di Gioacchino Toni
«Le luci del nostro tempo brillano di oscurità. Durante tutta la modernità, abbiamo accarezzato il mito secondo il quale il progresso ci avrebbe donato, nel solco di un piano razionale, l’emancipazione da ogni schiavitù, il benessere e la felicità. Secoli di forsennata produzione, accumulazione e consumi ci hanno invece gettati in un presente tenebroso ove, impigliati nelle maglie delle reti digitali, sopraffatti dal sistema degli oggetti e travolti dalle crisi sanitarie, dalle catastrofi ambientali e da inedite ed efferate guerre, regnano sovrane l’alienazione e la depressione, donde il corollario sono i fuochi fatui del successo e i simulacri del divertimento. Eccoci volontariamente costretti in catene senza fili che non possiamo e non vogliamo più distruggere». (Vincenzo Susca)
Oltre a rivelarsi contraddistinta da inedite forme di seduzione e sfruttamento, la contemporaneità, secondo Vincenzo Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale (Mimesis 2022), sembra palesare il ritorno di «una logica della dipendenza» che mina alle fondamenta l’epopea moderna, nata in Occidente attorno al XV secolo, fondata sull’autodeterminazione dell’individuo autonomo e razionale.
Più che strumento utile alla soluzione razionale dei problemi che affliggono l’umanità e l’ecosistema in cui vive, la tecnica sembra essere diventata «il mondo che abitiamo, fine a se stesso, dove le cose, gli algoritmi, le macchine e i sistemi informatici permeano e dominano i nostri corpi fino a renderli una parte integrante del regno delle merci, degli spettacoli e delle informazioni» (p. 14).
In questi tempi segnati da inedite forme di sorveglianza e da paure ataviche, tra gli interstizi del quotidiano nella sua forma digitale, l’umanità sembra «danzare in estasi tra le catene» cercando il piacere e la libertà sui social e sulle piattaforme dell’intrattenimento. Un’umanità divenuta l’oggetto, più che il soggetto, di una metamorfosi ove «la tecnologia smette bruscamente di essere il dispositivo del lògos nel senso filosofico della ragione o del pensiero, divenendo tecnomagia, ovvero sistema di nuovi e vecchi totem, riti e miti attorno ai quali il soggetto si perde e si confonde» (p. 16).
Pare di trovarsi di fronte a una sorta di danza macabra contemporanea in cui, sostiene l’autore, l’essere umano pare sempre più posseduto e agito dagli oggetti, divenendo l’oggetto, e non il soggetto, di una trasformazione che opera ben al di là delle sue qualità razionali, biologiche e sociali. «Preda di una spirale contagiosa, l’umano si fa, al contempo, cosa, informazione, spettacolo, merce, opera d’arte e artista, spogliandosi della propria identità per dissolversi nell’alterità e ritrovarsi, come sotto l’effetto di sostanze psicotrope, altro da sé. Eccoci pertanto come altrettanti tecno-maghi e cavie volontarie di una sperimentazione totalizzante, in tempo reale e oltre lo spazio fisico, sulla vita a venire» (p. 16).
Nell’analizzare le trasformazioni culturali, sociali e antropologiche che segnano la contemporaneità, Susca si concentra sull’immaginario, sulle forme di comunione, comunità e comunicrazia che strutturano nuove forme di esistenza e di relazione verificando quanto il paradigma della connessione che contrassegna la realtà odierna rinvii «a una rinnovata forma di partecipazione magica» attraverso cui gli esseri umani si confrontano con la loro interdipendenza e con ciò che sta loro attorno.
In un contesto contemporaneo tetro, violento e alienato, «insorgono pratiche e immaginari tecnomagici che, nel mentre decentrano l’essere umano rispetto al sistema degli oggetti, alle macchine, alle reti e alla biosfera, stanno prefigurando la nuova carne a venire. Carne elettronica. Forme elementari del post-umanesimo» (p. 18).
Da parte sua il potere politico, sostiene Susca, ha saputo elaborare strategie «per accordare e rendere funzionale la razionalità del proprio dominio a equilibrate e adeguate dosi di non-razionalità, di passione e di piaceri, al fine di canalizzare in modo innocuo la catena dei bisogni sociali improntati sul disimpegno, facendoli scorrere attraverso le porte istituzionali senza che essi, in effetti, potessero rivelare l’istinto distruttivo insito nel proprio Eros» (p. 18). Le logiche del consumo e dello spettacolo, continua Susca,
tendono ad assicurare e a coordinare gli impulsi festivi e distruttivi della massa – l’eterno intreccio tra distrazione e distruzione – nell’ambito dell’ordine produttivo, non più attraverso la retorica del progresso, la qualità delle strutture razionali-legali e le ragioni delle ideologie storiche, ma a cominciare dalla seduzione della merce e degli show, dal godimento procurato tramite la loro contemplazione dapprima e dissipazione in seguito. Se è vero che il piacere reca in sé, nelle pulsioni che scatena, una fuga dall’ordine sociale e un’affermazione del corpo con la sua parte maledetta, la razionalità del dominio tende direttamente a regolarne l’uso in modo da domare la sua natura fondamentalmente sovversiva (p. 29).
