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25/12/2023

"Una poltrona per due", anatomia di una fiaba natalizia anticapitalista

Una fiaba anticapital/natalizia ormai ammessa al rango di liturgia, seppur catodica, sia in Italia, dove da tempo è ospite fissa nei palinsesti delle reti tv (e da 12 anni onorata del prime time di Italia 1 alla Vigilia) che negli Usa, dove addirittura le hanno intitolato una legge. Ecco perché "Una poltrona per due", uscito al cinema 40 anni fa, ancora oggi fa discutere

Le più belle favole di Natale hanno spesso un che di anticapitalista, o comunque rappresentano (anche) una critica al sistema economico fondato sull'accumulo di ricchezza. Come a dire che lo spirito natalizio poco si sposa con i principi dell'economia di mercato, anzi diciamo pure che in certi casi ne è l'esatto contrario. "A Christmas Carol" è l'esempio più lampante, ma anche storie cinematografiche d'antan come "La vita è meravigliosa" o "Miracolo nella 34ª strada" muovevano dalla disapprovazione perlomeno degli effetti più nefasti di tale concezione socioeconomica. E se vogliamo, anche il balletto "Lo schiaccianoci", altro must delle Feste con la sua morale sul dono, categoria agli antipodi rispetto a concetti tipo contrattazione, privato, profitto, crescita, non era troppo differente. Certo di socialismo, a fine Ottocento, in Russia, non si parlava ancora, o se ne parlava a bassa voce, ma il discorso etico imbastito da Ciajkovskij era prossimo, per esempio, alle riflessioni sulla gift economy, quelle sì critiche verso il capitalismo, il dono come fatto sociale totale, che di lì a qualche anno avrebbe operato l'antropologo francese Marcel Mauss.

In fin dei conti un dono è uno scambio, e su uno scambio, ma di posizione, è basata un'altra fiaba anticapital/natalizia solo recentemente ammessa al rango – diciamo così - di liturgia, seppur catodica, sia in Italia dove da tempo è ospite fissa nei palinsesti delle reti televisive (e da 12 anni onorata del prime time di Italia 1 alla Vigilia) che negli Stati Uniti, dove addirittura le hanno intitolato una legge. Sul film "Una poltrona per due", uscito al cinema 40 anni fa, non c'è più molto da dire. Straconosciuto da tutti, eviscerato in ogni salsa, commentato, analizzato, recensito in ogni frame, con tanto di cattedratici spiegoni di carattere finanziario, poiché il film si addentra anche in tale, ostica materia. Eppure ancora oggi fa discutere. O meglio, da qualche anno fa discutere, mentre una volta faceva ridere e basta mettendo tutti d'accordo. Infatti, la polarizzazione delle opinioni al suo riguardo è abbastanza recente.

Semplificando al massimo, da una parte abbiamo i boomer, dall'altra la cosiddetta generazione Z (e suoi tirapiedi). Per i primi, il film è un capolavoro intoccabile, una commedia anarchica, irriverente, politicamente scorretta e proprio per questo di molte spanne superiore al livello medio delle cose che si vedono oggi; per i secondi, un retaggio del passato da seppellire definitivamente perché per stare sul pezzo – sostengono costoro - basta avere contezza di quanto rientra nella modernità. La sindrome dell'età dell'oro, ossia l'idea persistente di essere nati nel tempo sbagliato idealizzando quello che è venuto prima, contrapposta a quella del bronzo, ovvero l'esatto contrario.

Già, a che serve conoscere il passato? Intanto a sapere che la settima regia di John Landis non è neanche la sua più riuscita (pensa un po'). Inoltre la sceneggiatura non è sua, a differenza per esempio di "The Blues Brothers" (1980) e "Un lupo mannaro americano a Londra" (1981). Ma soprattutto, "Trading places" (questo il titolo originale) arriva quando il cineasta di Chicago ha già sufficientemente scombussolato la storia del cinema: con i due titoli appena citati ha ridefinito i canoni rispettivamente della commedia musicale e di quella horror, mentre ancora prima, con "Animal House" (1978), aveva inventato dal nulla il filone dei film tutti da ridere sui college americani (a cui si ispireranno, tra gli altri, i vari "Porky's" e "American Pie").
 
