Se si vuole discutere della questione palestinese e della brutale politica israeliana occorre affermare in premessa che “Tutto il male” – per usare la categoria dei libri di Stig Larsson – non è certo iniziato il 7 ottobre.
Eppure lo stesso segretario generale dell’Onu, Guterres, è finito sotto accusa da parte del ministro degli Esteri israeliano per averlo affermato.
L’apparato politico e mass mediatico che sostiene Israele, ha provato anche in questo caso a puntare sulla semplificazione già utilizzata nella guerra in Ucraina, secondo cui “tutto il male” era iniziato il 24 febbraio 2022.
Ma stavolta non ha funzionato più.
Quando se ne sono resi conto, commentatori, parlamentari, sottosegretari e giornalisti “suprematisti”, sono diventati aggressivi oltre il limite e talmente isterici da rimanerne intrappolati e inefficaci.
Lo schema secondo cui esiste “un aggressore e un aggredito” non si adatta alla questione palestinese.
Un singolo, per quanto sanguinoso, attacco palestinese, non ha la forza di cancellare almeno quarantacinque anni di brutalità dell’occupazione israeliana e di arbìtri contro i palestinesi.
Né può rimuovere i ripetuti e sanguinosi bombardamenti israeliani a tappeto su un’area popolatissima di civili come Gaza avvenuti nel 2009, nel 2014, nel 2021 ed ora.
Senza contare il cecchinaggio e i bombardamenti dei militari israeliani contro le manifestazioni popolari della Grande Marcia del Ritorno a Gaza nel maggio 2018, che uccisero 234 palestinesi e ne ferirono ben 33mila (dati Onu) senza neanche il pretesto dei razzi lanciati dalla Striscia.
I mass media prendono per buone le veline dei bollettini militari israeliani che parlano sempre di azioni mirate o di aver colpito “obiettivi di Hamas”, “postazioni di Hamas”, “dirigenti di Hamas”, ma il numero di vittime civili palestinesi “collaterali” in questi anni è sempre stato talmente alto da far dubitare anche i più bendisposti.
In secondo luogo, a differenza dell’Ucraina, in questo caso la legalità internazionale è a fianco dei palestinesi.
Sono troppe le risoluzioni dell’Onu o della Corte Internazionale dell’Aja sul Muro di separazione che le amministrazioni israeliane non hanno mai rispettato.
L’impunità garantita ad Israele è stata sempre recitata come un mantra, assumendo la “sicurezza israeliana” come un dato preliminare e imprescindibile.
Ma di fronte al massacro di Gaza la recitazione inceppa nelle proprie stesse parole, anche mentre le si pronunciano in un telegiornale.
Il Corriere della Sera ha commentato con grande preoccupazione il fatto che quasi uno studente universitario su due ai primi anni di studio consideri vero che “il governo israeliano si comporta con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei”.
Il dato rilevato è che questo pensa il 46,3% degli studenti intervistati ed emerge da una ricerca dell’Istituto Cattaneo realizzata in collaborazione con il Dipartimento di scienze statistiche dell’Università di Padova sondando tre grandi atenei del Nord Italia (Milano Bicocca, Bologna e Padova) a cavallo dello scoppio della guerra in Medio Oriente.
È evidente che lo sforzo comunicativo a favore di Israele, per quanto invasivo, stia fallendo tra le nuove generazioni.
Ed ancora. La comunicazione ufficiale israeliana ha sempre giocato sul fatto di fornire informazioni precise, limitate e rese definitive dalle azioni – o dalle punizioni collettive – contro i palestinesi che le precedono o le accompagnano.
Ma il flop degli apparati di sicurezza israeliani sul raid palestinese del 7 ottobre ha smontato questo mito e suscitato interrogativi sulla sua credibilità che non erano mai stati posti.
Gli stessi attorcigliamenti nelle versioni fornite come pretesto per attaccare l’ospedale Al Shifa o altri ospedali palestinesi, si sono sgretolate sia davanti alla ripetuta assenza di “pistole fumanti” (come ha ammesso lo stesso Jerusalem Post, di fatto un organo del partito di Netanyahu), sia di fronte alle convenzioni internazionali che il diritto umanitario si è dato e secondo cui gli ospedali non possono essere attaccati o bombardati, in nessun caso. E Israele non può pensare di poter essere o rappresentare una eccezione anche questa volta.
Hamas e Netanyahu. Demonizzazione e capri espiatori
Una volta saltato per inefficacia lo schema adottato sulla guerra in Ucraina, gli apparati del suprematismo informativo e politico sono dovuti ricorrere ad un’altra semplificazione per tentare di gestire il messaggio di fiancheggiamento alla vendetta israeliana.