Il disallineamento sempre più evidente tra élite e corpo sociale, secondo lo studioso, è probabilmente
da ricercare nell’obsolescenza del mito del lavoro e del progresso, appannaggio di nuove adesioni magiche con tanto di riti iniziatici, totem ed estasi, nei confronti della Terra Madre, della rete in tutte le sue declinazioni, del sistema degli oggetti e di tutto ciò che rinvia al corpo e al quotidiano. Sorgono così, a latere delle utopie sociali, delle grandi verità universali e della morale istituita, altrettante etiche ed estetiche che, oscillanti tra il mainstream e l’underground, forgiano strati di socialità improntati su affinità connettive al di là del tempo, dello spazio e delle appartenenze culturali classiche: fan, gamer, youtuber, influencer, raver, hacker, perdigiorno, flâneur, tiktoker, memer, role player… (p. 31).
Pur nelle loro differenze, sostiene lo studioso, «tali figure sostanziano nuove mitologie solo in parte riconducibili ai criteri e alle logiche delle narrazioni su cui si reggono le società contemporanee. Per questo, d’altra parte, queste ultime appaiono svuotate di legittimità, incapaci di saldarsi al corpo sociale e di nutrire ancora in modo fecondo l’immaginario collettivo» (pp. 31-32).
Il successo planetario dei tele-populisti è una spia evidente del terremoto culturale che scuote i sistemi sociali contemporanei. Tali figure, sostiene Susca, «attingono risorse simboliche non dal bacino semantico della politica, ma da quello degli stregoni, dei pirati, degli anomici, dei pistoleri o dei cow boy, tra riferimenti arcaici e fantasmi del futuro. L’attrazione che suscitano è direttamente proporzionale alla portata distruttiva e spettacolare del loro messaggio, al modo in cui promettono di abbattere lo status quo accogliendo le pulsioni anti-politiche che serpeggiano nell’immaginario collettivo» (pp. 32-33).
Nel momento in cui i tele-populisti si trovano a governare palesano miseramente il loro essere simulacri del cambiamento sociale, «propaggini dell’industria culturale ad uso e consumo di un pubblico animato dalla vocazione inconscia alla distrazione e alla distruzione, accarezzate più nella loro portata onirica che in quella pragmatica» (p. 33). A contare, ben più dei programmi politici, è la demagogia comunicativa su cui sono costruite queste figure che, oscillando tra il carnevalesco e il trash, contribuiscono «a dissacrare le strutture simboliche del potere moderno, incalzando l’avvento di altri regimi semantici in sintonia col sentire addestrato nei laboratori dell’immaginario e dei media elettronici» (p. 33).
La storia ha mostrato come quando una cultura si sfalda e dalle sue ceneri un’altra sorge, si generi spesso una sorta di ebbrezza di massa da cui derivano comportamenti sguaiati.
La condizione psicofisica che accompagna passaggi e paesaggi del genere, dagli sprawl al cyberspazio passando per i dance floor del mondo intero, è ben altra rispetto alla buona salute promossa dalle istituzioni sociali. Il corpo mutante, che genera nel suo deliquio, infatti, come insegnano la poesia di Antonin Artaud, la letteratura di William Burroughs, la fotografia di Cindy Sherman, l’arte di Orlan e di Matthew Barney, il cinema di David Cronenberg e George A. Romero, è contagiato, contaminato, alterato, in corso di confusione e di ibridazione con l’altro da sé. Lo stare bene nell’ambito di una festa nel senso più solenne e iniziatico del termine, senza edulcorazioni di sorta, prevede quindi cicatrici, aperture, fessure e pori adatti a favorire la circolazione e lo scambio delle sostanze tra soggetti, oggetti e ambienti, predisponendo l’individuo al piacere e non al lavoro, a uno stato di eccitazione invece che di veglia, alla ricreazione piuttosto che all’azione, ad essere agito più di quanto non agisca. I gemiti delle inquietanti e meravigliose creature nascenti sul nostro pianeta infetto scaturiscono da altrettante malattie oltre che da tripudi festivi, da orgasmi multipli e da depressioni, da intensi godimenti e da traumi irreversibili, giacché qui l’esistenza non vale più per ciò che il soggetto accumula e per come si conserva in vista del domani, ma per il modo in cui si dissipa nell’estasi, in una sorta di disagio agiato (pp. 223-224).