Come si inquadra "Una poltrona per due" in siffatta filmografia? Come un divertissement, capace però di toccare i nervi scoperti del capitalismo, di irriderlo, di roderlo come un tarlo. Siamo prodotti del nostro ambiente sociale o siamo geneticamente predisposti al successo (del resto classismo e razzismo vanno a braccetto)? Il film demolisce il castello di carte su cui si regge l'impalcato capitalista, la farsa della retorica neoliberista già sbeffeggiata perfino in "Mary Poppins". Vero, dirlo oggi che la market economy non è più in discussione fa ridere, però nel 1983 aveva ancora senso. E volendo, lo avrebbe anche nel 2023 se è vero, com'è vero, che ancora invochiamo scuola, pensioni e sanità pubbliche, che ci disperiamo per il futuro da precari dei nostri figli e che – per rifarci all'attualità – la fine del mercato tutelato dell'energia non ci fa dormire la notte.
 
Una risata vi seppellirà, è il Landis pensiero. Seppellirà, mettendoli alla berlina, le convenzioni sociali e certo ipocrita perbenismo borghese. Ma seppellirà anche l'ideologia liberista, l'edonismo reaganiano, il thatcherismo, gli ultrà della finanza, i sostenitori del mantra per cui privato è bello, privato è giusto. "Abbiamo fondato noi il mercato, è nostro, appartiene a noi", urla nella scena finale un disperato Mortimer Duke (interpretato da Don Ameche) quando il termine della giornata di scambi alla New York Stock Exchange segna la rovina sua e del fratello Randolph (Ralph Bellamy). I due, infatti, finiscono sul lastrico (dove li ritroveremo anche nel simpatico cameo autocitazionista de "Il principe cerca moglie", sempre di Landis) mentre Billy Ray Valentine e Louis Winthorpe III se la vanno a godere ai Caraibi.
La storia la conosciamo, dirompente nella sua elementarità. Le vite di due tizi, un mendicante che vive di espedienti e un rampollo dell'alta borghesia finanziaria, vengono scambiate dai facoltosi zii (acquisiti) nonché datori di lavoro del secondo, per una scommessa dall'importo simbolico di un dollaro. Obiettivo dell'"esperimento sociale", dimostrare che chiunque, se messo nelle giuste condizioni, può ambire ad affermarsi e diventare ricco. Una figura retorica usata per schernire l'American dream in salsa monetaria per cui la felicità si riconduce al solo denaro, al possesso, che poi è un modo per vendere alle giovani generazioni di allora (purtroppo tanto simili a quelle di oggi) i dogmi del liberismo e degli altri tossici "-ismi" tipici dell'America targata 80's: rampantismo, arrivismo, carrierismo, opportunismo.
 
Landis, come sempre, mescola cultura alta e bassa, tra citazioni dotte e pop, e utilizza due tra le migliori maschere comiche del periodo. Inizialmente gli attori prescelti come protagonisti sono Gene Wilder e Richard Pryor, coppia già affiatata, ma Pryor s'infortuna alla vigilia delle riprese e al suo posto viene chiamato Eddie Murphy, famoso per le sue apparizioni al Saturday Night Live ma anche per il suo ruolo nel film poliziesco "48 ore" (1982) al fianco di Nick Nolte. Murphy però non vuole sembrare un rimpiazzo e allora chiede che anche Wilder venga rimosso dal cast, a beneficio di Dan Aykroid, altro "prodotto" del SNL.
 
Alto e basso è anche il duplice registro di casta, un doppio elevatore dalle corse inverse riservato alle due "cavie" del test di ingegneria sociale. Il primo va su, il secondo giù. Il contrasto figurativo è un po' l'anima del film che, a proposito di contrasti, in fase di lavorazione si intitolava "Black & White" (curiosamente, nel 1991 Landis dirigerà il videoclip per un brano dal titolo quasi omonimo: "Black Or White" di Michael Jackson, artista per il quale ha già diretto "Thriller" proprio nel 1983). Il nero Murphy/Billy Ray passa dalla strada, dove chiede l'elemosina fingendosi storpio e non vedente, a un appartamento con ogni comfort e maggiordomo incluso; il bianco Aykroid/Louis, dai club esclusivi, con corredo di fidanzata materialmente interessata e amici snob, all'indigenza più totale, finendo per frequentare i bassifondi e innamorarsi della prostituta Ophelia (Jamie Lee Curtis) che lo aiuterà a rimettersi in pista e ordire la sua vendetta.
 
