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18/12/2023

TIM la disfatta

Contrariamente a quello che accade nello scenario europeo e internazionale, dove i principali Gestori telefonici, per cercare di conquistarsi margini maggiori di mercato e poter quindi aumentare i loro profitti, si muovono tra acquisizioni e fusioni, con il conseguimento di economie di scala, riduzione della concorrenza, ampliamento della gamma dei prodotti e riduzione dei costi amministrativi, TIM adotta la strategia di cedere per 22 miliardi al fondo americano KKR

 il suo principale gioiello, la rete, mantenendo i servizi, un caso unico nel panorama delle tlc, se poi consideriamo che tra sviluppo della rete e l’offerta di nuovi servizi l’interazione è continua.

Per la nuova società della sola rete NetCO, il futuro non sarà luminoso, considerato che con l’eventuale unificazione con Open Fiber, il cui debito per l’esercizio del 2023 si stima sarà di 6 miliardi, perderà in redditività nel lungo periodo.

Stesso discorso vale per la SerCO (TIM), in quanto fornitrice di soli servizi, considerata la forte concorrenza, non potrà che vedere drasticamente ridurre i margini di profitto.

La decisione di vendere la rete è l’epilogo di una lunga e dolorosa agonia, dopo la sciagurata privatizzazione della Telecom, per ridurre significatamene il livello dell’indebitamento, attualmente stimato intorno ai 30 miliardi di euro, come successo a tanti altri asset industriali strategici privatizzati del nostro paese.

È davvero arduo vedere come possa funzionare bene un modello con due società separate, con azionisti diversi, con potenziali interessi differenti.

Ripercussioni e tempi durissimi per i lavoratori in entrambe le società

Per la nuova società (NetCO) della rete, i suoi circa 20.000 lavoratori, con età media di 57 anni, sono troppi per gli asset conferiti anche al netto di eventuali uscite di prepensionamenti (i più sono già usciti).

Per la SerCO (TIM), i suoi 16.000 lavoratori (sempre al netto di eventuali fuoriuscite) sono troppi rispetto ad altri fornitori di servizi (Fastweb, Vodafone, Iliad, ecc.).

Da alcune stime, epurando gli oltre 4.000 esuberi dell’attuale piano che si avvale dell’articolo 4 della legge Fornero – cioè il pensionamento anticipato a carico dell‘azienda – lo scorporo della Rete con la sua cessione potrebbe portare ad ulteriori 10.000 esuberi difficilmente assorbibili dai pensionamenti, causa l’età ancora giovane dei dipendenti rimasti in carico all’azienda.

Inoltre, non dimentichiamo che la crisi del settore coinvolge tutti gli operatori in Europa, dove si stima un esubero di circa 80.000 lavoratori a causa della crescente pressione competitiva in termini di innovazione; sia per la guerra sui prezzi, sia per il mancato consolidamento che non permette le economie di scala, sia per l’impianto regolamentario per garantire la concorrenza che non è più adeguato alle condizioni di mercato, inclusa la presenza degli Over the top.

I principali operatori europei, in vista di una concorrenza sempre più serrata e dei processi di digitalizzazione, annunciano da mesi continui tagli di personale, dalla British Telecom, a Vodafone Europa e Telefonica, con impatti anche sull’indotto, a seguito del taglio sugli investimenti.

Se prendiamo atto che stiamo attraversando un periodo di forti trasformazioni tecnologiche, con l’accelerazione di un processo di automazione che richiede meno personale, gli impatti occupazionali si ripercuoteranno pesantemente su tutti coloro che operano nella filiera degli appalti e delle forniture dell’impiantistica dell’infrastruttura digitale.

Migliaia di lavoratrici e lavoratori, se non si invertirà la tendenza, continueranno nel breve periodo a vedere peggiorare le condizioni di lavoro e nel lungo si dovranno affrontare le grandi difficoltà derivanti dalla perdita di migliaia di posti di lavoro che, purtroppo, bisognerà gestire.

La spirale del debito

Chi ha ridotto il gruppo Tim in queste condizioni, ha la responsabilità di averlo trattato per troppi anni, quasi esclusivamente, come un cespite finanziario.

Le ragioni industriali sono state spesso sacrificate alla logica perversa del debito, perdendo capacità d’investimento in tecnologie indispensabili, per stare al passo dell'evoluzione digitale.

A seguito del peso del debito pregresso della privatizzazione, la priorità è stata, prima pagare i debiti e i dividendi, mentre il primo cresceva (superando i 30 miliardi) anche per l’aumento dei tassi d’interesse, il gruppo si rimpiccioliva alla ricerca di un difficile equilibrio finanziario.

In più se, come si prospetta, si procederà alla fusione di Open Fiber con la rete di NetCO, considerato l’alto indebitamento della prima, il debito aumenterà ulteriormente; una spirale diabolica.

I problemi strutturali delle tlc tra flessione di ricavi, margini e investimenti

Il settore delle tlc ha i più bassi rendimenti del capitale investito in Europa, accanto al più alto capitale richiesto di investimento.

L’onerosità degli investimenti pesa tanto in termini di ritorni di redditività, considerato la concorrenza sfrenata sui prezzi, i costi delle nuove frequenze, ma soprattutto il dover far fronte a un settore iper-regolamentato dagli enti regolatori (Antitrust e Agcom) per favorire la concorrenza.

