Enrico Mattei (Acqualagna, 29/04/1906 – Bascapè 27/10/1962) fu partigiano, politico e dirigente pubblico. Durante la seconda guerra mondiale prese parte alla Resistenza, divenendone una figura di primo piano e rappresentandone la componente “bianca” in seno al CLNAI.
Nel 1945 fu nominato commissario liquidatore dell’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista; invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l’azienda, fondando nel 1953 l’Eni, di cui l’Agip divenne la struttura portante.
Sotto la sua guida, l’Eni diventò una multinazionale del petrolio, protagonista del così detto “miracolo economico italiano” postbellico.
Fu parlamentare dal 1948 al 1953 per la Democrazia Cristiana. Successivamente, rese l’Eni un centro di influenza politica, attraverso la proprietà di media quali il quotidiano Il Giorno e finanziamenti ai partiti; in questo si collocò sempre vicino alla sinistra democristiana, in particolar modo a Giorgio La Pira e Giovanni Gronchi.
Sotto la sua presidenza, l’Eni negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica. Queste iniziative contribuirono a rompere l’oligopolio delle Sette sorelle, che allora dominavano l’industria petrolifera mondiale.
Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti.[1]
Con la sua politica autonoma Mattei, presidente dell’Eni, infastidiva le “sette sorelle”, come lui stesso le definì, ossia il cartello formato dalle compagnie petrolifere mondiali. Morì nel 1962 in un incidente aereo nei pressi di Bascapé, nel Pavese nordorientale, ai confini con le province di Lodi e Milano.
Le indagini sulla morte durarono anni e si scontrarono con gravi depistaggi; oggi si ritiene che uomini della mafia siciliana sabotarono il suo aereo personale; si pensa inoltre che anche il giornalista Mauro De Mauro fu ucciso dalla mafia perchè stava per divulgare quanto aveva scoperto proprio sulla morte di Mattei.
Inoltre, secondo alcuni, anche Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato ad indagare sulla morte di Mattei.
Quello di Enrico Mattei era un paese, l’Italia, che stava faticosamente e tenacemente perseguendo la propria indipendenza energetica. Un paese che cercava in ogni modo di liberarsi dallo strapotere delle multinazionali; un paese che voleva sfruttare le proprie risorse e che stringeva accordi privilegiati con le nazioni emergenti del Mediterraneo e del Medio Oriente le quali necessitavano di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall’Egitto all’Iran, dalla Libia al Marocco.
Quella di Enrico Mattei era una efficace e lungimirante strategia che stava cambiando l’economia e la politica internazionale del nostro Paese.
Quella strategia venne fermata da una bomba (una delle tante che hanno contrassegnato la vita del paese dal dopoguerra in poi): un attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, uccise il fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, sull’aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.
QUELLA LETTERA DI ALDO MORO
Una lettera inedita scritta il 19 settembre 1962 da Aldo Moro ad Enrico Mattei, presidente di Eni, nella quale il segretario della Dc gli chiedeva di dimettersi dalla presidenza della società.
Poco più di un mese dopo, il 27 ottobre 1962, il bireattore che portava Mattei da Catania a Milano esplose nel cielo sopra le campagne di Bascapè (Pavia). La lettera, affiorata dall’archivio storico dell’Eni di Castel Gandolfo, è stata resa nota dallo scrittore Giovanni Giovannetti, che sta lavorando a un libro su Mattei, sul settimanale della diocesi di Pavia, Il Ticino.
Questo il contenuto della missiva: «Carissimo (…) Ho ancora meditato sulle cose che ci siamo detti nel nostro ultimo incontro e, naturalmente, sul peso del sacrificio che il partito ti chiede. A mente fredda e sulla base delle più compiute informazioni date fornitemi ho dovuto ancora concludere che è questa ancora la via migliore.
Ogni decisione comporta certo uno svantaggio ed in esso, credimi, io metto in primissima linea il tuo disappunto, anzi il tuo evidente e comprensibile dispiacere. Lo noto e mi pesa molto. Ma, credi, nella situazione attuale non c’è di meglio da fare.
La tua rinuncia contribuisce a consolidare una situazione assai fragile e spegne una polemica astiosa che ti avrebbe ancor più amareggiato, e con te le tue idee e le tue importanti iniziative. Sembra di perdere ed invece si garantisce e si consolida. Ho l’impressione che non si canterà vittoria.
Aggiungi anche questa alle tue benemerenze; alla tua silenziosa fedeltà; al tuo servizio prezioso nell’interesse del paese. Grazie, caro Mattei, con i più affettuosi sentimenti.
Aldo Moro».[2]
LE INCHIESTE E I DEPISTAGGI
L’inchiesta giudiziaria, subito aperta sulla sciagura di Bascapè, si concluse il 31 marzo 1966: una sentenza del giudice pavese, Antonio Borghese, dichiarava di «non doversi procedere in ordine ai reati rubricati ad opera di ignoti, perché i fatti relativi non sussistono»[3].
Ma i pronunciamenti della magistratura non convinse una parte dell’opinione pubblica italiana, tant’è vero che sul “caso Mattei” si sviluppò per decenni un vivace dibattito mediatico, alimentato da molteplici pubblicazioni e dall’omonimo film del regista Francesco Rosi, uscito nelle sale cinematografiche nel corso del 1972.
La natura dolosa dell’evento si sarebbe potuta dedurre, oltre che dalle numerose testimonianze oculari, anche dalla particolare disposizione sul terreno dei rottami dell’aereo e dei resti degli sfortunati passeggeri.
Se il grosso degli stessi si era depositato a ventaglio dopo il punto di impatto del velivolo col suolo, secondo le leggi della fisica, la particolare ubicazione di alcuni frammenti metallici e di tessuti umani postulava una deflagrazione in cielo.
Tale scenario fu chiaramente prospettato dalla signora Rita Maroni («Ho sentito un boato e una botta e ho visto il fuoco») e dall’agricoltore Mario Ronchi («il cielo era rosso, bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutte intorno... Un aeroplano si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sul prato, sotto l’acqua») nelle interviste rilasciate ai giornalisti la sera stessa dell’incidente e uscite il 28 ottobre sul Tg del primo canale Rai e nella seconda pagina del Corriere della Sera [4].
Questi e altri dati furono platealmente ignorati dalla Commissione d’inchiesta dell’Aeronautica militare italiana, nominata dal ministro della difesa Giulio Andreotti la notte stessa dell’incidente su designazione del generale Felice Santini, uomo di fiducia dei servizi segreti americani.
Il suo presidente, generale Ercole Savi, uno dei progenitori di Gladio, si precipitò a Bascapè la mattina del 28 ottobre e condusse i lavori nella massima riservatezza e con scarso rispetto della normativa vigente in materia[5].
Nella relazione finale, licenziata nel marzo del 1963, la Commissione ministeriale prospettò come probabili cause dell’incidente aviatorio un’avaria tecnica o un errore del pilota, spiegazioni recepite poi acriticamente dai due periti nominati dal Tribunale di Pavia.
