Abbiamo intervistato Gabriele Battaglia, giornalista free-lance che abita da diversi anni in Cina e collabora a differenti organi di informazione come la Radiotelevisione svizzera (RSI) e Radio Onda d’Urto. Ha differenti pubblicazioni alle spalle, tra cui l’ultima: Massa per Velocità. Un racconto dalla Cina profonda, edito da Prospero editore nel novembre 2021. Gabriele è una fonte preziosissima per chi vuole seguire le trasformazioni della Repubblica Popolare. Ha seguito direttamente il recente XX Congresso del Partito Comunista Cinese. Gli abbiamo posto alcune domande.
In occidente la discussione dopo la fine del XX Congresso è quella sul potere di Xi Jinping. Quando venne selezionato dieci anni fa, la vasta maggioranza degli osservatori occidentali lo considerava una figura grigia, senza linea politica, un mediatore in un Partito Comunista dilaniato dal fazionismo. Com’è stato possibile passare dalla situazione di 10 anni fa a quella di oggi? Xi Jinping, con la campagna anti corruzione e con una revisione dello stile di lavoro del Partito Comunista Cinese, ha profondamente cambiato gli assetti di potere interni all’organizzazione. Sei d’accordo? È ancora possibile leggere le dinamiche secondo gli schemi con le vecchie correnti: i “principi rossi” figli e nipoti dei vecchi rivoluzionari, i tuanpai allevati nella Lega della Gioventù di Hu Jintao, la cricca di Shanghai protetta dal grande vecchio Jiang Zemin?
Partendo dal presupposto che nel 2012 Xi era considerato una figura di compromesso tra le diverse fazioni all’interno del Partito comunista, non riconducibili solo al dualismo principini-lega dei giovani comunisti (taizidang-tuampai), direi che su quello che è successo dopo si divide in due scuole di pensiero. La prima sostiene che Xi Jinping abbia gradualmente fatto fuori ogni opposizione interna utilizzando la campagna anticorruzione come strumento privilegiato; la seconda, che l’evoluzione successiva sia stata in qualche modo voluta dal Partito, nella sua grande maggioranza, già all’epoca dell’insediamento di Xi. Quando lui prende il potere, il Partito comunista sente di essere reduce da un “decennio perduto” – quello di Hu Jintao-Wen Jiabao – in cui si sono esasperati alcuni dei problemi strutturali che il trentennio precedente, quello del boom cinese, hanno lasciato in eredità.
Sul piano interno, si sono acuiti drammaticamente la diseguaglianza sociale e il divario città-campagna, che per altro sono quasi sinonimi; le fonti di crescita e ricchezza sono altamente destabilizzanti per l’intero sistema: grandi investimenti poco produttivi che danno origine a gigantesche bolle speculative (non solo quella immobiliare), inoltre il ruolo di “fabbrica del mondo” crea enormi problemi di sostenibilità ambientale e soprattutto relega la Cina al ruolo di fornitore di merci a basso valore aggiunto al resto del mondo; la corruzione è imperante e ha ridotto il consenso al Partito comunista ai minimi storici.
Sul piano internazionale, le politiche di contenimento della Cina da parte degli Usa non cominciano certo con Trump, basti ricordare il “pivot to Asia” della premiata ditta Obama-Hillary Clinton, ma un rapporto di Condoleeza Rice a cavallo del millennio già identificava nella Cina l’avversario del futuro, proprio mentre Pechino e Washington erano allo Zenith della loro complementarietà nell’ambito della globalizzazione. È bene ricordarlo sempre quando gli Usa identificano nella Cina “la sfida più completa e seria alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti” come nell’ultima Strategia di difesa nazionale, uscita pochi giorni fa.
