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29/12/2023

La riorganizzazione della Media sicurezza in carcere

Attraverso il lavoro svolto con l’Osservatorio regionale campano sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, abbiamo avuto modo di esaminare le trasformazioni che in questi anni hanno investito il circuito della Media sicurezza.

Chi conosce il carcere sa che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Ci sono i tre circuiti dell’Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta.

È, questo, il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche (parliamo delle sezioni più affollate, dove si concentrano il disagio e la sofferenza di detenuti stranieri e dei soggetti più emarginati).

Negli ultimi anni il circuito della Media sicurezza ha subìto una ristrutturazione imposta dalla dialettica tra forze che esprimono diverse concezioni, diverse prospettive e interessi divergenti rispetto alla funzione e al funzionamento del carcere.

Anche questa ristrutturazione è avvenuta attraverso il proliferare di circolari amministrative, i cui indirizzi mutano al mutare della compagine di governo e quindi della direzione del Dap, a detrimento, tra le altre cose, di qualsiasi possibile programmaticità.

Questa complessa, lenta e tutt’altro che uniforme riorganizzazione ha subito una forte accelerazione durante l’emergenza Covid, diretta da tre linee di tendenza, normate poi da due circolari del Dap alla fine del 2021 (con una bozza mai entrata in vigore) e nel luglio del 2022: il ripristino del regime a celle chiuse; la stabilizzazione del ricorso all’articolo 32 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario; un utilizzo “informale” dei reparti di isolamento.

Di circolare in circolare

Un dato interessante rispetto agli effetti di questa riorganizzazione ci perviene dall’osservazione delle sezioni a custodia aperta o chiusa, nel 2019 (quindi prima del Covid) e nel 2021, dopo l’emergenza.

Dal 2011, e in particolare dopo la sentenza Torreggiani [1], era stato nel nostro paese implementato il regime a “celle aperte”, con l’intento di superare i limiti strutturali degli spazi detentivi.

Questo regime, laddove vigente, prevede la possibilità di tenere aperte le celle per otto o più ore al giorno, e consente ai detenuti di muoversi all’interno della sezione – tra i corridoi, le altre celle e la sala della socialità, se presente – in modo da aumentare il computo degli spazi utilizzabili (contribuendo a rientrare, in questo modo, negli standard minimi di spazio fisico pro capite dettati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, e aiutando ad alleviare la sofferenza della contenzione detentiva).

Secondo i dati del Garante nazionale, in Campania la percentuale di detenuti in sezioni a custodia aperta è passata dal 42,47 per cento nel 2019 al 30,86 per cento nel 2021, per poi crollare al 13,2 per cento nel giugno 2023.

Andando ben oltre le esigenze di natura sanitaria (non regge, in questo senso, la scusante dei contagi da Covid-19, elaborata in fase pandemica ma poi utilizzata a oltranza), la chiusura delle celle deriva dall’applicazione della circolare 3693/6134 del 2022, firmata da Carlo Renoldi, dirigente del Dap di indubbia estrazione “progressista”.

La circolare di Renoldi è quasi identica a una bozza già diramata dal precedente capo Dap, Petralia, magistrato antimafia nominato durante il secondo governo Conte. Una bozza mai entrata in vigore, che si proponeva di “superare la dicotomia tra regime chiuso e regime aperto” immaginando una Media sicurezza basata sul concetto di “progressione trattamentale”, in virtù del quale la collocazione in sezione è legata alla condotta del detenuto.

Le sezioni a trattamento avanzato sarebbero state le uniche in cui applicare il regime a celle aperte, per dieci ore al giorno, in sorveglianza dinamica. Nelle sezioni ordinarie, invece, il regime sarebbe diventato sostanzialmente chiuso, con la possibilità per otto ore al giorno di uscire dalla cella solo per partecipare ad attività o per andare alla socialità (laddove esiste).

Esclusa sarebbe stata qualsiasi altra “libertà di movimento e di stazionamento delle persone ristrette all’interno della sezione”.

La circolare inseriva inoltre nella Media sicurezza anche le sezioni di cui all’articolo 32 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, che prevede una separazione di detenuti, da parte dell’amministrazione, su base cautelare, connessa al pericolo di atti (praticati o subiti) di sopraffazione o aggressione.

È importante sottolineare come la collocazione di un detenuto sulla base dell’articolo 32 non sia una sanzione disciplinare, ma una collocazione amministrativa, quindi non soggetta né ai termini né al controllo giurisdizionale previsti per esempio per l’isolamento disciplinare[2].

Chi frequenta le carceri non può non aver notato il preoccupante incremento del numero di sezioni di cui all’articolo 32, fino a pochi anni fa sporadicamente presenti, così come la tendenziale omogeneità del tipo di popolazione detenuta che vi finisce reclusa, ovvero i soggetti più fragili ed esposti, ritenuti problematici per l’ordine e la sicurezza in reparto, spesso portatori di un disagio psichico.

Il risultato della normalizzazione di queste sezioni è un prolungamento informale, di fatto più o meno automatico, dell’isolamento disciplinare, una sorta di anticamera attraverso cui dover passare per il ritorno al regime ordinario.