Come nelle cerimonie magiche tradizionali, eccedendo i limiti si ridefiniscono spazio, tempo e corpo in linea con «l’immaginario in fermento nel ventre del vissuto collettivo». «Tale performance sfocia in una condizione irresolubile, donde la sua natura tragica, in cui i piani del benessere e quelli del dolore coincidono, laddove la vita a venire è incubata esattamente in abissi oscuri e magmatici. Lungi dalla spensieratezza della dolce vita o dal clima ovattato degli anni Ottanta, il regime del piacere contemporaneo, anche nelle sue effervescenze frivole e nei suoi sussulti edonistici, è il corrispettivo di dolori, perdite, alienazioni, fatiche, sofferenze, graffi, derive ed altri cedimenti del soggetto appannaggio di tutto ciò che lo sovrasta» (p. 224).
Oltre che per le pratiche effettivamente più estreme, ciò vale anche per le situazioni divenute oggi ordinarie, come quelle esperite nelle reti sociali, in cui l’individuo è costretto e si costringe a inedite forme comunitarie.
La danza elettronica – corpo a corpo, al suono delle macchine, con il sudore che gronda da te a me e da noi a terra – è al contempo una performance e la prova antropologica, sociologica ed estetica più lampante di un’inversione densa di risvolti per il nostro presente: il ritorno, sotto nuove vesti, in una condizione nella quale la vita risiede in ciò che si perde e non in ciò che si guadagna, nello spreco e non nell’accumulo, nelle lacerazioni, nelle contaminazioni, nelle macchie, nelle ferite, nelle cicatrici e nella precarietà anziché nell’ordine, nella stabilità, nell’armonia e nella pulizia.
C’è crisi nell’aria? Ecco emergere dalle viscere del quotidiano il gesto apotropaico per eccellenza del puer aeternus: danzare sulle rovine. Non a caso, i grandi locali da ballo patinati che si sono moltiplicati negli anni Ottanta e Novanta sono oggi in crisi, incalzati da club, capannoni, masserie e spazi all’aperto più underground, cupi ed ostici, luoghi non fatti per la comodità, ma per essere fatti e disfatti, in una condizione di radicamento e incatenamento. In essi, resta ben poco del divertimento e dell’intrattenimento ben dosati dall’industria moderna degli spettacoli, giacché sono permeati da una cultura della distrazione inestricabilmente associata con la distruzione del sé. Astuzia ultima di comunità e generazioni che soppiantano e superano l’opposizione tra resistenza e adesione al sistema con la ricreazione – ricreazione di sé e ricreazione del mondo – la danza del disagio e la danza nel disagio prefigurano ciò che ci attende dopo il crepuscolo dell’Occidente e dell’umanesimo, un passo oltre dopo la decadenza. Benché possa scioccare le classi dirigenti di ieri e di oggi, destra, sinistra, centro, protestanti, cattolici, neo-liberali e post-socialisti compresi, si respira e si fa spazio un certo agio nel disagio contemporaneo. Il disagio agiato avviene nel sincretismo contemporaneo tra il lusso e il degrado, l’opulenza e gli stenti, il chiaro e l’oscuro dell’esistenza. È il “sì” alla vita nella morte stessa. Ecco cos’è la tecnomagia: una danza sulle rovine, l’estasi nel cuore della distopia (pp. 225-226).
È sempre più urgente domandarsi come rapportarsi nei confronti della
mutazione in atto, a meno che non si pensi l’essere umano ormai
definitivamente perduto nella sua ibridazione con spettacolari
tecnologie votate al suo sfruttamento totale e definitivo, dunque
ridotto definitivamente e completamente al servizio di un sistema
economico che, egemone sin dalla nascita della modernità, vanta una
lunga successione di barbarie arginate soltanto, per quel che hanno
potuto, da lotte e ribellioni nelle più diverse forme. Questa lunga
storia sembra ormai essere giunta all’epilogo. Anche i tempi
supplementari stanno finendo e chissà se arrivando ai calci di rigore in
preda all’estatica danza sulle rovine descritta dal volume, si avrà
almeno la lucidità di calciarli verso la porta giusta per non perdere
tale lunga, ma non infinita, partita.
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