Per pura curiosità: date una sbirciatina a giornali.it, con le prime pagine di ieri dei maggiori quotidiani italici. A parte il titolo – se si vuole, abbastanza neutro – di Avvenire, con un «Ucraina, colpo su colpo», nessun altro quotidiano apre la prima pagina con l’intervento di Vladimir Putin al club “Valdaj”, l’appuntamento su temi politico-economico-internazionali che si ripete da 19 anni a Mosca.
Nessun altro quotidiano, eccetto quello acquartierato a via Bargoni, che apre la prima con un titolo che poco ha a che vedere con le categorie giornalistico-politiche, avvicinandosi più a una diagnosi sanitaria: «Delirio di potenza».
Non che siano da meno gli altri megafoni della linea informativa atlantica, con Corriere e Repubblica che riportano, ma di spalla, rispettivamente, «Putin all’attacco dell’occidente» e «Putin avverte: verso il decennio più pericoloso» e perfino La Stampa piazza solo a metà pagina la propria truculenta russofobia con «La Jihad di Putin».
A il manifesto l’apertura è un referto clinico: siamo in presenza di uno che delira, diagnosticano, e l’unica soluzione è la camicia di forza; ovviamente da infilargli con maniere decise.
Difficile dire se prevalga l’invettiva anti-russa dell’articolista (sorge il dubbio che scriva anche per La Stampa sotto altro nome...) o riemergano antiche lamentazioni per la “scorza sovietica che non ne vuol sapere di farsi da parte” nella nuova Russia.
Ma, fuor di maledizioni, cosa ha detto Putin l’altro ieri all’assemblea del club “Valdaj”?
In estrema sintesi, ed esaminando solo alcuni dei numerosi temi da lui trattati: l’Occidente, lo voglia o no, dovrà cominciare a ragionare sul futuro comune, perché, finita l’egemonia unipolare, si deve andare verso giustizia e sicurezza per tutti.
È vero che, purtroppo, gli «eventi si stanno sviluppando lungo uno scenario negativo», dato che l’Occidente ha intrapreso una serie di passi che inaspriscono la situazione: dalla «guerra in Ucraina, alle provocazioni attorno a Taiwan, alla destabilizzazione dei mercati alimentari ed energetici», fino all’aperta rivendicazione dell’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani.
Perché gli inasprimenti e i diktat sono tipici del corso occidentale, da detto Putin, citando Aleksandr Solženitsyn (non è proprio il massimo, citare uno che 50 anni fa chiedeva agli USA di bombardare la Russia per estirpare il socialismo) su il «duraturo accecamento della supremazia».
In questo caso, tuttavia, difficile dar torto allo pseudo Ivan Denisovič, e Putin lo ha ribadito a più riprese: «l’Occidente stabilisce le proprie regole e impone agli altri di seguirle. Nessun altro punto di vista è accettato»; ma ora l’altra parte del mondo si sta ribellando.
Per di più, ha detto, l’Occidente ha dimenticato le sacre regole del commercio, della concorrenza, della proprietà. In realtà, vorremmo chiosare, quando si tratta dei propri capitali, l’Occidente non le ha dimenticate: vuole “solo” che smettano di valere per i capitali che stanno emergendo (o sono già più che emersi) in altre aree mondiali.
Il crollo dell’Unione Sovietica, ha detto Putin, aveva sconvolto gli equilibri geopolitici; l’Occidente si era sentito vincente e aveva proclamato l’ordine mondiale unipolare. Ora, quel periodo storico sta per concludersi: davanti a noi abbiamo «il decennio più pericoloso, imprevedibile, ma anche più importante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale».
Fino a non molto tempo fa, ha detto, “noi russi” credevamo di trasformarci in una semi-colonia, senza finanze, tecnologia, mercato... poi abbiamo preso coscienza di essere un grande paese.
Che dire? Dal punto di vista del “libero mercato”, nulla da eccepire; a parte forse il “piccolo” corollario che tutti i comunisti (ma anche molti nazionalisti) russi concordano nel dire che la Russia posta-sovietica ha distrutto buona parte delle proprie industrie, trasformandosi in un paese per lo più fornitore di materie prime. Materie prime che, in barba alle sanzioni occidentali, avevano già da anni intrapreso nuove strade, divenute ampie autostrade con gli eventi degli ultimi mesi.
Tralasciamo l’accenno (storicamente raffazzonato) di Putin alla formazione dell’Ucraina, quale “stato artificiale”, arricchito dopo il 1945 di terre polacche, ungheresi e romene “donate da Stalin”: altre volte vi abbiamo accennato, e la questione merita riflessioni più corpose, che non il breve spazio oggi a disposizione.
