Questo Governo è contro i lavoratori e contro i salari, lo sappiamo.
Ma quale occasione migliore ha il Governo per dimostrare questa avversità, se non quando agisce contemporaneamente come autorità pubblica e direttamente come datore di lavoro? Le vicende di queste settimane relative al rinnovo del contratto del pubblico impiego ce lo raccontano perfettamente.
Come noto, lo Stato quando agisce da datore di lavoro non è poi così diverso dai datori di lavoro privati, in particolare per il brutto vizio di lavorare sempre “a contratto scaduto” e prevedere il rinnovo solamente al termine del triennio di riferimento (in questo caso, il triennio 2022-2024). Finora il Governo aveva nicchiato, senza mai dire quante risorse avrebbe stanziato per il rinnovo, ma con l’occasione della legge di bilancio 2024 ha dovuto mostrare le carte, e per i lavoratori pubblici – che aspettavano questo momento per provare a riprendersi quella parte di salari reali mangiata dall’inflazione galoppante degli ultimi due anni – non è stata una bella sorpresa.
Ma andiamo con ordine e chiediamoci per prima cosa: da dove veniamo?
Per rispondere a questa domanda utilizziamo una fonte insospettabile, cioè i dati forniti dall’ARAN (cioè l’Agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione quando questa agisce come privato datore di lavoro).
Dall’ultimo Rapporto sulle Retribuzioni si evince chiaramente come il pubblico impiego, da ormai quasi 15 anni, conosce una dinamica dei salari inferiore a quella di tutti gli altri settori e – ovviamente – che non ha mai recuperato neanche l’inflazione, concretizzandosi quindi un una perdita secca di salario reale.
La lunga linea piatta fra il 2009 e 2017 ricorda la triste stagione del blocco della contrattazione, quando in ossequio alla stagione più dura dell’austerità fu imposto per legge il blocco di qualsiasi rinnovo che potesse comportare un aumento dei salari (stop che fu superato solo a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, che affermò che neanche il principio del pareggio di bilancio – anch’esso assurto in quegli anni a valore costituzionale – giustificava un blocco continuo dei rinnovi). Eppure, come si vede, neppure i rinnovi del 2018 (per il triennio 2016-2018) e poi del 2022 (per il triennio 2019-2021) hanno garantito un recupero dell’inflazione andatasi ad accumulare nel tempo, causando una perdita di salario reale (distanza fra la linea rossa e quella blu) che nel 2022 è andata drammaticamente aumentando (e il rapporto non mostra il dato aggiornato al 2023, quando tale perdita è ancora aumentata).
Se confrontiamo quello che è successo in Italia con quanto accaduto negli altri paesi, c’è da arrabbiarsi ancora di più. E lo facciamo utilizzando ancora i dati della controparte, forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato.
La spesa complessiva per gli stipendi dei pubblici dipendenti non solo è nettamente inferiore a quella dei principali paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito), ma al contrario di queste e della stessa media europea mostra nelle previsioni per il 2023 e il 2024 un andamento addirittura decrescente. E questo, ovviamente, succede non perché negli altri paesi i governi siano particolarmente illuminati, ma perché la mobilitazione dei lavoratori ha permesso di ottenere risultati importanti, come in Germania dove in risposta alla pressione inflazionistica i lavoratori sono riusciti ad ottenere una una tantum di 3.000 euro e rinnovi contrattuali pari ad almeno 200 euro al mese.
Ma considerando che il fine della pubblica amministrazione, e quindi di chi lavora per essa (quindi, ad esempio, insegnanti, medici, assistenti sociali, operatori vari) è quello di fornire servizi ai cittadini, il dato che più drammaticamente mostra l’impatto di questa politica sui servizi sociali è dato dal rapporto fra gli occupati nelle pubbliche amministrazioni e il totale dei cittadini residenti: scopriamo così che 100 cittadini possono usufruire dei servizi di più di 8 impiegati in Francia e Regno Unito, mentre l’Italia è triste fanalino di coda (dietro anche a Germania e Spagna) con meno di 6 addetti ogni 100 abitanti. Un dato che sconfessa la retorica dell’Italia come paese-carrozzone in cui il lavoro pubblico è diffuso in maniera abnorme e dipinto come parassitario (con l’obiettivo, tra l’altro, di mettere lavoratori pubblici e privati gli uni contro gli altri, in modo da poter maltrattare più facilmente i primi). E che si traduce tristemente nell’esperienza quotidiana di servizi pubblici scadenti, con lunghe code d’attesa per prenotare una visita medica, classi pollaio, file interminabili e tempi imprevedibili negli uffici, etc.