Le visite dell’Osservatorio degli ultimi anni hanno tra l’altro evidenziato un utilizzo molto promiscuo tra le sezioni (e persino le celle) destinate alla “separazione cautelare” e quelle destinate all’isolamento disciplinare, nonché, talvolta, persino un utilizzo di queste ultime per persone formalmente collocate in “regime ordinario”.

La circolare applicata nell’ultimo anno e mezzo, nonostante la diversa estrazione politico-culturale è praticamente sovrapponibile alla bozza che la precedeva.

L’unica differenza rilevante è l’invocazione della circolare Renoldi per un necessario quanto impegnativo incremento dell’offerta trattamentale, totalmente assente nella precedente bozza (questa invocazione si è rivelata insufficiente nel concreto e soprattutto subordinata all’intervento – quasi sempre a costo zero – del personale volontario e del terzo settore).

Le conferme riguardano invece l’utilizzo della separazione cautelare come uno step della progressione trattamentale; l’apertura delle celle nel solo regime del trattamento avanzato; la sostanziale chiusura delle celle nel regime ordinario, salvo che per la partecipazione ad eventuali attività.

In sostanza, la riorganizzazione individua nella chiusura delle celle il sistema per superare la “dicotomia tra aperto e chiuso”, proprio in un contesto nel quale torna a registrarsi un critico, endemico e cronico aumento del sovraffollamento degli istituti (con una corrispondente riduzione degli spazi vitali).

Inoltre, i meccanismi di ascesa e discesa della collocazione del detenuto risultano esclusivamente legati al rispetto delle regole della vita in istituto, come tra gironi di un “purgatorio detentivo” nel quale viene addirittura introdotto un nuovo gradino più basso, la separazione cautelare, con l’apertura del blindato legata alla condotta e alla partecipazione ad attività che, nei fatti, non vengono garantite.

Contenzione e correzione

Tra le ragioni di questo ritorno al regime a celle chiuse vi è certamente il rapporto dialettico tra una concezione del carcere “custodialistica” (portata avanti da componenti dell’amministrazione ben rappresentate dai sindacati di polizia penitenziaria) e una concezione “progressista”, ingabbiata nell’approccio del correzionalismo premiale, per cui la vita dell’istituto è organizzata in “gironi”, tra i quali si avanza e si indietreggia come in un gioco dell’oca, a seconda della dimostrazione di buona adesione alle regole della vita penitenziaria o della deviazione da queste.

Rimane irrisolto anche in questa prospettiva il tema della presunta funzione risocializzante della pena, tanto che c’è da chiedersi se quest’idea della progressione premiale possa declinare anche solo idealmente il principio costituzionale.

Al di là, insomma, della critica a qualsivoglia possibile risocializzazione del deviante attraverso una segregazione detentiva, quanto è sensato strutturare un percorso di progressione o regressione basato solo sull’adesione alle regole penitenziarie, per promuovere il reinserimento del detenuto nel consesso sociale?

Domanda retorica, considerando inoltre che l’elaborazione di queste regole e la valutazione del loro rispetto da parte del detenuto sono legate principalmente al potere attribuito al personale in servizio (la polizia penitenziaria).

A titolo di esempio: il contegno imposto al momento della conta mattutina, la lunghezza massima della barba, l’adesione da parte dei detenuti a tali pretese, sono nella pressoché esclusiva conoscenza e disponibilità dell’operatore di polizia.

È soprattutto però in queste pieghe della quotidianità detentiva che si configura la dialettica tra esigenze di reinserimento e cura da un lato, e pretese di contenimento e controllo dall’altro, determinando la prevalenza di queste ultime.

D’altra parte, come potrebbe incidere l’adesione o meno da parte del detenuto a simili regole sulla sua risocializzazione? Come potrebbe incidere sulla riduzione della recidiva? Non sono forse queste pratiche legate alla necessità di efficientamento della gestione, del disciplinamento e del contenimento della popolazione detenuta piuttosto che a esigenze di reinserimento?

Di fatto, il correzionalismo premiale oscura in maniera definitiva le ragioni materiali, sociali, economiche e culturali della devianza, riducendo il percorso trattamentale al disciplinamento alle regole interne al penitenziario, infantilizzando la persona detenuta e non proponendo alcuno strumento di reinserimento nel tessuto sociale.

Una concezione che appare come la versione più sbiadita e pavida di quel progressismo che, sebbene abbia l’obiettivo di anteporre le esigenze di reinserimento e cura alle pretese di contenimento e sicurezza, è destinato a produrre risultati insoddisfacenti, anche per la connaturata incapacità di contrapporsi alle ben più forti e organizzate spinte custodialistiche.

Note

1) Sentenza Torreggiani v. Italia del 8.1.2013, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante per aver recluso il ricorrente con altre persone in spazi inferiori ai tre metri quadri a persona.

2) La sanzione dell’esclusione dalle attività in comune può durare non più di quindici giorni, mentre l’assegnazione in sezione di cui all’articolo 32 è rinnovabile e dipende da una valutazione semestrale del Gruppo di osservazione e trattamento.

Fonte

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