Di fronte a questo mix potenzialmente esplosivo, il Partito sceglie l’uomo forte costruito in casa: Xi Jinping. È abbastanza nella tradizione cinese: il buon governante non è “democratico” (concetto non estraneo ai cinesi, ma sicuramente meno pervasivo che da noi), bensì soprattutto forte e perciò in grado di garantire il massimo benessere possibile alla sua grande popolazione che, ricordiamolo è quasi il triplo della popolazione sommata di Stati Uniti e UE.
Insomma, io propendo per la seconda ipotesi secondo cui Xi Jinping è un prodotto del Partito comunista in una determinata fase della sua evoluzione, anche se non è necessariamente in contrapposizione alla prima. Diciamo che Xi è “programmato” per mettere muscolarmente le cose a posto e nel suo ruolo, gradualmente, esaspera sempre più la propria presa sul potere, arrivando fino agli esiti odierni, dieci anni dopo, con il ventesimo congresso del Partito.
Che quello di Xi in origine non fu un “golpe”, bensì una scelta del Partito stesso lo deduco da diverse indicazioni. Ad esempio, la campagna anticorruzione era cominciata anche prima, con l’eliminazione di un potenziale rivale come Bo Xilai, proprio durante la leadership di Hu-Wen. Inoltre Xi non è una figura che splende di luce propria come Mao Zedong (a cui spesso è associato), non è carismatico, non è un intellettuale, non è un leader rivoluzionario, non ha vinto la guerra antigiapponese e la guerra civile, è un apparatchik, appartiene alla “nobiltà rossa”, il suo culto della personalità viene gradualmente costruito con alcune trovate mediatiche di tipo spettacolare e nazional-popolari, come la sua apparizione in un ristorante frequentato dalla gente comune per fare di lui il “presidente di popolo”. Infine, la sua ascesa non è contro il Partito come fu spesso nel caso di Mao – basti pensare alla Rivoluzione culturale – bensì del tutto interna al Partito stesso, di cui lui acuisce la presa sulla società, a cui lui restituisce centralità nella vita quotidiana dei cinesi.
Quindi direi che l’accentramento di Xi Jinping è indubbio, ma è un prodotto dell’apparato. La storia futura è ancora da scrivere, certamente gli esiti dell’ultimo congresso portano in direzione di un ulteriore accentramento del potere e sinceramente non so se questo è voluto oppure è una sorta di movimento inerziale, così come non so quanto corrisponda a un piano razionale che indubbiamente all’inizio c’era. Né ovviamente ho la più pallida idea di che esito avrà.
Il Congresso rimane un evento che coinvolge i quadri di un Partito di massa. Durante il resto dell’anno, però, si afferma che il PCC abbia lavorato a rivitalizzare la mobilitazione anche dei membri di base. Secondo la tua esperienza, quanto è profonda questa rivitalizzazione?
La mobilitazione è una delle chiavi fondamentali per comprendere cosa sta succedendo in Cina in questo momento e cosa succede in Cina sempre quando ci si trova di fronte a situazioni eccezionali, sia negative sia positive, può trattarsi di un disastro naturale o dell’organizzazione delle Olimpiadi. È qualcosa che noi non possiamo comprendere perché non viviamo in una società collettivista, ma è sia un momento in cui si risolvono problemi pratici, sia un momento in cui si offre un senso all’individuo sul suo stare in questa società.
È il momento in cui organismi di base fin lì silenti improvvisamente “si accendono” e si fanno carico della vita sociale, della vita quotidiana, mentre al tempo stesso il potere, dall’alto, sospende le normali consuetudini, taglia livelli della gerarchia e compie “affondi” fino alla base della società per risolvere problemi immediati e potenzialmente catastrofici.
Questa mobilitazione, a differenza della mobilitazione “di massa” che va da quando il Partito era clandestino oppure costituiva i soviet durante la guerra civile fino al tardo maoismo, con la Rivoluzione culturale, è a partire da Deng Xiaoping sempre più tecnocratica, delegata ai quadri di Partito e ai tecnici preposti a risolvere i problemi.