Nella sua requisitoria, licenziata il 7 febbraio 1966, il pubblico ministero Edoardo Santachiara aggiunse anche l’ipotesi di un eccessivo affaticamento fisico del pilota o addirittura di un gesto insano indotto da delusioni amorose connesse a una relazione extraconiugale con una hostess dell’Alitalia.
A mantenere in vita i dubbi sulla verità confezionata dai giudici pavesi contribuirono, nei decenni successivi al 1962, le esternazioni di autorevoli rappresentanti delle Istituzioni come il ministro Oronzo Reale, il capo del SISMI, l’ammiraglio Fulvio Martini e il leader democristiano Amintore Fanfani, presidente del Consiglio nell’ottobre del 1962.
E in un convegno di ex partigiani bianchi, tenuto a Salsomaggiore nel 1986, quest’ultimo parlò espressamente di «abbattimento dell’aereo» di Mattei, raffigurandolo come «il primo gesto terroristico del nostro Paese» e il «primo atto della piaga» della violenza politica, poi esplosa su larga scala negli anni successivi.
A far riaprire le indagini sulla morte di Mattei furono però le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
A partire dal 1993-1994 Gaetano Jannì, Tommaso Buscetta, Italia Amato e altri sostennero che Mattei era stato ucciso dalla mafia siciliana desiderosa di rendere un favore alla consorella americana e alle Sette sorelle del cartello petrolifero.
In Sicilia il compito di eliminare Mattei se l’era assunto Giuseppe Di Cristina, elemento di spicco della cosca mafiosa di Riesi (CL), legato al futuro senatore Graziano Verzotto, rappresentante dell’Eni nell’isola.
Nel corso di un’inchiesta, aperta nel 1994 e chiusa nel 2003, il sostituto procuratore Vincenzo Calia ha incriminato per favoreggiamento personale aggravato Mario Ronchi, che qualche giorno dopo il 27 ottobre 1962 aveva cambiato la sua versione dei fatti collocando l’incendio dell’aereo dopo l’impatto col suolo, venendone ripagato con l’incarico di custode del sacrario eretto in onore di Mattei e l’assunzione della figlia in una ditta legata a Eugenio Cefis.[6]
Nella requisitoria licenziata il 20 marzo 2003 e basata, tra l’altro, sull’acquisizione di nuove testimonianze oculari, sulla perizia tecnica di due ingegneri aeronautici e sulla consulenza medico-legale di un luminare dell’università, il p.m. Vincenzo Calia ha dimostrato che ad abbattere l’aereo di Mattei era stata una piccola carica di esplosivo piazzata da ignoti dietro al cruscotto mentre il velivolo era parcheggiato nell’aeroporto catanese di Fontanarossa.
L’innesco sarebbe stato azionato dal sistema di apertura dei carrelli attivato nel momento in cui il piccolo jet iniziò la fase di atterraggio verso la pista di Linate. L’esecuzione dell’attentato sarebbe stata «pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato». [7]
Anche se non condivisa dal giudice Fabio Lambertucci, che nella sentenza emessa il 17 marzo 2004 archiviò il procedimento aperto dieci anni prima per il «carattere ignoto degli autori del fatto» e perché «non era stata fornita una prova sufficiente che il fatto delittuoso» fosse «stato commesso», la ricostruzione del dr. Calia appare pienamente convincente sotto il profilo storiografico.
Essa è stata condivisa dai giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, che nelle motivazioni della sentenza emessa il 10 giugno 2011, al termine della terza inchiesta condotta sul sequestro del redattore palermitano Mauro De Mauro, l’hanno considerata suffragata «da un compendio davvero imponente di prove testimoniali, documentali e tecnico-scientifiche».
Costoro hanno indicato nella «causale Mattei», cioè nella necessità di tenere occultati determinati retroscena della morte del manager pubblico, il movente della soppressione del giornalista.
Al complotto contro il presidente dell’Eni avrebbero partecipato, «su input di una parte del mondo politico», sia Cosa Nostra isolana sia Graziano Verzotto[8], il politico di origini padovane sottratto a una probabile incriminazione dalla morte, avvenuta nel maggio del 2010.
La sentenza 10 giugno 2011 è stata confermata nei due successivi gradi di giudizio e solo la ricostruzione storica che l’accompagnava è stata ridimensionata da certa a «verosimile» o «altamente probabile» dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo (27 gennaio 2014) e da certa a «verosimile» dalla Corte di Cassazione (4 giugno 2015).
Nel 2017 Vincenzo Calia ha pubblicato i dati più significativi della propria inchiesta in un libro intitolato Il caso Mattei [9], di fondamentale importanza per la ricerca storica.
Ne Il delitto Mattei, uscito nel 2019, lo storico padovano Egidio Ceccato ha presentato il presidente dell’Eni come vittima delle asprezze politiche della Guerra Fredda prima ancora che dell’ostilità delle multinazionali del petrolio [10].
Queste ultime non avevano certo perso occasione per mettere in cattiva luce il geniale manager italiano presso le diplomazie dei rispettivi paesi, ma a far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai Paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75% anziché il 50% delle royalty.
Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale.
Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Di più, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico, offrendo il fianco ad accuse di violazione della solidarietà atlantica e di filocomunismo.
Il Dipartimento di Stato USA aveva reagito bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali.[11]
Una volta andate a vuoto le pressioni esercitate in ambito NATO o tramite esponenti del clero e dell’associazionismo partigiano cattolico – desumibili sia da una deposizione di Rino Pachetti (25 giugno 1963), sia da una pubblicazione di un nipote del leader democristiano Mariano Rumor [12] – fu deciso il ricorso alla forza.
Paradossalmente proprio il nuovo clima della “coesistenza pacifica”, indotto dall’impossibilità di una confrontation militare, che le armi atomiche avrebbero reso rovinosa per ambedue i blocchi che si contendevano l’egemonia mondiale, spinse ciascuna delle due superpotenze ad acuire, all’interno della propria sfera d’influenza, l’intransigenza in materia di fedeltà ideologica e di appartenenze politiche.
A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di loose federation (lega) fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo ipotizzato incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un meeting coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre.
Quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia, che con gli Accordi di Évian (18 marzo 1962) riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.
L’occasione propizia per sciogliere il nodo Mattei con modalità simili a quelle dell’Operation Mangusta pianificata contro il leader cubano Fidel Castro – una delle poche covert operation di cui la CIA ha riconosciuto la paternità – si presentò sul finire dell’ottobre 1962, quando l’acutizzarsi della crisi missilistica di Cuba polarizzò sui Caraibi l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale.
La prospettiva di una guerra nucleare rese in quel momento intollerabile qualsiasi forma di dissenso o anche di semplice distinguo da parte di un Paese della NATO, come l’Italia, che occupava una posizione strategica in mezzo al Mediterraneo.
Anche se le autorità statunitensi non hanno mai ammesso proprie responsabilità, l’ipotesi di un’operazione segreta impostata dai servizi segreti americani tramite società ombra e appaltata alla mafia di ambedue le sponde dell’oceano appare estremamente plausibile.