Se questo è il punto (drammatico) di partenza, è evidente che intorno a questa tornata di rinnovo erano cresciute grandissime attese: non solo perché, dopo molti anni, ci si trovava a dover recuperare un’inflazione a due cifre, ma anche perché dopo che l’ondata pandemica aveva mostrato la necessità di servizi pubblici numerosi e di qualità, qualcuno si era illuso che si fosse imparata la lezione.
Le cose stanno andando diversamente, vediamole una per volta.
Per quanto riguarda le risorse da stanziare per garantire un pieno recupero dell’inflazione, a inizio della crisi dei prezzi Il Sole 24 Ore (non certo stampa amica…) si era lasciata sfuggire la cifra che doveva essere stanziata per garantire semplicemente il mantenimento del valore reale dei salari: 32 miliardi.
Ebbene, a fronte di questa cifra, le risorse ad oggi stanziate, sulla cui base dovrebbero riaprirsi le trattative per il rinnovo a partire da gennaio 2024, sono di appena circa 5miliardi (cui si dovrebbero aggiungere altri 2 miliardi per il settore della Sanità). Numeri insomma che mettono di fronte i lavoratori pubblici a una drammatica e definitiva perdita di salario reale, con cifre di aumento medio mensile spacciate dal Governo che inoltre non tornano.
E sul fronte del numero degli assunti? Beh, se prendiamo il caso della Sanità, dove il Governo come detto si fa forte di uno stanziamento ad hoc di circa 2 miliardi, le prospettive sono nere, visto che il Governo stesso si guarda bene dal lanciare un maxi piano di assunzioni (sono lontani i tempi dei medici e infermieri eroi…), ma al contrario chiarisce che queste risorse servono soprattutto a garantire prestazioni di lavoro straordinario, proprio in un settore così delicato dove l’obiettivo dovrebbe essere garantire turni di riposo lunghi e regolari.
E infine, sul piano della qualità del lavoro, con il PNRR e l’ennesima riforma Brunetta durante il Governo Draghi si è incrementato ancora di più il numero di precari nella pubblica amministrazione, e nulla lascia presagire un cambiamento di marcia: in alcuni casi la mobilitazione dei lavoratori ha ottenuto che il Parlamento legiferasse per autorizzare a passare dal tempo determinato a quello indeterminato, ma queste leggi restano lettera morta se poi non vengono stanziate le risorse adeguate.
Livello delle retribuzioni, numero degli assunti, qualità del lavoro: troppo forte la distanza fra realtà e narrazione del Ministro Zangrillo (il posto figo...) per reggere l’urto, e questo è probabilmente la chiave per interpretare alcune delle ultime uscite pubbliche del Governo stesso, che sembrano finalizzate proprio a buttarla in caciara per evitare di parlare delle questioni che interessano davvero i lavoratori (e tutti i cittadini, in quanto fruitori dei servizi pubblici).
Prima di tutto un rilancio in grande stile della mitologica “valutazione” quale strumento per far funzionare meglio la pubblica amministrazione e pagare meglio i lavoratori pubblici; valutazione che ora si arricchirebbe di un nuovo tassello, con i lavoratori che sarebbero chiamati a “dare le pagelle” ai propri dirigenti, una pantomima di cui chiunque abbia lavorato anche solo 5 minuti in un ente pubblico conosce perfettamente l’assoluta inutilità; e poi le valutazioni degli utenti, perché “la voce del cliente è sempre rilevante”: dice proprio così il ministro Zangrillo, per il quale evidentemente il cittadino è assimilabile a un cliente (quindi esiste in quanto paga) nei confronti della pubblica amministrazione.
E, in ultimo, una vera polpetta avvelenata: per risolvere il problema dei bassi salari (in questo caso nella scuola) la Lega propone semplicemente il ritorno alle vecchie gabbie salariali, cioè un passo indietro di oltre 50 anni, come richiesto con un ordine del giorno che chiede esplicitamente di pagare in modo diverso persone (ancor più grave, dipendenti pubblici) che fanno esattamente lo stesso lavoro solo perché lo svolgono in aree diverse del paese.
In realtà, mai come questa volta, l’unica riforma di cui necessita davvero la pubblica amministrazione è un nuovo massiccio finanziamento, finalizzato a garantire stipendi decenti, colmare i vuoti di organico, dare stabilità lavorativa, e in questo modo offrire alla cittadinanza tutta servizi di qualità. Lo sciopero del pubblico impiego di novembre è stato un antipasto, ma la lotta a gennaio anche da qui dovrà ripartire.
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