Osserviamo solo che Putin, parlando della Russia come «unico e autentico garante della statualità ucraina», sembra concentrarsi sullo “Stato in sé”, senza alcun contenuto classista e, dal punto di vista storico-politico.
Ad esempio, tralascia la contrapposizione tra Rada controrivoluzionaria insediata a Kiev e Soviet proletari di Khar’kov, che proclamavano l’unione alla Russia bolscevica e che riuscirono poi a egemonizzare l’intera Ucraina, pur se il nazionalismo reazionario dei Dontsov, Jurkevič, Gruševskij, ecc., e poi dei Konovalets, Bandera & Co. non vi è mai del tutto scomparso.
Putin ha toccato anche i problemi delle armi nucleari, della cosiddetta “bomba sporca”; i rapporti con la Cina, divenuta «il nostro più robusto partner» in svariate sfere: militare, tecnico-militare, culturale e soprattutto economico. Ha accennato alle perdite militari ucraine, all’inflazione in Russia, che nel primo trimestre del 2023 sarà di circa il 5%, con una disoccupazione al 3,8%.
Sinceramente, le considerazioni svolte da Putin al “Valdaj” non sembrano affatto richiedere gli accertamenti clinici auspicati a via Bargoni. Sembra piuttosto trattarsi di naturali constatazioni su una situazione mondiale che, per l’appunto, scaturisce proprio dalle «sacre regole del commercio, della concorrenza, della proprietà», che l’Occidente non ha affatto «dimenticato», ma che, di per se stesse, conducono inevitabilmente all’emergere di forze, capitali, monopoli concorrenti, e che – se il marxismo-leninismo non è gettato alle ortiche: ancora negli anni ’70, per dire, un colloquio sulla materia era la prassi per un comune cittadino sovietico che intendesse visitare da turista, in gruppo, un altro paese socialista; figuriamoci per chi operava in certi Servizi – costituiscono il più grave pericolo di guerra.
Evidentemente, secondo qualcuno, Vladimir Lenin non ha fatto nulla di meglio che «piazzare una bomba sotto l’edificio chiamato Russia»; per altri, o almeno per noi, ha analizzato – tra le svariate altre cose – l’evoluzione del capitalismo in imperialismo, coi monopoli generati proprio dalla libera concorrenza, e ha indicato nella lotta tra di essi per l’accaparramento dei mercati, nella lotta inter-imperialista, il principale pericolo di guerra.
Dunque, Vladimir Putin non ha fatto altro che ribadire quanto sotto gli occhi di tutti coloro che vogliano vedere: l’Occidente ha fatto di tutto per distruggere l’Unione Sovietica; nello spazio post-sovietico si è aperto il “libero mercato”, si è sviluppata la concorrenza e da questa sono sorti (in molti casi, sono stati direttamente accaparrati da ex-proprietà statali) monopoli, i quali, guadagnando forza, mettono sempre più in discussione l’egemonia di altri monopoli in giro per il mondo.
Per l’Occidente, questo non è il “normale” sviluppo della sacra proprietà privata e del libero mercato, bensì un “attentato alla democrazia”, perpetrato secondo la “Jihad di Putin” sconvolto da “Delirio di potenza”. Putin e i russi devono quindi essere messi al bando dal “mondo libero”, contro cui bramano piani di rivincita “multipolare”: la propaganda fa il proprio dovere.
Ne è un esempio la recentissima aggiunta di un paragrafo a un articolo del Codice penale tedesco, che sembra fatta apposta per trattare “come si deve” nei tribunali ogni manifestazione in odore di simpatie filo-russe: estendendo arbitrariamente la marxiana «anatomia dell’uomo chiave dell’anatomia della scimmia», la “più evoluta“ Germania ci svela cosa attenda ancora la patria del “fascismo storico”, che non abbia già di suo.
Ora, per quanto ci riguarda, ci fanno orrore gli esorcismi come quelli invocati da Aleksandr Dugin il 25 ottobre al Sinodo internazionale popolare russo; crediamo però che se ne differenzino ben poco le “libere” esternazioni sia della “libera” stampa che delle “libere” procure dell’intero “libero” Occidente.
