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04/11/2022

Precarietà e austerità uccidono la ricerca

Negli ultimi mesi del Governo Draghi (30 giugno 2022) è stata approvata la riforma del preruolo universitario che va a modificare, con il D.L. 36/2022, la legge 240/2010 (la famigerata riforma Gelmini). La riforma del preruolo prevede l’abolizione dei principali contratti con cui attualmente le università assumono il personale docente e di ricerca, ossia l’assegno di ricerca, il ricercatore a tempo determinato di tipo A (RTD-A) di durata triennale, e il ricercatore a tempo determinato di tipo B (RTD-B), anch’esso di durata triennale ma con passaggio (quasi) automatico a professore associato. Con la riforma, queste tre figure sono state sostituite da due tipologie di contratti: il contratto di ricerca, di durata biennale e rinnovabile per altri due che va a sostituire gli assegni di ricerca, mentre il ricercatore tenure track (RTT), di durata massima di sei anni e con un passaggio (quasi) automatico a professore associato, andrà a sostituire gli RTD-A e gli RTD-B.

Il nuovo contratto di ricerca costerà, all’Università, 38mila euro all’anno contro i 24mila che erano necessari prima della riforma, dunque circa 80mila euro per attivare un contratto di durata biennale. Ci saranno più diritti e un salario più alto per i nuovi contrattisti di ricerca; infatti, si prevede che lo stipendio netto passerà da 1400 euro a circa 1600 euro. Fin qui, tutte buone notizie per i dottori di ricerca che vogliono intraprendere la carriera universitaria. Tuttavia, nella legge è stata aggiunta una postilla secondo cui “La spesa complessiva per l’attribuzione dei contratti di cui al presente articolo non può essere superiore alla spesa media sostenuta nell’ultimo triennio per l’erogazione degli assegni di ricerca, come risultante dai bilanci approvati”. Questo crea senza ombra di dubbio un effetto di espulsione dei giovani ricercatori e ricercatrici dalle università: si tratta, in altri termini, di un tentativo di abbattere il precariato ammazzando i precari. A parità di risorse, un aumento dello stipendio dei lavoratori della ricerca porterà alla diminuzione del numero di contrattisti di ricerca. Tuttavia, con una nota dell’8 luglio 2022, Maria Cristina Messa, la ex ministra dell’università e della ricerca, ha specificato che la spesa media sostenuta dell’ultimo triennio non riguarda quelle risorse provenienti da progetti finanziati, in tutto o in parte, da soggetti esterni. Quindi, se da una parte la riforma non aumenta il canale di finanziamento ordinario della ricerca imponendo la tagliola della spesa storica nel triennio precedente, dall’altra lascia l’opportunità di accedere a fondi esterni/straordinari (pubblici e privati) per finanziare la ricerca.

Un primo punto di riflessione riguarda i fondi privati, per i quali vale sempre il solito ragionamento: le imprese investiranno nell’università solo in quei settori che possono portare loro un ritorno economico. In sostanza, basta fare ricerca in storia, filosofia, lettere, e dottrine politiche, ma investiamo su dipartimenti che aiutano le imprese a fare i profitti. Il PNRR, nella ‘Missione 4: Istruzione e ricerca’, è chiaro su questo punto e delinea il futuro della ricerca in Italia: legare mani e piedi la ricerca universitaria ai fabbisogni di innovazione delle imprese.

Un secondo punto dirimente riguarda i fondi pubblici di natura straordinaria o ascrivibili a finanziamenti esterni della ricerca. Nei prossimi tre/quattro anni l’effetto di riduzione del numero di contrattisti di ricerca non sarà visibile perché, tramite il PNRR e altri fondi messi a bilancio dal governo nel 2021, arriveranno diversi finanziamenti alla ricerca per i periodi 2022-2026. Questi fondi, di natura straordinaria e temporanea, arriveranno tramite diverse linee di finanziamento del PNRR per un totale di 6,91 miliardi. I principali programmi saranno: i) Fondo per il Programma Nazionale Ricerca (PNR) e progetti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) (1,8 miliardi); ii) Finanziamento di progetti presentati da giovani ricercatori (600 milioni); iii) Partenariati allargati estesi a Università, centri di ricerca, imprese e finanziamento progetti di ricerca di base (1,61 miliardi); iv) Potenziamento strutture di ricerca e creazione di “campioni nazionali di R&S” su alcune Key Enabling Technologies (1,6 miliardi); v) Creazione e rafforzamento di “ecosistemi dell’innovazione per la sostenibilità”, costruendo “leader territoriali di R&S” (1,3 miliardi). A questi, vanno aggiunti 600 milioni per l’introduzione di dottorati innovativi che rispondono ai fabbisogni di innovazione delle imprese e promuovono l’assunzione dei ricercatori dalle imprese. La natura e la logica di questi fondi, oltre all’entità e al carattere temporaneo degli stessi, aprono le porte a ulteriori considerazioni.