L’omertà di Cosa Nostra era già allora proverbiale e, in caso di contrattempi, l’indignazione universale si sarebbe indirizzata verso la malavita organizzata e le multinazionali del petrolio.
Negli ultimi tempi il padre-padrone dell’Eni si era inimicato anche molti esponenti della destra politica ed economica italiana per le sue aperture commerciali all’URSS e perché di ostacolo a una transizione ordinata dalla formula politica centrista a un centro-sinistra con limitate velleità riformiste.
Da ultimo fu abbandonato dagli stessi governanti italiani, oggetto delle pressioni diplomatiche statunitensi, che gli tolsero la copertura dei servizi segreti e allentarono i servizi di vigilanza pubblici e privati con la scusa della fine della guerra d’Algeria.
Soprattutto dopo il 27 ottobre costoro garantirono le complicità istituzionali che permisero di archiviare la tragedia di Bascapé come incidente aviatorio. Funzionari dei servizi segreti civili si precipitarono sul luogo dell’incidente, mentre altri esponenti delle Istituzioni concorsero a depistare i curiosi, ad addomesticare le inchieste e ad assicurare un clima di omertà nascondendo o facendo sparire molti documenti ufficiali.
La vedova Margherita Paulas si risposò con il generale d’aviazione Giuseppe Casero, membro della prima commissione d’inchiesta sul “caso Mattei”, membro della Loggia P2 e implicato nel golpe Borghese.
Il 5 novembre 1997 il pubblico ministero di Pavia Vincenzo Calia giunge a questa conclusione: “l’aereo, a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Inrneio Bertuzzi, venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962. Il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei loro alloggiamenti”.
Tuttavia molte domande restano ancora senza risposta. Enrico Mattei stava per spezzare la morsa costruita attorno a lui dal cartello petrolifero che escluse l’ENI dal mercato petrolifero internazionale, negandogli concessioni nei paesi produttori alla pari con le altre compagnie petrolifere.
A quel punto Enrico Mattei dichiarò guerra al sistema neocoloniale delle concessioni, offrendo ai paesi produttori un accordo rivoluzionario: il 75% dei profitti contro il 50% finora offerto dalle compagnie oltre alla qualificazione della forza lavoro locale. Il cartello reagì furiosamente, giungendo a rovesciare governi, come quello libico, che avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI prospettive di grandi forniture.
Nel 1962, quando si andava prospettando la soluzione della questione algerina, Mattei era riuscito comunque ad aggirare il blocco. Sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Mattei aveva ipotecato un trattamento preferenziale verso l’ENI dal futuro governo.
Mattei era convinto che l’Algeria possedesse vastissime riserve di petrolio ancora inesplorate. Intanto De Gaulle decideva di riconoscere l’indipendenza algerina. Come contropartita, la compagnia petrolifera francese ottenne gli stessi privilegi dell’ENI. A quel punto l’ingresso dell’ENI nel grande giro del mercato petrolifero sembrava dunque cosa fatta.
Nel frattempo il presidente dell’Eni era riuscito anche ad aprire un dialogo con la Casa Bianca, nonostante la stampa internazionale avesse dipinto Mattei come un pericoloso sovversivo anti-americano.
Pare che Mattei fosse riusciro a convincere John Kennedy che mirava soltanto ad un trattamento alla pari e che non accettava i metodi coloniali applicati dalle “sette sorelle” del petrolio. L’amministrazione Kennedy accettò il dialogo e fece pressioni su una compagnia petrolifera, la Exxon, per concedere all’Eni dei diritti di sfruttamento. L’accordo sarebbe stato celebrato con una visita di Mattei a Washington, dove avrebbe incontrato il Presidente Usa e ottenuto il conferimento di una laurea honoris causa da parte di una prestigiosa università statunitense.
Ma, proprio alla vigilia di quel viaggio, il 27 ottobre 1962, Mattei fu assassinato.
Un anno dopo, fu ucciso anche John Kennedy. Secondo un rapporto confidenziale del Foreign Office(UK) del 19 luglio 1962 “il Matteismo” era “potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza (…). Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica ‘Matteista’ rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo”.
LA PISTA FRANCESE
Sull’operato dell’Uar (Ufficio Affari Riservati, Viminale) nei primi anni Sessanta disponiamo di un consistente gruppo di note confidenziali inerenti le attività di quei militanti dell’Oas (Organisation de l’armée secrète) che, ricercati dai servizi segreti francesi, avevano trovato riparo in Italia, grazie anche ai loro collegamenti con esponenti politici del nostro Paese.
Tra i principali elementi dell’Oas presenti sul suolo italiano l’Uar indicava soprattutto Georges Bidault, Jacques Soustelle, Jean Susini e Philip De Massey (nei cui confronti venne disposto un capillare servizio di pedinamento), mentre tra i politici più legati al movimento ultranazionalista francese erano segnalati i missini Giorgio Almirante, Tullio Abelli, Giuseppe Romualdi, Filippo Anfuso ed Egidio Sterpa.
L’arrivo degli uomini dell’Oas in Italia sarebbe stato facilitato dall’esistenza a Roma dell’organizzazione Peregrinatio Romana che mensilmente predisponeva viaggi nella Capitale per le comunità cattoliche di Belgio e Francia. Gli agenti dell’Oas, sfruttando il fatto che la Peregrinatio provvedeva in proprio al disbrigo delle pratiche doganali dei suoi fedeli, riuscivano a confondersi tra i «pacifici pellegrini cattolici» e a entrare in Italia evitando sistematicamente i controlli alla frontiera.
«Non si è in grado di precisare – si legge in una informativa – se vi è o meno una cosciente complicità da parte della Peregrinatio Romana con l’Oas», anche se nel suo organico vi sarebbero stati dei funzionari in contatto con «elementi dell’estrema destra, sia degli ambienti cattolici, che del Movimento Sociale».
In un’ulteriore nota si sosteneva che il principale centro organizzativo italiano al quale avrebbero fatto capo gli uomini dell’Oas era «l’Istituto San Pio V per la difesa ed il rafforzamento dei valori cristiani», fondato a fine dicembre 1960 dal cardinale Alfredo Ottaviani (capo della Congregazione del Sant’Uffizio) e da monsignor Gilberto Agustoni (prefetto emerito del Supremo tribunale della Segnatura apostolica).
Attraverso quest’ultimo «gli agenti dell’Oas troverebbero protezione in Vaticano». Secondo le informazioni in possesso dell’Uar, i militanti dell’Oas stavano progettando un attentato contro l’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei, nemico giurato dell’organizzazione terrorista francese a causa del supporto che stava fornendo agli indipendentisti algerini.
Da una nota dell’agosto 1961, per esempio, veniamo a sapere che era appena giunto a Roma il colonnello Jean Goddard, braccio destro del generale Raoul-Albin Salan (uno dei fondatori dell’Oas, in passato stretto collaboratore del generale Charles De Gaulle), il quale avrebbe incontrato «alcune delle personalità politiche e religiose maggiormente implicate nell’attività oltranzista nel nostro Paese. Non si esclude che il viaggio sia pure collegato con le minacce epistolari dirette [nei mesi precedenti] al presidente Mattei».
