Nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953 il MSI triplicò i suoi voti rispetto al 1948, portando in Parlamento 38 tra deputati e senatori. I fascisti, da poco rientrati da latitanze e fughe dopo il crollo dello stato fantoccio di Salò, cominciavano ad accomodarsi.
Sistemandosi all’interno di quelle istituzioni democratiche che avevano combattuto e che disprezzavano dalla radice. «Il 25 aprile è nata una puttana, le hanno dato nome, Repubblica italiana», cantavano quei camerati, salvati alla fine del conflitto mondiale dagli Alleati anglo-americani ormai protesi verso la Guerra Fredda anticomunista.
Junio Valerio Borghese, già alla guida della X Mas, fu messo in salvo da James Jesus Angleton, un agente di vertice dell’OSS (antesignana della CIA) che lo caricò su una jeep statunitense. Diventerà presidente del MSI e organizzerà il golpe del 7-8 dicembre 1970.
Giorgio Almirante scappò in abiti civili dalla porta di servizio della Prefettura di Milano il giorno della Liberazione indossando un bracciale tricolore partigiano. Diverrà il principale capo missino nei decenni repubblicani.
Augusto De Marsanich, già deputato fascista e membro del governo Mussolini, in quel 1953 ricopriva la carica di segretario del partito, il cui presidente onorario, dal 1952, era il criminale di guerra Rodolfo Graziani.
Forse erano loro «le persone che non ci sono più» a cui la neo Presidente del Consiglio ha dedicato la vittoria la notte dei risultati elettorali del 25 settembre scorso. Oppure erano figure di quella «destra democratica» di cui si è vantata di aver fatto parte nel suo discorso in Parlamento il giorno della fiducia al suo governo.
Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo ovvero il gruppo responsabile delle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia. Oppure Mario Tedeschi, direttore de «Il Borghese» e della formazione scissionista missina di «Democrazia Nazionale», oggi indicato dalla procura di Bologna come uno dei responsabili della strage del 2 agosto 1980 alla stazione.
Forse Giorgia Meloni pensava ai protagonisti della «rivolta di Reggio Calabria» guidati dal deputato missino Ciccio Franco oppure ai «ragazzi» di Piazza San Babila a Milano, primattori degli scontri che il 12 aprile 1973 portarono alla morte dell’agente Antonio Marino e che videro in piazza anche un giovane dirigente del MSI oggi seconda carica dello Stato e collezionista privato di busti di Mussolini.
Di fronte al formarsi del governo di oggi tornano alla mente le parole dell’epigrafe che Piero Calamandrei scrisse, all’indomani delle elezioni del giugno 1953, rivolgendosi ai partigiani caduti della Resistenza: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano, nell’aula dove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue, sono tornati, da remote calingi, i fantasmi della vergogna».
Il falso racconto del passato, finalizzato al governo del presente, propalato oggi dalle alte cariche dello Stato e dell’esecutivo ha iniziato il suo cammino.
Con il silenzio nel centenario della «marcia su Roma»; con la dichiarata ostilità all’antifascismo ed alla Resistenza scandalosamente criminalizzati e negati da Meloni nella sua improbabile ricostruzione della storia d’Italia; con la «fuga», attraverso il vittimismo, dagli anni Settanta delle stragi e dello squadrismo nelle fabbriche e nelle università.
Nelle aule del Parlamento italiano abbiamo visto concretarsi ciò che Calamandrei preconizzava: «Apprenderemo, da fonte diretta, la storia vista dai carnefici». Non ci troviamo certo di fronte a un ritorno del «fascismo eterno».
Tuttavia le radici profonde di questa destra (fin dal dopoguerra radicalmente «atlantica») riemergono oggi dalla voce di Giorgia Meloni o nel loro identitarismo classista che dichiara di «non voler disturbare» industriali e ceti proprietari; di voler avversare i migranti; di promuovere la guerra contro le donne che non vogliono omologarsi all’essere soltanto «madri e cristiane», come urlato nei comizi filo-franchisti di Vox in Spagna.
L’inquietudine che suscita il bagaglio storico rivendicato dalla destra è pari soltanto a quella alimentata dalla lettura della stampa italiana, l’unica restìa a chiamare postfascista il partito Fratelli d’Italia; l’unica incapace di raccontare la natura profonda di una Presidente del Consiglio politicamente accarezzata dalle familistiche ed eterne (quelle si) classi dirigenti nazionali che ieri ebbero tra i loro padri e nonni fondatori i veri sostenitori del regime fascista e che oggi posseggono di tutti i principali mezzi di informazione.
Da queste consapevolezze sarà necessario ripartire per una battaglia culturale e politica di difesa della verità storica, della Costituzione e dei diritti della persona.
«Troppo presto li avevamo dimenticati – ammoniva Calamandrei – è bene che siano esposti in vista su questo palco. Perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».
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