di Silvano Cacciari
La finanza è guerra (La Casa Usher, 2023)
di Silvano Cacciari, nasce all’inizio del 2012 come progetto
Underworld, su un piano di ricerca eloquente – tribalismo e guerra
finanziaria senza limiti – in piena crisi del debito sovrano europeo che,
all’epoca, altro non era che uno degli effetti collaterali del grande
crack di Lehman Brothers. L’intenzione con Lorenzo Giudici, il
responsabile della collana “il balzo di tigre” della casa Usher, era di
dare vita ad un testo che portasse alla luce la natura non certo tecnica
ma antropologica dei conflitti finanziari che, nelle nostre società,
sorgono con la nascita dello stato moderno.
Da allora un lavoro di ricerca incessante – su fonti storiche, digitali,
di mercato, legate alle strategie di borsa come sui classici
dell’antropologia – che è sfociato in questo testo, uscito pochi giorni
fa. È un lavoro che si divide in tre sezioni: la prima è dedicata
all’antropologia dei conflitti finanziari senza fine; la seconda
all’intreccio di tattiche e tecnologie tra guerra e finanza; la terza al
terremoto che questa dimensione del dominio provoca.
L’anticipazione che qui pubblichiamo – ringraziando l’editore per la
gentile concessione – riguarda l’inizio del quarto capitolo, seconda
sezione, dedicata all’ibridazione tra finanza e guerra, che definisce il
piano antropologico, e tecnologico, nel quale si gioca la guerra
finanziaria senza limiti, quella finora sfuggita sia alla teoria
politica che a molta analisi tecnica di mercato. – p.l.]
Capitolo 4. La guerra finanziaria senza limiti: verso lo spazio non naturale
“Ormai esistono operazioni di guerra non militari che ampliano la nostra percezione di ciò che, esattamente, costituisce uno stato di guerra esteso a tutti i campi dell’attività umana”, Qiao Liang, Wang Xiansui, colonnelli dell’Esercito Popolare Cinese, “Guerra senza limiti”.
Lo sguardo antropologico ci ha permesso di definire le pratiche, il
simbolico e la materialità della guerra finanziaria permanente operata
dal tribalismo di borsa. Dobbiamo ora rivolgerci al piano di ibridazione
di tecnologie, tattiche, guerra e finanza che identifica la nuova
realtà nella quale vengono dominati politica, economia e società, cioè
lo spazio non naturale col quale si comprende come la tradizionale
geografia politica sia costretta a guardare ad uno spazio tecnologico
assente in natura per conoscere il proprio destino.
Il campo di forza detto guerra finanziaria è la superficie sulla quale
evolve il tribalismo di borsa: un terreno di dominio senza limiti entro
uno spazio non naturale senza limiti se non quelli dell’evoluzione
tecnologica.
Ecco la vera novità materiale e teorica per la politica dei primi
decenni del XXI secolo, qualcosa di più potente del semplice fenomeno
sociale da regolare e di più complesso della naturale evoluzione
tecnologica al servizio della finanza e dei mercati.
Si tratta di un campo e di uno spazio nei quali si gioca una guerra
anch’essa senza limiti, in una dimensione nella quale tattiche di guerra
sul campo e di guerra finanziaria finiscono per ibridarsi. E qui non si
sa se c’è più da stupirsi per la complessità nella quale finanza,
guerra e tecnologia si sono sovrapposte che per la velocità con la quale
tutto questo è avvenuto e in un modo che ricorda la pirateria ma,
mentre questa si presentava come atto aggressivo attraverso
l’abbordaggio, oggi un comportamento apparentemente pacifico e civile
come la vendita di azioni può essere il fatto ostile che prelude
all’abbordaggio di una azienda o di uno stato.
C’è una scena del Crollo dei giganti di Curtis Hanson (2011)
– la riduzione cinematografica di un instant book sulle trattative che
hanno preceduto il crollo di Lehman Brothers – davvero esemplare in
proposito. Siamo a Wall Street nei giorni che precedono la dichiarazione
di fallimento di Lehman e due trader di alto rango scendono dalla loro
limousine con i vetri oscurati. Entrambi sono inquadrati quasi di
spalle, ma mentre si intuisce che il primo ha un aspetto tranquillo,
come si può essere in un giorno qualsiasi di lavoro di borsa, l’altro è
visibilmente turbato. Il primo trader dice all’altro “Che cos’hai? Non
siamo in Iraq, questa è Wall Street, New York”, ricordando al collega
che non stanno piovendo bombe e che quindi le strade, i grattacieli e i
ristoranti di lusso alla fine della giornata di lavoro ci saranno
ancora.
L’altro trader, quello scosso e turbato, lo guarda e annuisce senza
convinzione. La scena è interessante perché associa due piani
teoricamente separati che tendono invece a somigliarsi terribilmente.
Nel film di Hanson, infatti, la finanza non è più un contesto al quale
applicare metafore di guerra e nemmeno più solo un fenomeno che provoca
eventi bellici, ma diviene un piano di realtà che si avvicina in modo
tale alla guerra da non poterla più definire una metafora del mondo
finanziario, ma piuttosto il terreno in cui si evidenzia la loro comune
natura. Il disorientamento del trader davanti a Wall Street è
comprensibile: nel suo ordine mentale, la guerra era sempre stata una
metafora dalla quale estrarre suggerimenti, tattiche, aggettivazioni,
ispirazioni per leggere i comportamenti finanziari.
Improvvisamente i confini si confondono: nausea, disorientamento,
vertigini sono il registro soggettivo dell’ordine collettivo, cognitivo e
simbolico di una partizione di realtà venuta meno. Una partizione
saltata che significa che la finanza non è più protetta dagli effetti
della guerra, che anche a Wall Street si distrugge, che crollano i
giganti e non solo i risparmi delle casalinghe o dei taxisti sacrificati
di norma in queste crisi.
Certo, era già accaduto nell’800, nel 1906-7, nel ’29, nell’87, nel ’98,
nel 2001 e in molti altri crolli “minori”, ma il pianeta è cambiato e
il mondo che emerge dal 2008 di Lehman Brothers è quello di una guerra
finanziaria senza limiti, dotata di potenza distruttiva della morfologia
di intere società, sia attraverso le mutazioni della sfera della guerra
che di quelle della finanza.
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