Per gli altri è la “mobilitazione a non mobilitarsi”, stare buoni e fermi senza peggiorare le cose finché il problema non si risolve, anche così si offre il proprio contributo.
Questo si è visto soprattutto con il Covid: da un lato si tagliano i livelli gerarchici e i vertici compiono un affondo, come a Wuhan e poi a Shanghai, quando i funzionari locali sono stati esautorati e da Pechino è arrivato il mister Wolf della situazione a ordinare politiche rapide, draconiane, che coinvolgono milioni di persone (nel caso di Shanghai, Miss Wolf, cioè Sun Chunlan che allora era l’unica donna nel Politburo); dall’altro lato, tutti i comitati di base, cioè il Partito all’interno del popolo, che interagisce con figure amministrative statali e agenzie private (per esempio amministrazioni di condominio) si attivano e dettano le regole spicciole, fanno i lavori necessari (come alzare barriere), mantengono l’ordine, organizzano la comunicazione, istruiscono e aiutano la popolazione; infine, la popolazione “si mobilita a non mobilitarsi”, accettando di sospendere la propria individualità e di fare sacrifici.
Questo modello può funzionare solo in Cina, da noi per esempio è impossibile che il tuo portinaio dall’oggi al domani ti imponga di star chiuso in casa; è molto efficace perché scatena grandi energie, fino a un certo punto è anche una forma di partecipazione, ma ovviamente non può durare all’infinito così come tutti le fasi eccezionali. Il problema di oggi è proprio quello: non se ne vede la fine.
Il congresso ha riconfermato la politica di “zero covid dinamico” e ha elevato a numero 2 del PCC Li Qiang, diventato il politico più odiato dalla comunità degli stranieri in Cina perché considerato colpevole della gestione ferrea (e a tratti maldestra) del lockdown di Shanghai. Nella società cinese che sentimenti si muovono rispetto a questa politica?
C’è molta stanchezza, per quello che riesco a percepire io, ma non c’è assolutamente una fase pre-rivoluzionaria. Chi può cerca di andarsene, altri invece stringono i denti pensando che fuori dalla Cina è anche peggio, con la guerra, la crisi economica, forse neppure il riscaldamento per il prossimo inverno. C’è chi mi assicura che comunque l’azzeramento dinamico ha ancora l’appoggio della maggioranza della popolazione, ne prendo atto e sinceramente non so, anche perché io osservo la realtà di una metropoli e in questo momento non mi è consentito fare inchiesta, magari nelle aree rurali (ma neppure in città, a dire il vero).
I timori riguardano soprattutto la perdita del lavoro e quindi del reddito, ma per ora mi sembra che i cinesi siano ancora nella fase del chi ku (mangiare amaro) che tante altre volte hanno sperimentato nella loro storia, anche se non manca l’esasperazione perché di fatto la tua vita è nelle mani di piccoli funzionari che interpretano le regole sempre in maniera molto restrittiva, per non correre rischi. Se la regola impone che la priorità assoluta è che nella tua area di competenza non ci siano casi di coronavirus, allora tu – funzionario di centesimo livello – diventi esageratamente zelante nel prevenire quella eventualità.
Così, se devi scegliere tra due possibilità, scegli sempre la più repressiva e drastica: “Questo qui arriva da fuori, gli faccio fare 3 giorni di quarantena in casa oppure sette in una struttura di isolamento anti-covid? Facciamo la seconda, và”. “Questo camion sta portando merce deperibile, lo faccio passare oppure metto l’autista in quarantena e lo parcheggio per una settimana lì di fianco? Meglio andar sicuri”.
Quindi ognuno si sente in ostaggio di scelte estemporanee e la tipica discrezionalità dei funzionari cinesi, che un tempo ti permetteva di fare tutto violando anche le regole, adesso va in direzione contraria, e diventa arbitrio. Una reazione è che nessuno prende iniziative, tanto poi quasi sicuramente non si realizzano. Gli eventi culturali in città sono bloccati, perfino andare al ristorante assume i connotati del rischio. Inoltre non mancano le esplosioni di rabbia di fronte a scelte assurde, la disperazione, anche i suicidi e le patologie psichiatriche. Chissà se quando storia sarà finita qualcuno riuscirà a fare uno studio completo su questo aspetto.