Da un lato non ci sono i palestinesi come popolo e le sue istanze storiche ma Hamas. Dall’altra non c’è Israele con le sue politiche coloniali e repressive ampiamente bipartisan ma Netanyahu.
Dal punto di vista dell’informazione e della politica occidentale, questa volta l’obiettivo da demonizzare o da consegnare come capro espiatorio – anche se con standard diversi – non sono uno ma due.
Al primo – Hamas – vanno tutte le colpe per aver condotto il raid del 7 ottobre in Israele. Al secondo – Netanyahu – la colpa di essere inviso a tutta la comunità liberal nel suo paese e nel mondo occidentale, e di aver imbarcato gli esponenti del fanatismo religioso e ultrasionista nel suo governo.
Nella discussione pubblica, quindi, ci si potrà premettere di detestare e stigmatizzare Hamas in un caso o di detestare o stigmatizzare Netanyahu nel secondo.
Detto questo si potrà procedere con tutte le stramberie o le odiosità che stiamo sentendo da settimane sulla questione palestinese.
La narrazione consegnata al pubblico dunque, è che quando non ci saranno più Hamas e Netanyahu si potrà tornare a parlare di pace, dialogo, convivenza etc, etc. Ed anche in questo caso la dovuta contestualizzazione sul perché tutto questo non avvenga più almeno da trenta anni va a farsi fottere.
La deriva umanitaria nega la dimensione politica del problema
Ma nella comunicazione e nel dibattito pubblico agisce anche un’altra mistificazione.
Negli anni si è parlato di Palestina e palestinesi solo in occasioni sanguinose. Scontri in Cisgiordania, raid israeliani, bombardamenti su Gaza. E le immagini restituite dai reportage sono sempre e solo di palestinesi ammucchiati, urlanti, che inseguono ambulanze, sistemano feriti, si rivolgono alle telecamere disperati o rabbiosi circondati da abitazioni fatiscenti o approssimative.
Al contrario in Israele, anche nei momenti di crisi, ci sono manifestazioni ordinate, leader che discutono anche aspramente, città ordinate, indignazione democratica. Il fanatismo e l’estetica dei coloni israeliani viene abilmente rimossa dalla narrazione.
Due immagini stridenti e radicalmente diverse. Nell’una, anche in questa occasione, prevale al massimo la dimensione umanitaria del problema, nella seconda la dialettica politica di un paese simile a noi da tutelare o addirittura da imitare.
Questa contrapposizione tra disperazione/emergenza umanitaria da un lato e stile di vita sostanzialmente occidentale, è un’altra trappola da sventare, sia nell’informazione che nel dibattito pubblico.
Non solo. La prima mistificazione – quella della prevalenza della dimensione umanitaria della questione palestinese – in moltissimi casi deriva dalla buonafede di molte persone che hanno a cuore la popolazione, ma in altri casi – quelli determinati dai decisori – è funzionale a negare la dimensione “politica” della questione palestinese.
Potremmo dire che è parte di quel “politicidio” contro i palestinesi individuato con grande lungimiranza dal sociologo Baruch Kimmerling.
Non a caso quando si parla di interventi a sostegno dei palestinesi, non si parla mai – ad esempio – anche del loro diritto alla sicurezza, né del loro diritto ad uno Stato indipendente come previsto dalle Nazioni Unite e dagli accordi sottoscritti negli anni.
È evidente che oggi la tesi dei “due popoli per due stati” sia stata demolita dalla estesa penetrazione delle colonie israeliane e del Muro di separazione in Cisgiordania. Per uno stato palestinese indipendente oggi non c’è più materialmente posto e, probabilmente, dopo il mattatoio di queste settimane ce ne sarà di meno anche nella Striscia di Gaza. La politica israeliana dei fatti compiuti nel corso dei decenni ha fatto in modo di non rendere reversibile la situazione, se non – come avvenuto – con un bagno di sangue che nessuno vuole o auspica.
Ragione per cui invece di soluzione “politica” si parla di aiuti umanitari e aiuti economici. I primi in capo all’Unione Europea e alle Ong, i secondi in capo agli stati arabi come cambiale per il loro disimpegno verso i palestinesi.
Ma la logica umanitaria si attaglia più a un popolo di profughi che a un popolo in lotta per la sua autodeterminazione. E la storia ci ha insegnato che quando un popolo diventa una sola istanza di profughi perde completamente potere e identità politica.
Ancora una volta i palestinesi sono stati costretti a ricorrere ad un atto clamoroso e sanguinoso per tornare all’attenzione dell’agenda politica internazionale e, se vogliamo essere onesti, anche della nostra.
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