Il colonnello Goddard «si incontrerà con il professor Luigi Gedda ed altre personalità cattoliche, tra cui certamente il proprietario dell’Istituto San Pio V, monsignor Agustoni. Una parte degli incontri avrà luogo in un appartamento sito in via Piemonte n. 39, a Roma, ove è la sede centrale dell’organizzazione tambroniana nota come Centro per l’Ordine Civile».
Un successivo appunto riferiva della presenza in Italia di Bernard de La Rose, noto per le sue attività di «attentatore» per conto dei nazionalisti francesi. «Il La Rose» sarebbe giunto a Roma «col preciso incarico di predisporre un attentato contro il presidente della Fivl [Federazione italiana volontari della libertà] Enrico Mattei».
Inquietante è un documento in cui si parlava di un attentato contro l’aereo di Mattei che sarebbe stato progettato da uomini dell’Oas. «L’aereo – si legge – avrebbe dovuto essere sabotato con una bomba ad orologeria, piazzata a Milano, che avrebbe dovuto scoppiare dopo la partenza da Roma, al di sopra del Mediterraneo, per impedire ogni inchiesta sulla caduta dell’apparecchio».
Il 23 marzo, in un’ennesima informativa, l’Uar ribadiva che «l’Oas non ha rinunciato al proposito di far la pelle ad Enrico Mattei» e ha «addirittura esaminato la possibilità di abbatter[ne] l’apparecchio nel caso questi si recasse in Algeria».
In un precedente documento, peraltro, sulla base di informazioni che sarebbero state fornite all’Uar da un familiare del militante missino Massimo Anderson (che in numerose note era descritto come figura vicina all’Oas) si sosteneva che «un attentato al presidente dell’Eni è sempre possibile» in quanto gli uomini dell’Oas «continuano a studiare le abitudini dell’uomo (il presidente Mattei)».
Tuttavia, la strategia seguita da Goddard e dai suoi è «attendere che l’opinione pubblica dimentichi la notizia delle già avanzate minacce a lui [Mattei] dirette», per poi colpirlo al momento opportuno.
L’autore della nota concludeva sostenendo di avere «ampi e giustificati motivi per ritenere come sostanzialmente esatte e veritiere le considerazioni espresseci dal familiare di Massimo Anderson».
Nel 1997, in un’intervista al «Corriere della Sera», Jean Susini, dopo aver rievocato gli anni passati in Italia, ha sostenuto di non poter escludere che quell’attentato l’abbia organizzato la rete italiana dell’Oas, visto che, a suo dire, Ie ragioni per far fuori Mattei c’erano tutte.
Egli infatti: «forniva armi ai ribelli algerini attraverso la Tunisia, era un gioco che rientrava negli interessi petroliferi dell’Italia [...]. I veri nemici di Enrico Mattei erano i francesi d’Algeria».
Poche settimane dopo la morte di Mattei, peraltro, l’Uar reclutò tra i suoi informatori il giornalista Pasquale (detto «Lino») Ronga che del presidente dell’Eni era stato uno dei più stretti collaboratori e per conto del quale aveva avuto l’incarico di monitorare proprio le attività degli uomini dell’Oas”.
Nei primi anni Sessanta, grazie alla mole di informazioni che era riuscito a raccogliere, l’Uar rintracciò e fece poi estradare in Francia diversi agenti dell’Oas presenti in Italia, riuscendo a riacquisire l’autorevolezza che aveva perduto dopo la caduta dei triestini.
A guidare una gran parte di queste operazioni fu un funzionario da poco entrato agli Affari Riservati, ma destinato a una sfolgorante carriera: Federico Umberto D’Amato (estratto da “La spia innocente. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”, di Giacomo Pacini Einaudi editore)
L’APPOSIZIONE DEL SEGRETO DI STATO
In quanto segreto di Stato, dopo il 1962 i retroscena di Bascapè furono oggetto di una rigida tutela istituzionale. Tuttavia, in un libro pubblicato nel 1996, il politologo Giorgio Galli poteva anche affermare con cognizione di causa che, nei tre decenni precedenti, «mezza Italia» aveva ricattato «l’altra metà con ciò che sapeva della morte di Mattei».[13] Chi non si atteneva alla consegna del silenzio divenne oggetto di intimidazioni, minacce e persino di violenze fisiche.
Qualche osservatore ha ricondotto all’esigenza di precludere rivelazioni sul caso Mattei la morte violenta di personaggi come il colonnello Renzo Rocca, il pilota Marino Loretti, il magistrato Pietro Scaglione, il commissario di polizia Boris Giuliano, ecc.
Secondo lo storico Ceccato questo fu sicuramente il movente della soppressione del giornalista palermitano Mauro De Mauro (16 settembre 1970) e del tentato sequestro di Graziano Verzotto, avvenuto a Siracusa il 1 febbraio 1975.
Il primo fu eliminato dai boss mafiosi già coinvolti nel delitto Mattei e il secondo sfuggì fortunosamente all’agguato tesogli dal fascista romano Berardino Andreola, un confidente dell’Arma dei Carabinieri già coinvolto nella morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli sotto il celebre traliccio di Segrate.[14]
Nel 1945 fu nominato commissario liquidatore dell’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista; invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l’azienda, fondando nel 1953 l’Eni, di cui l’Agip divenne la struttura portante.
Sotto la sua guida, l’Eni diventò una multinazionale del petrolio, protagonista del così detto “miracolo economico italiano” postbellico.
Fu parlamentare dal 1948 al 1953 per la Democrazia Cristiana. Successivamente, rese l’Eni un centro di influenza politica, attraverso la proprietà di media quali il quotidiano Il Giorno e finanziamenti ai partiti; in questo si collocò sempre vicino alla sinistra democristiana, in particolar modo a Giorgio La Pira e Giovanni Gronchi.
Sotto la sua presidenza, l’Eni negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica. Queste iniziative contribuirono a rompere l’oligopolio delle Sette sorelle, che allora dominavano l’industria petrolifera mondiale.
Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti.[1]
Con la sua politica autonoma Mattei, presidente dell’Eni, infastidiva le “sette sorelle”, come lui stesso le definì, ossia il cartello formato dalle compagnie petrolifere mondiali. Morì nel 1962 in un incidente aereo nei pressi di Bascapé, nel Pavese nordorientale, ai confini con le province di Lodi e Milano.
Le indagini sulla morte durarono anni e si scontrarono con gravi depistaggi; oggi si ritiene che uomini della mafia siciliana sabotarono il suo aereo personale; si pensa inoltre che anche il giornalista Mauro De Mauro fu ucciso dalla mafia perchè stava per divulgare quanto aveva scoperto proprio sulla morte di Mattei.
Inoltre, secondo alcuni, anche Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato ad indagare sulla morte di Mattei.
Quello di Enrico Mattei era un paese, l’Italia, che stava faticosamente e tenacemente perseguendo la propria indipendenza energetica. Un paese che cercava in ogni modo di liberarsi dallo strapotere delle multinazionali; un paese che voleva sfruttare le proprie risorse e che stringeva accordi privilegiati con le nazioni emergenti del Mediterraneo e del Medio Oriente le quali necessitavano di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall’Egitto all’Iran, dalla Libia al Marocco.