Teatro della vicenda, la stessa Filadelfia di "Rocky", quella da una parte facoltosa e dall'altra povera e fredda, specialmente tra Natale e Capodanno, periodo in cui si svolge il film. Ma Filadelfia è soprattutto il luogo fondativo della costituzione americana, il cui messaggio di base è la ricerca individuale della felicità, tema in qualche modo sotteso a "Trading places". La scena finale, come detto, si svolge invece a Manhattan, New York, e qui chi non ha mai capito cosa siano esattamente aggiotaggio e insider trading troverà la risposta. Landis evidentemente conosce bene l'argomento al punto da poterci scherzare. E lo spiegherà così bene che – come accennato - parecchi anni dopo un pacchetto di norme riguardanti i mercati finanziari approvato dal Congresso Usa prenderà il nome "Eddie Murphy Rule". Tra l'altro, sempre con riferimento a fatti successivi all'uscita del film, la sequenza in cui i due protagonisti entrano nel cuore della city finanziaria passando per il World Trade Center contiene una battuta che dopo l'11 Settembre alcune emittenti opteranno per tagliare: "Qui uccidi o sei ucciso", dice Winthorpe a Valentine: non il massimo dopo l'attentato alle Torri gemelle.
 
Che poi già nel 1987 Wall Street, intesa non solo come sede della Borsa ma anche come modello economico e sistema di valori, crollerà, seppur solo in senso figurato e solo momentaneamente, come dirà la storia. Il Lunedì Nero, 19 ottobre, i mercati mondiali subiranno un'improvvisa discesa del valore dei titoli quotati, ma a farne le spese saranno – come sempre - gli anelli più deboli della catena, gli yuppies (che gli U2 proveranno a salvare con il loro concerto benefico reso celebre dal docufilm "Rattle And Hum"). Oliver Stone, con il suo monumentale "Wall Street", film uscito nell'autunno 1987, racconterà praticamente in tempo reale ciò che Landis preconizza con quattro anni di anticipo, un'era geologica quantomeno in economia.
Una menzione particolare la merita infine la colonna sonora della pellicola, composta – per quanto riguarda le musiche originali - da Elmer Bernstein il quale otterrà la nomination agli Oscar (lui che la statuetta l'aveva già aveva vinta nel 1968 con "Millie"). Tra le chicche della soundtrack, i titoli di testa accompagnati dall'ouverture de "Le Nozze di Figaro" di Mozart, scelta non casuale dal momento che nell'opera buffa del compositore austriaco, a essere derisa è proprio la classe sociale più abbiente, travolta da eventi - nella fattispecie passionali - che sconvolgono la vita di servi e padroni. Proprio come nel film oggetto di queste righe.

Insomma finezze a getto continuo, colpi a effetto, citazioni. Nel momento in cui scriviamo possiamo soltanto presumere che anche quest'anno "Una poltrona per due" andrà in onda in prima serata il 24 dicembre, e ci chiediamo se sarà l'ultima volta, magari per chiudere il cerchio con il quarantennale. Secondo le Sacre Scritture, 40 furono anche gli anni che il popolo di Israele, liberato dalla schiavitù in Egitto, impiegò per raggiungere la Terra promessa. Landis nasce da famiglia ebraica, ed è noto che nelle sue pellicole abbondano riferimenti all'Olocausto, dai nazisti dell'Illinois di "The Blues Brothers" alle SS aliene di "Un lupo mannaro americano a Londra", fino ai salti temporali a ritroso dell'episodio da lui diretto nella trasposizione cinematografica di "Ai confini della realtà". Ovviamente non ci aspettiamo che i curatori della programmazione tv nostrana siano così attenti alla numerologia biblica o che conoscano a fondo la filmografia del regista dell'Illinois. Magari un giorno qualcuno deciderà che è il momento di dire basta e si prenderà la responsabilità di mandare in pensione i nostri due eroi sostituendoli con un'altra favola natalizia. Di sicuro sarà qualcuno con un gran coraggio.

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