Giovedì 6 aprile si è svolto l’undicesimo sciopero inter-professionale e l’undicesima mobilitazione nazionale contro la riforma pensionistica con manifestazioni in tutto l’Esagono.
Il giorno precedente, il capo dell’esecutivo Elisabeth Borne aveva ricevuto, senza che ciò sortisse alcun esito positivo, le otto organizzazioni sindacali che hanno fin qui guidato la protesta.
L’incontro, è stato un vero e proprio «fallimento» dal punto di vista dei sindacati. Da una parte i membri dell’intersindacale chiedevano il ritiro della riforma, a cui Borne ha risposto picche; dall’altra il Primo Ministro avrebbe voluto “superare” il dossier sulle pensioni ed avviare la discussione su altri cantieri che il governo ha intenzione di aprire ricevendo a sua volta un netto rifiuto.
Cyril Chabanier, presidente confederale della CFTC – il sindacato dei “quadri” – ha affermato a nome di tutta l’intersindacale: «Noi abbiamo ribadito alla prima ministra che non c'è altra soluzione democratica che non sia il ritiro del testo. La prima ministra ha risposto che lei ha intenzione di mantenere il suo testo. Una decisione grave».
Un testo, è sempre bene ricordarlo, che non è stato votato in Assemblea Nazionale per il timore che fosse bocciato da un governo che ha poi evitato di un soffio la sfiducia.
È significativo che anche il leader di una delle formazione sindacali più “moderate” come la CFDT, ribadisca un concetto già espresso e nuovamente attaccato anche dal presidente Macron: «stiamo vivendo una grave crisi democratica, avevamo una crisi sociale che si trasforma in crisi democratica».
Ancora più chiara la nuova leader della CGT, Sophie Binet, per cui «il governo è barricato in un bunker» ed è «in aperta rottura nei confronti del paese».
La torsione autoritaria della Francia si esprime sostanzialmente in due forme: la sordità del Presidente e dell’Esecutivo di fronte alle richieste della piazza, con milioni di persone che da tre mesi scendono in strada sostenute dalla maggioranza della popolazione, da tutto l’arco sindacale e dall’opposizione politica – sia di sinistra (NUPES, guidata da Mélénchon) che di estrema destra (RN di Marine Le Pen); dall’altra l’escalation della repressione.
Un sondaggio Viavoce pubblicato giovedì dal quotidiano “Libération” certifica il livello di delegittimazione del “Presidente dei Ricchi”.
Il 65% giudica negativamente l’operato di Macron – il 43% lo considera “molto negativo” ed il 22% “abbastanza negativo” – mentre solo un 26% lo giudica positivamente ed “entusiasma” solo il 4% degli intervistati (gli imprenditori, insomma)!
Il 75%, ad un secondo quesito più articolato, dichiara che il Presidente “non è vicino alla gente”, e ad una terza domanda – anch’essa più articolata – il 69% ha risposto che “non rispetta le opposizioni politiche”.
A parte ciò che concerne la politica estera per cui, comunque, solo il 36% – contro il 53% – dei francesi intervistati ha fiducia che “promuoverà il posto della Francia a livello internazionale”, su tutti i principali dossier del quinquennio viene espressa una sfiducia netta, con un picco del 68% rispetto alle questioni sociali.
Tutti i sondaggi sono sempre da prendere “con le pinze”, ma in questo caso sembrano fornire una istantanea molto attendibile sulla profonda sfiducia nei confronti del “Presidente dei Ricchi” comunque abbondantemente bocciato dalla piazza.
Un dato colpisce particolarmente: il 55% degli intervistati pensa che “le libertà”, dal 2017 – anno in cui è stato eletto per il suo primo mandato presidenziale – siano regredite.
Anche chi è d’accordo con le mobilitazioni, che sempre più spesso vedono scontri violenti con forze dell’ordine, ha timore a manifestare a causa dell’azione repressiva.
A questa percezione contribuisce l’attuale Ministro Gérald Darmanin, che è arrivato addirittura a criticare la Lega dei Diritti dell’Uomo per i rilievi fatti rispetto all’operato delle forze dell’ordine.
Le sue parole sibilline, con le quali lasciava intravedere una revisione delle sovvenzioni statali nei confronti della storica associazione che difende i diritti civili, ha spinto un centinaio di esponenti del mondo della cultura a scrivere una lettera aperta al presidente Macron affinché condanni pubblicamente le proposizioni di Darmanin.
Scrivono tra l’altro in questo appello i firmatari: «Noi non faremo l’affronto di rimproverarvi di ignorare che questi stessi militanti furono tra i bersagli principali della repressione del regime di Vichy».
Parole come pietre. Ma è chiaro che il semplice “monitoraggio” degli abusi in divisa è considerato un delitto di lesa maestà.