Nell’economia cinese si stanno accumulando molti problemi: l’invecchiamento della popolazione, l’effetto della guerra commerciale con gli USA, gli effetti di “zero covid dinamico” e della mordacchia alle grandi aziende hi-tech. Tra le conseguenze più visibili c’è un innalzamento della disoccupazione giovanile a livelli che non si vedevano da decenni, specie nelle aree urbane. Secondo te, questo sarà il “nuovo normale” anche a medio termine? Quali potrebbero essere le conseguenze nella società?
Questo è per me un grande dilemma. Ho sempre visto una logica nelle scelte della leadership cinese, anche quelle più estreme. Adesso vedo solo una grande contraddizione. È vero che ormai da qualche anno – anche prima del Covid – la sicurezza ha affiancato lo sviluppo economico come priorità. Anzi, la sicurezza di tutti i tipi (interna, esterna, alimentare, energetica, militare) è dichiaratamente il prerequisito della crescita economica.
Ma non riesco più a vedere i presupposti di quella crescita economica, ormai sicurezza e sviluppo mi sembrano in contraddizione. Certo, non vedo neanche una via d’uscita facile, non possono come da noi ordinare il “liberi tutti” dall’oggi al domani, passerebbero in men che non si dica da 5200 morti di Covid a settecentomila-un milione e quattrocentomila secondo le stime.
Al Congresso hanno detto che nell’ultimo decennio la Cina ha raddoppiato il volume della propria economia e ha avuto una crescita media del 6 per cento, più di chiunque altro. Evidentemente pensano di avere ancora margini di chi ku, mangiare amaro, ma non so per quanto.
Uno dei concetti più interessanti che è stato inserito nello Statuto del Partito è quello di “prosperità condivisa” su cui giustamente hai messo l’accento nei tuoi interventi, e generalmente poco considerato dagli osservatori.
Questo è normale perché nella logica delle opposte propagande che si è esasperata negli ultimi tre anni, di Cina si può parlare solo in termini negativi, come incubo repressivo o, in alternativa, società disfunzionale perché diversa dalla nostra. Invece mi pare che la gongtong fuyu, la prosperità condivisa, sia davvero tornata in auge e ormai non c’è discorso ufficiale che non la citi.
Il messaggio alla borghesia, per cui è finita la pacchia di arricchirsi senza vincoli e questo è subordinato a una più equa ridistribuzione, è passato senz’altro, tant’è che molti cercano di filarsela con il bottino. Nel linguaggio ufficiale hanno inserito il concetto delle tre forme di ridistribuzione delle risorse che è comunque qualcosa di molto compatibile con il neoliberismo: una prima forma è la classica allocazione di mercato; la seconda la ridistribuzione di Stato (cioè praticamente le tasse); la terza – che è la novità – è la beneficenza, la charity. Cioè, pochissima cosa.
Però la peculiarità cinese la rende forse più potente, perché qui vige il fattore “P”, la politica. Cioè, questo è un messaggio politico che arriva dall’alto, è cosa buona se fate fondazioni, charity, gesti concreti di benevolenza, e infatti le maggiori imprese si sono messe dall’oggi al domani a stanziare fondi “per la gongtong fuyu”, perché questo serve a restare nella correttezza politica e quindi nelle grazie del Partito comunista, anche se poi loro dicono che fanno tutto spontaneamente.
Insomma, è un nuovo tipo di scambio tra il Partito e il capitale. Non so dove porterà, ma l’intento per il 2035 è di realizzare la compiuta modernizzazione per tutti, senza lasciare nessuno indietro, idem per quanto riguarda il “grande ringiovanimento della nazione cinese” entro il 2049. Vedremo.
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