Innanzitutto, come è possibile vedere dai pilastri del PNRR, molte di queste risorse andranno a finanziare la ricerca pubblica per creare figure professionali e sviluppare ricerche utili al settore privato. Inoltre, il meccanismo con cui si accede a questi bandi favorirà le università di per sé più grandi e dotate di strutture interamente dedicate ad intercettare finanziamenti e risorse di questo genere. Le università già ricche (specialmente collocate nel nord Italia) ne risultano e ne risulteranno ulteriormente avvantaggiate e senza che ciò dipenda dalla qualità specifica della ricerca. Mentre un parziale argine alla divergenza tra atenei del Sud e atenei del Nord può derivare dalla clausola, spesso presente in questi bandi, di allocare il 40% delle risorse nelle università meridionali, è invece plausibile ritenere che la disparità tra atenei grandi e piccoli (e quindi a cascata tra gli studenti) non verrà limitata, perché le università più in grado di attrarre fondi sono anche le più grandi. Vi è inoltre una seconda questione legata alla natura “non ordinaria” di questi finanziamenti. I fondi di ricerca finanziati quasi esclusivamente dal PNRR, in assenza di un piano di investimento ordinario e di lungo periodo nel sistema universitario, finiranno per doparlo, creando una massa di giovani ricercatori e ricercatrici precarie che vedranno, nel giro di qualche anno, sfumare le possibilità di continuare a lavorare nel mondo della ricerca. Di fatto queste risorse finanzieranno esclusivamente contratti a termine e precari, ossia contrattisti di ricerca e RTD-A (in deroga per i prossimi tre anni alla riforma del preruolo).

E tra tre/quattro anni cosa succederà? Molto probabilmente, se non aumenteranno i fondi ordinari (FFO), tutti questi giovani saranno espulsi dall’università. Appare dunque necessario prepararsi ad una battaglia che parta sin da ora ma guardi all’obiettivo di medio-lungo periodo per adeguare i fondi ordinari tramite cui verranno assunti i nuovi ricercatori RTT e professori associati e ordinari nel 2026, proprio quando i fondi straordinari del PNRR termineranno. A tal proposito è utile ricordare che il governo Draghi, con il Decreto Ministeriale n. 445 del 06-05-2022, ha predisposto dei piani straordinari di reclutamento del personale universitario per il 2023-2026. Sebbene di natura straordinaria, il piano aumenta i fondi ordinari (FFO) di 740 milioni di euro e alloca per le assunzioni di ricercatori, professori associati e ordinari, 300 milioni per 2022-2023, 340 milioni per il 2024, 50 milioni per il 2025 e altri 50 milioni per il 2026. Come possiamo vedere dalle previsioni di spesa, i soldi destinati alle assunzioni permanenti decrescono proprio nel 2025 e 2026 in concomitanza della fine del PNRR. Dunque, questi fondi ordinari non saranno mai sufficienti ad assumere con contratti stabili tutti i precari e le precarie che verranno assunti facendo ricorso ai fondi per la ricerca del PNRR. Tutto ciò avviene proprio in un contesto in cui l’università italiana viaggia costantemente sottorganico e scarica proprio sulle giovani leve, ricercatori precari e docenti a contratto, l’onere di mandare avanti il sistema. I dati riportati in Tabella 1 ci danno una chiara indicazione: l’Italia è uno tra i paesi europei che oramai da un decennio sperimenta il più alto numero di studenti per docenti o, detto in altri termini, l’Italia presenta il più basso numero di docenti per studenti. Il dato italiano è sempre peggiore della media europea e dei paesi OECD, mostrando così il chiaro sottofinanziamento strutturale del sistema universitario italiano.

Che fare, quindi? La lotta va concentrata, sin da ora, sul richiedere un aumento cospicuo dei fondi ordinari all’università. La logica fasulla dell’eccellenza, dei fondi straordinari e di tutto il circo collegato, che obbliga il/la giovane ricercatore/ricercatrice a passare il suo tempo a procacciarsi i fondi per sopravvivere e non a fare ricerca, va respinta senza remore. Delegare a ogni singola università, a ogni singolo dipartimento, a ogni singolo ricercatore l’onere di procurarsi i finanziamenti per tenere in piedi un sistema dignitoso di istruzione e ricerca pubblico è nient’altro che il contraltare delle politiche di austerità che ci schiacciano da decenni. Il nemico è quindi da ricercare, come al solito, i vincoli di bilancio, una gabbia in cui sguazzano benissimo sia il governo Draghi sia il governo Meloni.

Il neonato Coordinamento nazionale di precariə della ricerca @ReStrike ha lanciato una riunione nazionale per aprire un dibattito pubblico sull’ultima riforma dell’università e per deliberare sulle iniziative di mobilitazione da intraprendere.

Per discutere gli aspetti della riforma e catalizzare le istanze di giovani ricercatori e ricercatrici o aspiranti tali, l’appuntamento è per oggi pomeriggio alle 14 presso la facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma (sede di San Pietro in Vincoli, via Eudossiana, 18, Roma), Aula 38 – Carlo Mazzetti (ingresso diretto da via delle Sette Sale 11a).

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