Ti dico anche un’altra cosa, che forse c’entra. Io mi laureo e vado a insegnare scienze naturali in una scuola media inferiore a indirizzo commerciale. A quel tempo c’era una grande selezione nella scuola media; al primo consiglio di classe, gli insegnanti erano molto duri con i voti, molto selettivi.
Un mio collega mi dice la sua filosofia: all’inizio dell’anno faccio dei compiti molto difficili e salvo quei cinque o sei studenti e gli altri li butto a mare, e quando li interrogo gli faccio sempre domande difficili.
Io, che venivo da un’esperienza sociale, che ero di un’altra pasta, fui molto impressionato e allora assunsi questa filosofia: mi occuperò soprattutto degli studenti più deboli; e parlerò sempre a voce alta, a quelli dell’ultimo banco. La mia etica è questa, e da allora, anche all’università, l’ho seguita sempre.
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