Quella di Enrico Mattei era una efficace e lungimirante strategia che stava cambiando l’economia e la politica internazionale del nostro Paese.
Quella strategia venne fermata da una bomba (una delle tante che hanno contrassegnato la vita del paese dal dopoguerra in poi): un attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, uccise il fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, sull’aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.
QUELLA LETTERA DI ALDO MORO
Una lettera inedita scritta il 19 settembre 1962 da Aldo Moro ad Enrico Mattei, presidente di Eni, nella quale il segretario della Dc gli chiedeva di dimettersi dalla presidenza della società.
Poco più di un mese dopo, il 27 ottobre 1962, il bireattore che portava Mattei da Catania a Milano esplose nel cielo sopra le campagne di Bascapè (Pavia). La lettera, affiorata dall’archivio storico dell’Eni di Castel Gandolfo, è stata resa nota dallo scrittore Giovanni Giovannetti, che sta lavorando a un libro su Mattei, sul settimanale della diocesi di Pavia, Il Ticino.
Questo il contenuto della missiva: «Carissimo (…) Ho ancora meditato sulle cose che ci siamo detti nel nostro ultimo incontro e, naturalmente, sul peso del sacrificio che il partito ti chiede. A mente fredda e sulla base delle più compiute informazioni date fornitemi ho dovuto ancora concludere che è questa ancora la via migliore.
Ogni decisione comporta certo uno svantaggio ed in esso, credimi, io metto in primissima linea il tuo disappunto, anzi il tuo evidente e comprensibile dispiacere. Lo noto e mi pesa molto. Ma, credi, nella situazione attuale non c’è di meglio da fare.
La tua rinuncia contribuisce a consolidare una situazione assai fragile e spegne una polemica astiosa che ti avrebbe ancor più amareggiato, e con te le tue idee e le tue importanti iniziative. Sembra di perdere ed invece si garantisce e si consolida. Ho l’impressione che non si canterà vittoria.
Aggiungi anche questa alle tue benemerenze; alla tua silenziosa fedeltà; al tuo servizio prezioso nell’interesse del paese. Grazie, caro Mattei, con i più affettuosi sentimenti.
Aldo Moro».[2]
LE INCHIESTE E I DEPISTAGGI
L’inchiesta giudiziaria, subito aperta sulla sciagura di Bascapè, si concluse il 31 marzo 1966: una sentenza del giudice pavese, Antonio Borghese, dichiarava di «non doversi procedere in ordine ai reati rubricati ad opera di ignoti, perché i fatti relativi non sussistono»[3].
Ma i pronunciamenti della magistratura non convinse una parte dell’opinione pubblica italiana, tant’è vero che sul “caso Mattei” si sviluppò per decenni un vivace dibattito mediatico, alimentato da molteplici pubblicazioni e dall’omonimo film del regista Francesco Rosi, uscito nelle sale cinematografiche nel corso del 1972.
La natura dolosa dell’evento si sarebbe potuta dedurre, oltre che dalle numerose testimonianze oculari, anche dalla particolare disposizione sul terreno dei rottami dell’aereo e dei resti degli sfortunati passeggeri.
Se il grosso degli stessi si era depositato a ventaglio dopo il punto di impatto del velivolo col suolo, secondo le leggi della fisica, la particolare ubicazione di alcuni frammenti metallici e di tessuti umani postulava una deflagrazione in cielo.
Tale scenario fu chiaramente prospettato dalla signora Rita Maroni («Ho sentito un boato e una botta e ho visto il fuoco») e dall’agricoltore Mario Ronchi («il cielo era rosso, bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutte intorno... Un aeroplano si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sul prato, sotto l’acqua») nelle interviste rilasciate ai giornalisti la sera stessa dell’incidente e uscite il 28 ottobre sul Tg del primo canale Rai e nella seconda pagina del Corriere della Sera [4].
Questi e altri dati furono platealmente ignorati dalla Commissione d’inchiesta dell’Aeronautica militare italiana, nominata dal ministro della difesa Giulio Andreotti la notte stessa dell’incidente su designazione del generale Felice Santini, uomo di fiducia dei servizi segreti americani.
Il suo presidente, generale Ercole Savi, uno dei progenitori di Gladio, si precipitò a Bascapè la mattina del 28 ottobre e condusse i lavori nella massima riservatezza e con scarso rispetto della normativa vigente in materia[5].
Nella relazione finale, licenziata nel marzo del 1963, la Commissione ministeriale prospettò come probabili cause dell’incidente aviatorio un’avaria tecnica o un errore del pilota, spiegazioni recepite poi acriticamente dai due periti nominati dal Tribunale di Pavia.
Nella sua requisitoria, licenziata il 7 febbraio 1966, il pubblico ministero Edoardo Santachiara aggiunse anche l’ipotesi di un eccessivo affaticamento fisico del pilota o addirittura di un gesto insano indotto da delusioni amorose connesse a una relazione extraconiugale con una hostess dell’Alitalia.
A mantenere in vita i dubbi sulla verità confezionata dai giudici pavesi contribuirono, nei decenni successivi al 1962, le esternazioni di autorevoli rappresentanti delle Istituzioni come il ministro Oronzo Reale, il capo del SISMI, l’ammiraglio Fulvio Martini e il leader democristiano Amintore Fanfani, presidente del Consiglio nell’ottobre del 1962.
E in un convegno di ex partigiani bianchi, tenuto a Salsomaggiore nel 1986, quest’ultimo parlò espressamente di «abbattimento dell’aereo» di Mattei, raffigurandolo come «il primo gesto terroristico del nostro Paese» e il «primo atto della piaga» della violenza politica, poi esplosa su larga scala negli anni successivi.
A far riaprire le indagini sulla morte di Mattei furono però le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
A partire dal 1993-1994 Gaetano Jannì, Tommaso Buscetta, Italia Amato e altri sostennero che Mattei era stato ucciso dalla mafia siciliana desiderosa di rendere un favore alla consorella americana e alle Sette sorelle del cartello petrolifero.
In Sicilia il compito di eliminare Mattei se l’era assunto Giuseppe Di Cristina, elemento di spicco della cosca mafiosa di Riesi (CL), legato al futuro senatore Graziano Verzotto, rappresentante dell’Eni nell’isola.
Nel corso di un’inchiesta, aperta nel 1994 e chiusa nel 2003, il sostituto procuratore Vincenzo Calia ha incriminato per favoreggiamento personale aggravato Mario Ronchi, che qualche giorno dopo il 27 ottobre 1962 aveva cambiato la sua versione dei fatti collocando l’incendio dell’aereo dopo l’impatto col suolo, venendone ripagato con l’incarico di custode del sacrario eretto in onore di Mattei e l’assunzione della figlia in una ditta legata a Eugenio Cefis.[6]
Nella requisitoria licenziata il 20 marzo 2003 e basata, tra l’altro, sull’acquisizione di nuove testimonianze oculari, sulla perizia tecnica di due ingegneri aeronautici e sulla consulenza medico-legale di un luminare dell’università, il p.m. Vincenzo Calia ha dimostrato che ad abbattere l’aereo di Mattei era stata una piccola carica di esplosivo piazzata da ignoti dietro al cruscotto mentre il velivolo era parcheggiato nell’aeroporto catanese di Fontanarossa.
