La costruzione dell’Unione Europea, scriviamo spesso, è frutto di un progetto mal pensato ma coercitivo perché obbediente agli interessi del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario, non all’evoluzione dei rapporti tra i vari popoli del Vecchio Continente.
Questo vizio di origine si rivela sempre più ingestibile, in termini di “democrazia”, ad ogni momento di crisi. L’analisi che qui vi proponiamo, ripresa da Le Monde Diplomatique, pur non essendo frutto di una contrarietà di principio alla attuale UE, ne certifica però le contraddizioni fondamentali. Tutte insolubili con i meccanismi istituzionali e gli interessi dominanti in campo.
Se poi l'“allargamento” della comunità avviene sotto la spinta, e con i tempi, di una guerra che minaccia di estendersi a causa delle scelte di un imperialismo declinante come gli Stati Uniti, il fallimento è assicurato. E fallimenti di queste dimensioni non sono mai un pranzo di gala. Allacciate le cinture.
Questo vizio di origine si rivela sempre più ingestibile, in termini di “democrazia”, ad ogni momento di crisi. L’analisi che qui vi proponiamo, ripresa da Le Monde Diplomatique, pur non essendo frutto di una contrarietà di principio alla attuale UE, ne certifica però le contraddizioni fondamentali. Tutte insolubili con i meccanismi istituzionali e gli interessi dominanti in campo.
Se poi l'“allargamento” della comunità avviene sotto la spinta, e con i tempi, di una guerra che minaccia di estendersi a causa delle scelte di un imperialismo declinante come gli Stati Uniti, il fallimento è assicurato. E fallimenti di queste dimensioni non sono mai un pranzo di gala. Allacciate le cinture.
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Quando, la mattina del 28 febbraio 2022, quattro giorni dopo l’inizio dell’aggressione russa, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky su Facebook ha esortato Bruxelles a integrare il suo paese «senza indugio attraverso una procedura speciale», nessuno ha preso davvero sul serio la questione.
Naturalmente la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è mostrata subito entusiasta: «Sono dei nostri, li vogliamo con noi!» Ma il presidente del Consiglio, Charles Michel, ha ricordato che ci sono regole e che l’Ucraina deve rispettarle.
Zelensky ha dunque presentato una richiesta formale: l’Ue accordi all’Ucraina lo status di candidata. Per ottenerlo, la Turchia ha impiegato dodici anni, la Bosnia-Erzegovina sei e l’Albania cinque. Kiev c’è riuscita in soli quattro mesi.
Rispondendo con tanta solerzia, i capi di Stato e di governo dei 27 hanno voluto dimostrare l’unità occidentale e il loro incrollabile sostegno a Kiev. E non impegnava poi più di tanto: il processo avrebbe richiesto «diversi decenni», spiegava all’epoca Emmanuel Macron.
Ma l’8 novembre scorso la Commissione ha raccomandato l’apertura ufficiale dei negoziati con Kiev e con la Moldavia, un parere che il Consiglio europeo potrebbe convalidare nella prossima riunione del 14 e 15 dicembre.
Zelensky vorrebbe completare il processo entro il 2026, mentre Michel parla del 2030. Queste prospettive diventeranno credibili, se la procedura continuerà a questo ritmo frenetico.
I leader europei ripetono che non si tratta di svendere l’adesione all’Ue. Tuttavia, a differenza dei precedenti candidati, l’Ucraina non viene valutata in base alla sua capacità di soddisfare i famosi standard – in materia di lotta alla corruzione, rispetto dello Stato di diritto, tutela delle minoranze, equilibrio di bilancio…–, ma secondo considerazioni geopolitiche a caldo.
I progetti di allargamento, priorità degli anni 1990 e 2000, sembravano essere stati accantonati da un decennio, con l’eccezione della Germania, la cui economia aveva beneficiato enormemente dell’apertura a Est. In altri paesi l’idea era soprattutto sinonimo di dumping sociale e fiscale, paralisi delle istituzioni e cacofonia sulla scena internazionale.
La guerra in Ucraina ha rimescolato le carte. L’allargamento è ora all’ordine del giorno di ogni vertice. Si discute di un’Unione a 36, con Ucraina e Moldavia, ma anche Georgia e Balcani occidentali. «Una politica vitale per l’Unione europea», secondo von der Leyen, per contrastare l’influenza russa e cinese ai confini del continente.
Ma rimangono senza risposta tante domande, accuratamente ignorate dai media francesi: come verrebbero distribuiti i fondi di coesione, le sovvenzioni della Politica agricola comune, i seggi parlamentari, le nomine dei commissari…? Come evitare la paralisi nelle materie che richiedono l’unanimità?
I leader europei, ansiosi di tenere questi temi fuori dal dibattito nazionale, rispondono evocando una previa modifica delle istituzioni. Promessa a vuoto: quale riforma potrà soddisfare al tempo stesso Grecia e Germania, Spagna e Polonia, Portogallo e Ungheria?
Negli anni 1990 l’Europa era divisa tra Stati del Nord all’avanguardia nello sviluppo tecnologico e industriale, e Stati del Sud con valute deboli, dipendenti dal turismo e dall’agricoltura. A questa divisione economica, l’allargamento degli anni 2000 ha aggiunto quella tra Ovest ed Est.
Da un lato, salari relativamente alti, sistemi di protezione sociale più avanzati, attaccamento a una certo grado di autonomia europea. Dall’altro, un serbatoio di manodopera a basso costo e un’ostinata tendenza atlantista: ossessionati dalla minaccia russa, i paesi del Baltico e dell’Europa centrale si affidano all’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato) come garanzia per la loro sicurezza.
In questo modo, il Vecchio Continente scrive il proprio futuro amplificando gli errori del passato: a Ovest, un crescente senso di insicurezza economica tra le classi popolari, a Est un senso di sottomissione, di tacita colonizzazione. Per non parlare della sempre maggiore subordinazione dell’Unione a un impero statunitense in declino.
Man mano che si espande, l’Europa si disarticola.
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