La solita geniale vignetta di Allan Barte immagina uno scambio tra il Presidente, preoccupato che le persone possano essere indignate per le posizioni del suo Ministro dell’interno, supponendo che vogliano instaurare «un regime non troppo democratico». Darmanin risponde: «Sì ma se lasciamo la Lega dei Diritti dell’Uomo lavorare, le persone sapranno che instauriamo un regime non molto democratico».
Per descrivere il personaggio, un ex gollista passato armi e bagagli alla Macronie per un posto da ministro, basti dire che è andato al congresso nazionale del maggiore sindacato della polizia a Parigi – Alliance Police – declamando tra l’entusiasmo dei 400 convenuti: «j’aime les flics», traducibile con «amo gli sbirri»!
Lui e Macron si sono scagliati con toni pesantissimi contro “l’ultra-sinistra” ed il suo “terrorismo intellettuale”, ma sono silenti sul montante fenomeno del terrorismo di estrema-destra, nonostante le ripetute avvisaglie sulla sua pericolosità.
Tornando alla mobilitazione di giovedì, il Ministero dell’interno ha contato 570mila persone, mentre gli organizzatori hanno stimato a 2 milioni il numero dei partecipanti.
Al di là dei numeri è chiaro che, nonostante la leggera flessione dopo 3 mesi di mobilitazione, non si può assolutamente parlare di riflusso. Anche perché rimangono fortemente mobilitati i settori strategici che fino a qui sono stati la colonna vertebrale degli scioperi, e le casse di solidarietà hanno visto affluire e ridistribuire cifre record per i lavoratori che hanno perso più giornate di lavoro, come quelli del petrolchimico o gli operatori ecologici.
Diamo qualche numero su alcune di queste iniziative.
La cassa di resistenza creata alcuni anni fa dalla CGT Info’com ha raccolto e già versato 3,5 milioni d’euro, cioè 250 mila in più della mobilitazione precedente.
Un Piquet de Stream su Twitch, dal 18 gennaio al 20 marzo, aperto da alcune persone impegnate nella mobilitazione, ha totalizzato 90 mila euro.
La “Caisse de grève insoumise” di LFI ha raccolto e messo a disposizione 850 mila euro, distribuiti ai lavoratori dei tre inceneritori di Parigi (Ivry-sur-senne, Issy-les-Moulineaux, Saint-Ouen) che per tre settimane hanno messo in ginocchio il sistema di raccolta e trattamento dei rifiuti, e che dal 13 aprile saranno ancora in sciopero prolungato a tempo determinato.
Tra i molti che sostengono lo sciopero con questa modalità ci sono persone che non possono più scioperare, come i pensionati (anche loro in grandissima maggioranza contrari alla riforma), o che hanno difficoltà a farlo per la posizione che rivestono, come i quadri aziendali.
L’intersindacale – composta da 8 organizzazioni sindacali e da 5 organizzazioni giovanili – nella serata di giovedì ha chiamato ad una ennesima giornata di sciopero “inter-professionale” e di mobilitazione nazionale per il 13 aprile, un giorno prima del pronunciamento della Consiglio Costituzionale sulla costituzionalità della riforma, e sulla possibilità di avviare la raccolta firme per la sua abolizione.
È chiaro che, come ha dichiarato Olivier Mateu, segretario della UD13 della CGT, serve un cambio di strategia da parte dell’intersindacale per un passaggio coordinato allo sciopero prolungato.
Il leader sindacale della regione marsigliese ha ben espresso il cambio di passo necessario affermando che: «è un bene essere popolari, ma è ancora meglio essere efficaci».
Fa dunque appello alla classe nel suo insieme affermando che: «se i lavoratori pensano che le organizzazioni sindacali faranno tutto, si sbagliano. Noi, sindacati, non abbiamo degli scioperanti nel congelatore che possono uscire al momento della lotta. Se la legge non viene ritirata sarà una sconfitta per tutti i lavoratori che dovranno lavorare due anni in più».
Esprime un sostanziale scetticismo sulla possibilità che il Consiglio Costituzionale bocci la proposta, ma è fiducioso sulla possibilità di vincere la battaglia.
Dopo più di tre mesi di mobilitazione lo spirito resta lo stesso, soprattutto tra gli studenti e le frange più militanti, che danno vita ad azioni dirette piuttosto impattanti (come i blocchi del traffico e le operazioni “ville morte” in varie città) o decisamente spettacolari, come l’occupazione dell’Arco di Trionfo da parte della CGT Culture e l’invasione degli uffici parigini del fondo d’investimento Blackrock da parte dei ferrovieri della capitale.
Come ha dichiarato un manifestante ad un giornalista di “Le Monde”: «Scioperando si perde del salario, ma non importa, preferiamo mangiare patate che crepare al lavoro».
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