A proposito della contrapposizione tra Russia e NATO, Dugin parla di una «guerra del cielo contro l’inferno, una guerra dei combattenti angelici, la guerra dell’arcangelo Michele contro il demonio»; ricorda le parole di Putin dello scorso 30 settembre, sul «carattere satanico della civiltà occidentale» e sul fatto che «a noi si contrappone l’ideologia del liberalismo, del globalismo, del post-umanesimo… l’angelo è ragione, spirito e ragione… angeli e demoni, e il campo di battaglia è l’Ucraina… e non è possibile oggi vincere sulle forze contro cui combattiamo, senza l’aiuto di dio».
Verità di chiesa, dunque incontrovertibili.
Poca differenza, con l’estensione dell’art.130 del Codice penale tedesco sulla “Istigazione del popolo”, con cui, come scrive Dagmar Henn su RTDe, la verità è trasformata in reato e diventa impossibile esprimere pareri diversi da quello ufficiale.
L’art.130 ha condotto un’esistenza oscura per decenni ed è stato raramente applicato; ora, il nuovo punto chiave è la formulazione «in maniera tale da turbare la pace pubblica»: decidere cosa turbi la pace sociale e cosa no, è a discrezione delle Procure e dei tribunali.
L’articolo è stato integrato, col pretesto dell’attuazione di un requisito europeo del 2008; la cosa strana, scrive Henn, è lasciare qualcosa nel cassetto e poi tirarla fuori «proprio quando sembra opportuno puntare a qualcosa di completamente diverso, che non era previsto né nella versione originale dell’art. 130, né nel suddetto requisito UE, a meno che non si voglia supporre che la richiesta UE fosse volta a salvaguardare la propaganda di guerra», già con diversi anni d’anticipo.
Dunque, gli appelli a «uccidere tutti i russi cantati durante una riunione non costituiscono un disturbo della pace sociale; un manifesto appeso alla finestra del proprio appartamento da una pensionata che dice “Grazie, Putin”, sì».
E, nota Henn, non il testo della legge, ma l’esperienza pratica degli ultimi mesi dimostra che anche semplici commenti sui social da parte di persone comuni, possono essere considerate “disturbo della quiete sociale”, se contraddicono la narrativa della NATO, mentre dichiarazioni che non solo minimizzino il nazismo ucraino e i suoi crimini, ma addirittura lo glorifichino, non hanno alcuna conseguenza penale.
Immaginiamo che il timore russo sulla “bomba sporca” ucraina si avveri, oppure che si bombardi un gasdotto o un impianto di stoccaggio di scorie nucleari: tutti i canali ufficiali parleranno di “crimine di guerra russo”, e a chi provasse a sostenere il contrario, si applicherebbe il nuovo paragrafo 5 dell’art. 130, che punisce qualsiasi deviazione dalla narrazione ufficiale.
La narrazione ufficiale, rimanendo in Germania, è quella, ad esempio, del Premio per la Pace del Commercio librario tedesco, assegnato il 25 ottobre allo scrittore ucraino Serhij Zhadan – nei mesi scorsi, incensato anche dalla “libera” stampa mainstream nostrana – che urla «I russi sono barbari, sono venuti a distruggere la nostra storia, la nostra cultura, la nostra educazione... Orda, criminali, animali, immondizia... Bruciate all’inferno, maiali». Un Dugin al contrario, insomma...
E se un settimanale come Die Zeit nega che l’assegnazione del premio sia uno scandalo, perché, dice, «Lo scandalo non è il poeta o il suo libro. Lo scandalo è l’invasione russa dell’Ucraina e le uccisioni quotidiane. La letteratura sta reagendo con i propri mezzi. E combatte solo per la pace», dalla pur pudica Heise.de ribattono oltremodo pacatamente: «Cari colleghi di Die Zeit: da quando l’odio per i popoli è un aiuto alla pace?».
La narrazione ufficiale è anche quella del “premio Sakharov per la libertà di pensiero” assegnato il 19 ottobre dal Parlamento europeo al «coraggioso popolo ucraino, rappresentato dal suo Presidente, dai leader eletti e dalla società civile».
Ora, Ucraina a parte, in cui si proclamano eroi i collaborazionisti filo-nazisti, si assassinano o si gettano in galera anche i semplici cittadini che abbiano solo provato a scrivere qualcosa sui social e in cui sono messi fuori legge tutti partiti non governativi; a parte questo, per farsi un’idea anche solo “statistica” del premio in oggetto, è sufficiente scorrere l’elenco dei premiati per paesi est europei…
L’Occidente non solo ha “dimenticato la libera concorrenza” (come si lamenta Putin), ma è andato ben al di là anche della “libera decenza”.
Insomma, come direbbe il Faust goethiano, «quello che chiamate spirito dei tempi, è in sostanza lo spirito di quei certi signori in cui si rispecchiano i tempi».
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