L’innesco sarebbe stato azionato dal sistema di apertura dei carrelli attivato nel momento in cui il piccolo jet iniziò la fase di atterraggio verso la pista di Linate. L’esecuzione dell’attentato sarebbe stata «pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato». [7]
Anche se non condivisa dal giudice Fabio Lambertucci, che nella sentenza emessa il 17 marzo 2004 archiviò il procedimento aperto dieci anni prima per il «carattere ignoto degli autori del fatto» e perché «non era stata fornita una prova sufficiente che il fatto delittuoso» fosse «stato commesso», la ricostruzione del dr. Calia appare pienamente convincente sotto il profilo storiografico.
Essa è stata condivisa dai giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, che nelle motivazioni della sentenza emessa il 10 giugno 2011, al termine della terza inchiesta condotta sul sequestro del redattore palermitano Mauro De Mauro, l’hanno considerata suffragata «da un compendio davvero imponente di prove testimoniali, documentali e tecnico-scientifiche».
Costoro hanno indicato nella «causale Mattei», cioè nella necessità di tenere occultati determinati retroscena della morte del manager pubblico, il movente della soppressione del giornalista.
Al complotto contro il presidente dell’Eni avrebbero partecipato, «su input di una parte del mondo politico», sia Cosa Nostra isolana sia Graziano Verzotto[8], il politico di origini padovane sottratto a una probabile incriminazione dalla morte, avvenuta nel maggio del 2010.
La sentenza 10 giugno 2011 è stata confermata nei due successivi gradi di giudizio e solo la ricostruzione storica che l’accompagnava è stata ridimensionata da certa a «verosimile» o «altamente probabile» dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo (27 gennaio 2014) e da certa a «verosimile» dalla Corte di Cassazione (4 giugno 2015).
Nel 2017 Vincenzo Calia ha pubblicato i dati più significativi della propria inchiesta in un libro intitolato Il caso Mattei [9], di fondamentale importanza per la ricerca storica.
Ne Il delitto Mattei, uscito nel 2019, lo storico padovano Egidio Ceccato ha presentato il presidente dell’Eni come vittima delle asprezze politiche della Guerra Fredda prima ancora che dell’ostilità delle multinazionali del petrolio [10].
Queste ultime non avevano certo perso occasione per mettere in cattiva luce il geniale manager italiano presso le diplomazie dei rispettivi paesi, ma a far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai Paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75% anziché il 50% delle royalty.
Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale.
Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Di più, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico, offrendo il fianco ad accuse di violazione della solidarietà atlantica e di filocomunismo.
Il Dipartimento di Stato USA aveva reagito bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali.[11]
Una volta andate a vuoto le pressioni esercitate in ambito NATO o tramite esponenti del clero e dell’associazionismo partigiano cattolico – desumibili sia da una deposizione di Rino Pachetti (25 giugno 1963), sia da una pubblicazione di un nipote del leader democristiano Mariano Rumor [12] – fu deciso il ricorso alla forza.
Paradossalmente proprio il nuovo clima della “coesistenza pacifica”, indotto dall’impossibilità di una confrontation militare, che le armi atomiche avrebbero reso rovinosa per ambedue i blocchi che si contendevano l’egemonia mondiale, spinse ciascuna delle due superpotenze ad acuire, all’interno della propria sfera d’influenza, l’intransigenza in materia di fedeltà ideologica e di appartenenze politiche.
A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di loose federation (lega) fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo ipotizzato incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un meeting coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre.
Quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia, che con gli Accordi di Évian (18 marzo 1962) riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.
L’occasione propizia per sciogliere il nodo Mattei con modalità simili a quelle dell’Operation Mangusta pianificata contro il leader cubano Fidel Castro – una delle poche covert operation di cui la CIA ha riconosciuto la paternità – si presentò sul finire dell’ottobre 1962, quando l’acutizzarsi della crisi missilistica di Cuba polarizzò sui Caraibi l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale.
La prospettiva di una guerra nucleare rese in quel momento intollerabile qualsiasi forma di dissenso o anche di semplice distinguo da parte di un Paese della NATO, come l’Italia, che occupava una posizione strategica in mezzo al Mediterraneo.
Anche se le autorità statunitensi non hanno mai ammesso proprie responsabilità, l’ipotesi di un’operazione segreta impostata dai servizi segreti americani tramite società ombra e appaltata alla mafia di ambedue le sponde dell’oceano appare estremamente plausibile.
L’omertà di Cosa Nostra era già allora proverbiale e, in caso di contrattempi, l’indignazione universale si sarebbe indirizzata verso la malavita organizzata e le multinazionali del petrolio.
Negli ultimi tempi il padre-padrone dell’Eni si era inimicato anche molti esponenti della destra politica ed economica italiana per le sue aperture commerciali all’URSS e perché di ostacolo a una transizione ordinata dalla formula politica centrista a un centro-sinistra con limitate velleità riformiste.
Da ultimo fu abbandonato dagli stessi governanti italiani, oggetto delle pressioni diplomatiche statunitensi, che gli tolsero la copertura dei servizi segreti e allentarono i servizi di vigilanza pubblici e privati con la scusa della fine della guerra d’Algeria.
Soprattutto dopo il 27 ottobre costoro garantirono le complicità istituzionali che permisero di archiviare la tragedia di Bascapé come incidente aviatorio. Funzionari dei servizi segreti civili si precipitarono sul luogo dell’incidente, mentre altri esponenti delle Istituzioni concorsero a depistare i curiosi, ad addomesticare le inchieste e ad assicurare un clima di omertà nascondendo o facendo sparire molti documenti ufficiali.
La vedova Margherita Paulas si risposò con il generale d’aviazione Giuseppe Casero, membro della prima commissione d’inchiesta sul “caso Mattei”, membro della Loggia P2 e implicato nel golpe Borghese.
Il 5 novembre 1997 il pubblico ministero di Pavia Vincenzo Calia giunge a questa conclusione: “l’aereo, a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Inrneio Bertuzzi, venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962. Il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei loro alloggiamenti”.
Tuttavia molte domande restano ancora senza risposta. Enrico Mattei stava per spezzare la morsa costruita attorno a lui dal cartello petrolifero che escluse l’ENI dal mercato petrolifero internazionale, negandogli concessioni nei paesi produttori alla pari con le altre compagnie petrolifere.
A quel punto Enrico Mattei dichiarò guerra al sistema neocoloniale delle concessioni, offrendo ai paesi produttori un accordo rivoluzionario: il 75% dei profitti contro il 50% finora offerto dalle compagnie oltre alla qualificazione della forza lavoro locale. Il cartello reagì furiosamente, giungendo a rovesciare governi, come quello libico, che avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI prospettive di grandi forniture.
