A volte c’è più saggezza dove meno te lo aspetti. La decisione del nuovo governo di aggiungere al Ministero dell’Istruzione la categoria di “e del Merito”, è una delle aberrazioni formali e sostanziali che vanno individuate e combattute apertamente. Colpisce che a segnalarle come tali sia un articolo del giornale della Confindustria – Il Sole 24 Ore del 23 ottobre.
Colpisce due volte: la prima perché l’azionista del giornale (Confindustria) è schierata da anni proprio nell’introduzione di categorie come merito e competitività nella scuola. La seconda perché l’articolo coglie perfettamente la contraddizione di fondo dell’applicazione della categoria di merito in una struttura decisiva della emancipazione sociale come la scuola.
Riproponiamo dunque qui di seguito l’articolo di Vittorio Pelligra su il Sole 24 Ore. Vale la pena leggerlo, ma soprattutto vale la pena cominciare a ragionare su un’offensiva politica, culturale, ideologica, sindacale, studentesca contro l’orrore dell’introduzione del merito come parametro dell’istruzione. A proposito: ma quando torneremo a chiamare il ministero di viale Trastevere come Ministero della Pubblica Istruzione?
Colpisce due volte: la prima perché l’azionista del giornale (Confindustria) è schierata da anni proprio nell’introduzione di categorie come merito e competitività nella scuola. La seconda perché l’articolo coglie perfettamente la contraddizione di fondo dell’applicazione della categoria di merito in una struttura decisiva della emancipazione sociale come la scuola.
Riproponiamo dunque qui di seguito l’articolo di Vittorio Pelligra su il Sole 24 Ore. Vale la pena leggerlo, ma soprattutto vale la pena cominciare a ragionare su un’offensiva politica, culturale, ideologica, sindacale, studentesca contro l’orrore dell’introduzione del merito come parametro dell’istruzione. A proposito: ma quando torneremo a chiamare il ministero di viale Trastevere come Ministero della Pubblica Istruzione?
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Istruzione, il ministero ora è anche del «Merito». Ma attenti alla retorica
Istruzione, il ministero ora è anche del «Merito». Ma attenti alla retorica
Di Vittorio Pelligra (da Il Sole 24 Ore del 23 ottobre)
Cambia il nome del dicastero della scuola. La retorica meritocratica, però, tende a trasformarsi in una forma di autolegittimazione delle élites
Interno giorno: una classe di prima elementare. I giovani alunni ed alunne sono impegnati in un test di aritmetica. Dopo qualche tempo e non poca fatica i compiti vengono consegnati agli insegnanti per la valutazione. Alcuni saranno andati bene, altri saranno andati meno bene, com’è naturale che sia. Ora immaginate di ripetere la stessa operazione in tutte le prime classi della scuola e in tutte le scuole della città. Poi prendete i risultati e associate a ogni bambino il reddito della famiglia di origine. Quello che si vedrà è che coloro che vengono dal 25% delle famiglie con il reddito più alto saranno mediamente quelli con i punteggi più alti. Quelli, invece, che appartengono al 25% delle famiglie con il reddito più basso, avranno mediamente i punteggi più bassi. Si capisce.
Se la scuola non capisce il “gap”
Sono tutti all’inizio della loro carriera scolastica. Hanno storie passate differenti. Per fortuna hanno davanti anni di formazione durante i quali il gap di partenza potrà essere ridotto. I bravi «in entrata» diventeranno più bravi e i meno bravi saranno messi nelle condizioni di diventare bravi anche loro. Aspettiamo sei anni e ritroviamo i nostri alunni e alunne alla fine della prima media. Cosa sarà successo? Constateremo che effettivamente i bravi sono diventati più bravi, ma anche che, tristemente, i meno bravi avranno visto peggiorare i loro risultati. Nei sei anni di scuola la differenza «in entrata» lungi dall’essere colmata, si sarà, al contrario, accresciuta (Cunha, F., et al. 2006. “Interpreting the evidence on life cycle skill formation”. In: Hanushek, E.A., Welch, F. (Eds.), Handbook of the Economics of Education. North-Holland, Amsterdam, pp. 697–812).
I primi verranno premiati da voti migliori, da maggiore attenzione da parte degli insegnanti, da maggiori opportunità, gratificazioni e autostima, e gli altri invece no. In base a cosa? Che merito hanno avuto i bravi che erano già bravi prima di iniziare la scuola? E che demerito, invece, gli altri? Davanti a situazioni di questo tipo i singoli insegnanti sono, al contempo, responsabili e incolpevoli. È la combinazione di una società stratificata dal punto di vista socioeconomico e di una scuola che non riconosce il fenomeno e quindi lo aggrava, spesso con classi ghetto, più spesso con l’indifferenza, a produrre simili risultati.
Il nodo del «merito»
E bastasse introdurre la parola «merito» nella denominazione del ministero dell’istruzione per risolvere problemi come questi. «Ma almeno è un segnale della strada che si vuole intraprendere», si dirà. Il problema è che quel segnale indica decisamente la strada sbagliata. Mentre nel resto del mondo occidentale, anche sulla base di evidenze come quella di cui sopra e dell’enorme lavoro condotto dal premio Nobel James Heckman e dal suo gruppo, ci si interroga sui disastri e le ingiustizie commesse in nome della retorica meritocratica, noi l’adottiamo acriticamente come modello e ideale su cui rifondare la nostra scuola. Ci intestiamo un ministero chiave come quello dell’Istruzione. Ma che c’è che non va con il merito? Chi non vorrebbe una società dove i migliori venissero premiati e posti nei ruoli di responsabilità, dove i capaci potessero godere delle occasioni migliori per crescere e contribuire al bene comune? Per rispondere bisognerebbe iniziare a capire di cosa parliamo quando parliamo di merito. Il che non è affatto scontato.
Nella sua definizione classica il «merito» è uguale alla somma di «talento» e «impegno». Già in partenza premiare il merito vorrebbe dire, quindi, premiare anche il talento, cioè una serie di caratteristiche che l’individuo ha «ereditato» per via genetica, ambientale, familiare. Qualcosa totalmente al di fuori del suo controllo. È questa componente che rende i bambini bravi o meno bravi, già a sei anni, prima, cioè, che siano entrati a scuola. Vabbè, però poi c’è l’impegno, e quello è frutto di sforzo, di determinazione, caparbietà, intraprendenza, del «carattere», in una parola, come si sarebbe detto un tempo. E questo va riconosciuto e premiato. Il problema è che anche il «carattere», quell’insieme di tratti e propensioni che gli economisti chiamano «capitale umano non-cognitivo» e i neuroscienziati, invece, definiscono «funzioni esecutive», dipende in larga misura da chi sono i nostri genitori. Se prendiamo i punteggi dei test di cui sopra e controlliamo statisticamente per l’effetto del background familiare (l’istruzione dei genitori, il reddito, separazioni, divorzi, etc.) il gap si restringe ma non sparisce. Però si riduce.
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