A questo bisogna aggiungere la forte presenza degli Over The Top (OTT), i giganti di Internet del calibro di Google, Meta, Netflix, Amazon, Microsoft, Apple e Spotify, i quali fanno affari d’oro, sfruttando le infrastrutture di rete, il cui costo, investimenti, personale, debiti è tutto sulle spalle dei gruppi delle telecomunicazioni che ne hanno la proprietà.

Stando ai dati, gli Over The Top (OTT), al momento, rappresentano più la metà del traffico internet europeo, obbligando il settore delle telco a fare investimenti infrastrutturali (in particolare nell’Ftth e nel 5G) ormai insostenibili; per questa ragione la politica dovrebbe prendere una scelta vincolante per gli Over The Top (OTT) di compartecipazione ai costi infrastrutturali in Europa.

Troppa concorrenza e guerra dei prezzi

Di concorrenza ce n’è forse troppa con una compressione dei margini di profitto, annullando gli investimenti e, di conseguenza, la qualità futura dei servizi offerti alla clientela.

Con l’aumento dell’inflazione, la situazione sta peggiorando, il nostro Paese risulta fra quelli in cui gli operatori non riescono ad adeguare i prezzi a causa della concorrenza agguerrita e della tendenza dei clienti a migrare verso offerte più convenienti, a causa delle crescenti difficoltà economiche.

Gli Stati Uniti hanno tre grandi operatori: i Paesi europei superano i cento e l’Italia è quella che ne ha di più, cinque (TIM, Fasteweb, Wind Tre, Vodafone e Iliad) senza considerare gli operatori virtuali MVNO (PosteMobile, Ho Mobile, VeryMobile e ecc.).

In generale, i prezzi di tutti i beni e servizi sono in aumento da tempo, mentre per il settore delle TLC, anche se nessuno fa a meno dei servizi di telecomunicazione, qualsiasi aumento eccessivo delle tariffe potrebbe influenzare la domanda.

In base a studi specifici, il rendimento di un cliente è diminuito del 40 per cento in sei anni.

È inevitabile, la connettività costa, non si può continuare a pretendere di pagare poco ciò che ha valore; i prezzi dovranno aumentare altrimenti l’unico costo che si riesce a tagliare per aumentare i profitti è il lavoratore.

Chi garantisce che Tim sopravviverà?

Se l’operazione non verrà invalidata dai movimenti di Vivendi, resteranno comunque dei forti dubbi sul futuro di NetCO e ServCO.

Chi garantisce, una volta conclusa la separazione, la sostenibilità del debito di entrambe le società? Se il livello del debito commisurato ai ricavi di ciascuna azienda non consentirà investimenti autonomi, esaurita la “droga” dei finanziamenti pubblici del PNRR, chi garantisce che alla scadenza del contratto di servizio, ServCO acquisti da NetCO la rete necessaria ai suoi servizi o addirittura non decida di erogarli tramite rete 5G?

Chi garantisce che alla scadenza del contratto di servizio, Delivery e Assurance dei servizi ServCO non vengano affidate alla pletora di aziende, con conseguente giungla di subappalti?

Chi garantisce che il contratto di fornitura dei servizi reciproco NetCO e ServCO, ancora in fase di valutazione e definizione nei dettagli, sarà sostenibile nel medio-lungo termine agli attuali prezzi di interconnessione e al cliente finale?

In particolare, i prezzi praticati da NetCO a ServCO, dovranno essere i medesimi che oggi pratica agli altri AOA (OLO) e comunque vagliati da AGCOM, oppure KKR punterà a massimizzare il proprio investimento, applicando un sistema tariffario che renderà comunque più costoso l’uso dell’infrastruttura, con l’inevitabile aumento sensibili dei prezzi.

Chi garantisce che la quota dello Stato italiano non verrà diluita con degli aumenti di capitale?

La vicenda Tim dimostra tutta la debolezza dello Stato italiano

Le telecomunicazioni sono oggi la più importante infrastruttura che definisce le capacità operative di un Paese sovrano, su questa infrastruttura circola l’informazione pubblica; le transazioni monetarie. Qualunque operazione di interesse industriale, comunicazioni commerciali, scientifiche e militare, considerato che siamo nell’epoca in cui i dati sono una risorsa strategica e remunerativa, chi possiede e gestisce l’infrastruttura di rete lo farà certamente in un’ottica finanziaria; KKR è un fondo e lo fa per mestiere.

Nel nome del libero mercato i governi e la politica italiana hanno capitolato cedendo le chiavi di casa, senza rendersi conto (?) che abbiamo perso la sovranità, mettendoci nelle condizioni di semplice colonia, nonostante qualcuno continui a parlare di “sovranismo”.

Quando lo Stato non rivendica le sue superiori prerogative e accetta di adeguarsi alle regole del libero mercato, presto o tardi resta con il cerino in mano, nonostante il timido appellarsi alla foglia di fico della golden share e/o del golden power, in difesa degli “interessi nazionali”, stiamo lentamente affondando.

Nonostante ciò, si parla ancora di privatizzazioni, sebbene la storia abbia dimostrato gli errori fatti, pagando un pesante conto per il nostro Paese.

Un’alternativa ci sarebbe: si chiama “Espropriazione per pubblica utilità”, tramite una nazionalizzazione e governance pubblica, come è persino prevista dall’articolo 42 della Costituzione.

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