Nel 1962, quando si andava prospettando la soluzione della questione algerina, Mattei era riuscito comunque ad aggirare il blocco. Sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Mattei aveva ipotecato un trattamento preferenziale verso l’ENI dal futuro governo.
Mattei era convinto che l’Algeria possedesse vastissime riserve di petrolio ancora inesplorate. Intanto De Gaulle decideva di riconoscere l’indipendenza algerina. Come contropartita, la compagnia petrolifera francese ottenne gli stessi privilegi dell’ENI. A quel punto l’ingresso dell’ENI nel grande giro del mercato petrolifero sembrava dunque cosa fatta.
Nel frattempo il presidente dell’Eni era riuscito anche ad aprire un dialogo con la Casa Bianca, nonostante la stampa internazionale avesse dipinto Mattei come un pericoloso sovversivo anti-americano.
Pare che Mattei fosse riusciro a convincere John Kennedy che mirava soltanto ad un trattamento alla pari e che non accettava i metodi coloniali applicati dalle “sette sorelle” del petrolio. L’amministrazione Kennedy accettò il dialogo e fece pressioni su una compagnia petrolifera, la Exxon, per concedere all’Eni dei diritti di sfruttamento. L’accordo sarebbe stato celebrato con una visita di Mattei a Washington, dove avrebbe incontrato il Presidente Usa e ottenuto il conferimento di una laurea honoris causa da parte di una prestigiosa università statunitense.
Ma, proprio alla vigilia di quel viaggio, il 27 ottobre 1962, Mattei fu assassinato.
Un anno dopo, fu ucciso anche John Kennedy. Secondo un rapporto confidenziale del Foreign Office(UK) del 19 luglio 1962 “il Matteismo” era “potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza (…). Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica ‘Matteista’ rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo”.
LA PISTA FRANCESE
Sull’operato dell’Uar (Ufficio Affari Riservati, Viminale) nei primi anni Sessanta disponiamo di un consistente gruppo di note confidenziali inerenti le attività di quei militanti dell’Oas (Organisation de l’armée secrète) che, ricercati dai servizi segreti francesi, avevano trovato riparo in Italia, grazie anche ai loro collegamenti con esponenti politici del nostro Paese.
Tra i principali elementi dell’Oas presenti sul suolo italiano l’Uar indicava soprattutto Georges Bidault, Jacques Soustelle, Jean Susini e Philip De Massey (nei cui confronti venne disposto un capillare servizio di pedinamento), mentre tra i politici più legati al movimento ultranazionalista francese erano segnalati i missini Giorgio Almirante, Tullio Abelli, Giuseppe Romualdi, Filippo Anfuso ed Egidio Sterpa.
L’arrivo degli uomini dell’Oas in Italia sarebbe stato facilitato dall’esistenza a Roma dell’organizzazione Peregrinatio Romana che mensilmente predisponeva viaggi nella Capitale per le comunità cattoliche di Belgio e Francia. Gli agenti dell’Oas, sfruttando il fatto che la Peregrinatio provvedeva in proprio al disbrigo delle pratiche doganali dei suoi fedeli, riuscivano a confondersi tra i «pacifici pellegrini cattolici» e a entrare in Italia evitando sistematicamente i controlli alla frontiera.
«Non si è in grado di precisare – si legge in una informativa – se vi è o meno una cosciente complicità da parte della Peregrinatio Romana con l’Oas», anche se nel suo organico vi sarebbero stati dei funzionari in contatto con «elementi dell’estrema destra, sia degli ambienti cattolici, che del Movimento Sociale».
In un’ulteriore nota si sosteneva che il principale centro organizzativo italiano al quale avrebbero fatto capo gli uomini dell’Oas era «l’Istituto San Pio V per la difesa ed il rafforzamento dei valori cristiani», fondato a fine dicembre 1960 dal cardinale Alfredo Ottaviani (capo della Congregazione del Sant’Uffizio) e da monsignor Gilberto Agustoni (prefetto emerito del Supremo tribunale della Segnatura apostolica).
Attraverso quest’ultimo «gli agenti dell’Oas troverebbero protezione in Vaticano». Secondo le informazioni in possesso dell’Uar, i militanti dell’Oas stavano progettando un attentato contro l’allora presidente dell’Eni Enrico Mattei, nemico giurato dell’organizzazione terrorista francese a causa del supporto che stava fornendo agli indipendentisti algerini.
Da una nota dell’agosto 1961, per esempio, veniamo a sapere che era appena giunto a Roma il colonnello Jean Goddard, braccio destro del generale Raoul-Albin Salan (uno dei fondatori dell’Oas, in passato stretto collaboratore del generale Charles De Gaulle), il quale avrebbe incontrato «alcune delle personalità politiche e religiose maggiormente implicate nell’attività oltranzista nel nostro Paese. Non si esclude che il viaggio sia pure collegato con le minacce epistolari dirette [nei mesi precedenti] al presidente Mattei».
Il colonnello Goddard «si incontrerà con il professor Luigi Gedda ed altre personalità cattoliche, tra cui certamente il proprietario dell’Istituto San Pio V, monsignor Agustoni. Una parte degli incontri avrà luogo in un appartamento sito in via Piemonte n. 39, a Roma, ove è la sede centrale dell’organizzazione tambroniana nota come Centro per l’Ordine Civile».
Un successivo appunto riferiva della presenza in Italia di Bernard de La Rose, noto per le sue attività di «attentatore» per conto dei nazionalisti francesi. «Il La Rose» sarebbe giunto a Roma «col preciso incarico di predisporre un attentato contro il presidente della Fivl [Federazione italiana volontari della libertà] Enrico Mattei».
Inquietante è un documento in cui si parlava di un attentato contro l’aereo di Mattei che sarebbe stato progettato da uomini dell’Oas. «L’aereo – si legge – avrebbe dovuto essere sabotato con una bomba ad orologeria, piazzata a Milano, che avrebbe dovuto scoppiare dopo la partenza da Roma, al di sopra del Mediterraneo, per impedire ogni inchiesta sulla caduta dell’apparecchio».
Il 23 marzo, in un’ennesima informativa, l’Uar ribadiva che «l’Oas non ha rinunciato al proposito di far la pelle ad Enrico Mattei» e ha «addirittura esaminato la possibilità di abbatter[ne] l’apparecchio nel caso questi si recasse in Algeria».
In un precedente documento, peraltro, sulla base di informazioni che sarebbero state fornite all’Uar da un familiare del militante missino Massimo Anderson (che in numerose note era descritto come figura vicina all’Oas) si sosteneva che «un attentato al presidente dell’Eni è sempre possibile» in quanto gli uomini dell’Oas «continuano a studiare le abitudini dell’uomo (il presidente Mattei)».
Tuttavia, la strategia seguita da Goddard e dai suoi è «attendere che l’opinione pubblica dimentichi la notizia delle già avanzate minacce a lui [Mattei] dirette», per poi colpirlo al momento opportuno.
L’autore della nota concludeva sostenendo di avere «ampi e giustificati motivi per ritenere come sostanzialmente esatte e veritiere le considerazioni espresseci dal familiare di Massimo Anderson».
Nel 1997, in un’intervista al «Corriere della Sera», Jean Susini, dopo aver rievocato gli anni passati in Italia, ha sostenuto di non poter escludere che quell’attentato l’abbia organizzato la rete italiana dell’Oas, visto che, a suo dire, Ie ragioni per far fuori Mattei c’erano tutte.
Egli infatti: «forniva armi ai ribelli algerini attraverso la Tunisia, era un gioco che rientrava negli interessi petroliferi dell’Italia [...]. I veri nemici di Enrico Mattei erano i francesi d’Algeria».
Poche settimane dopo la morte di Mattei, peraltro, l’Uar reclutò tra i suoi informatori il giornalista Pasquale (detto «Lino») Ronga che del presidente dell’Eni era stato uno dei più stretti collaboratori e per conto del quale aveva avuto l’incarico di monitorare proprio le attività degli uomini dell’Oas”.
Nei primi anni Sessanta, grazie alla mole di informazioni che era riuscito a raccogliere, l’Uar rintracciò e fece poi estradare in Francia diversi agenti dell’Oas presenti in Italia, riuscendo a riacquisire l’autorevolezza che aveva perduto dopo la caduta dei triestini.
A guidare una gran parte di queste operazioni fu un funzionario da poco entrato agli Affari Riservati, ma destinato a una sfolgorante carriera: Federico Umberto D’Amato (estratto da “La spia innocente. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”, di Giacomo Pacini Einaudi editore)
L’APPOSIZIONE DEL SEGRETO DI STATO
In quanto segreto di Stato, dopo il 1962 i retroscena di Bascapè furono oggetto di una rigida tutela istituzionale. Tuttavia, in un libro pubblicato nel 1996, il politologo Giorgio Galli poteva anche affermare con cognizione di causa che, nei tre decenni precedenti, «mezza Italia» aveva ricattato «l’altra metà con ciò che sapeva della morte di Mattei».[13] Chi non si atteneva alla consegna del silenzio divenne oggetto di intimidazioni, minacce e persino di violenze fisiche.
Qualche osservatore ha ricondotto all’esigenza di precludere rivelazioni sul caso Mattei la morte violenta di personaggi come il colonnello Renzo Rocca, il pilota Marino Loretti, il magistrato Pietro Scaglione, il commissario di polizia Boris Giuliano, ecc.
Secondo lo storico Ceccato questo fu sicuramente il movente della soppressione del giornalista palermitano Mauro De Mauro (16 settembre 1970) e del tentato sequestro di Graziano Verzotto, avvenuto a Siracusa il 1 febbraio 1975.
Il primo fu eliminato dai boss mafiosi già coinvolti nel delitto Mattei e il secondo sfuggì fortunosamente all’agguato tesogli dal fascista romano Berardino Andreola, un confidente dell’Arma dei Carabinieri già coinvolto nella morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli sotto il celebre traliccio di Segrate.[14]
*****
Da ultimo pubblichiamo un cablo contenente documenti segretati resi noti da Wikileaks il 21 ottobre 2020:
1- #UK #StrictlyConfidential su Enrico #Mattei che avrebbe detto: “Ci ho messo 7 anni per condurre il Governo italiano verso una apertura a sinistra. E posso dirle che mi ci vorranno meno di 7 anni per far uscire l’#Italia dalla #NATO e metterla alla testa dei paesi neutrali”. Il 7 agosto del 1962, il Ministro Energia britannico A.A. Jarratt scrive: “L’#ENI sta diventando una crescente minaccia agli interessi britannici... La minaccia ENI si sviluppa, in molte parti del mondo, nell’infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali […] L’#Eni incoraggia l’autarchia petrolifera a scapito degli investimenti e degli scambi delle imprese britanniche”.
2 – Nel febbraio del 1961, il #ForeignOffice (UK) aveva divulgato una circolare sull’Eni: “l’influenza e le offerte di assistenza dell’Eni si sono estese in maniera considerevole, soprattutto in #Africa; l’Eni ha reso la vita il più possibile difficile (e scarsamente remunerativa) a tutte le imprese petrolifere occidentali attive in #Italia. L’Eni intende procedere nella stessa maniera sia nella #Cee sia in #GranBretagna; l’Eni è ancora legato al petrolio russo. Il gruppo italiano, quindi, costituisce uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un’intesa sensibile sul petrolio russo tra i sei membri della Cee. L’Eni influenza le politiche della Cee sui futuri rapporti con i paesi produttori di petrolio, un’influenza che finirebbe per rivelarsi dannosa per le compagnie petrolifere occidentali. I piani da noi elaborati, che puntano a garantire la stabilità nel mercato petrolifero europeo, non avranno successo se l’#Eni continuerà ad applicare i suoi metodi fuori da ogni controllo. Al contempo, l’intervento del gruppo italiano in altre parti del mondo finirebbe per nuocere agli interessi petroliferi occidentali e alle attività dei russi stessi.”
Note
[1] Italy: Powerful Man Archiviato il 4 novembre 2012 in Internet Archive., Time Magazine, 2 novembre 1962; Giorgio Galli, Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano, p. 127.
[2] Mattei, la lettera un mese prima della morte, articolo apparso sul Corriere della Sera del 10/12/2021
[3] Decreto di archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Mattei, in G. Lo Bianco, S. Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista all’origine delle stragi di Stato, Chiarelettere, Milano, 2009, pp. 282-292
[4] F. Di Bella, “Il bireattore di Mattei in fiamme si è disintegrato nella campagna pavese”, Corriere della Sera, 28 ottobre 1962.
[5] Richieste del P.M. Vincenzo Calia, Pavia 20 febbraio 2003.
[6] Fonti: La Repubblica, 21.11.1997, “Mattei fu assassinato. La verità 25 anni dopo” e La Repubblica, 15.05.1999, “Una bomba uccise Mattei”
[7] Francesco La Licata e Guido Ruotolo, Mattei, un complotto italiano, su webalice.it, Pavia, La Stampa, 6 marzo 2003
[8] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo in data 10 giugno 2011, a firma del presidente Giancarlo Trizzino e del giudice estensore Angelo Pellino.
[9] Vincenzo Calia e Sabrina Pisu, Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo le bugie, depistaggi e manipolazioni della verità, Milano, Chiarelettere, 2017.
[10] E. Ceccato, Il delitto Mattei. Complicità italiane in un’operazione segreta della Guerra Fredda, Roma, Castelvecchi, 2019.
[11] Department of State, Guidelines for Policy and Operations, Italy, May 1962.
[12] P. Rumor, L. Bagnara, G. Galli, L’altra Europa. Miti, congiure ed enigmi all’ombra dell’unificazione europea, Castelfranco Veneto, Panda edizioni, 2018.
[13] G. Galli, La regia occulta. Da Enrico Mattei a Piazza Fontana, Tropea, Milano, 1996, p. 62
[14] E. Ceccato, Giangiacomo Feltrinelli, un omicidio politico, prefazione di Guido Salvini, Roma, Castelvecchi, 2018
Fonte
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