Stanno perdendo la brocca, ma definitivamente. E in Germania a velocità doppia rispetto alla media.
La Fondazione Heinrich Böll (grandissimo scrittore tedesco, autore fra l’altro di Opinioni di un clown) aveva deciso di assegnare il premio Hannah Arendt – storica e filosofa tedesca di origini ebraiche – a Masha Gessen.
Una scelta decisamente ultra-politically correct, totalmente all’interno del quadro concettuale più asservito all’establishment eur-atlantico da due anni a questa parte.
Masha Gessen, infatti, è una giornalista e scrittrice russa (è nata a Mosca nel 1967), di origine ebraiche, tra “i principali attivisti russi per i diritti LGBT”, da sempre schierata all’opposizione rispetto a Putin, e trasferitasi per tempo negli Stati Uniti con tutta la famiglia.
Particolarmente apprezzata sia per l’origine che per i temi che preferisce trattare, per le feroci critiche a Vladimir Putin, ma anche a Donald Trump, è stata anche inserita nella lista dei ricercati, in Russia, per aver preso duramente posizione a favore dell’Ucraina e contro l’intervento militare in Ucraina.
Autrice, tra l’altro, del romanzo storico “Dove gli ebrei non ci sono”, che narra del fallito tentativo del governo sovietico (c’era Stalin), negli anni '30 del Novecento, di costituire una regione in cui gli ebrei potessero vivere tutti assieme, in un’area al confine con la Manciuria Cinese; un progetto pionieristico che anticipava Israele, un luogo senza pregiudizi né persecuzioni.
L’assegnazione del premio Arendt, insomma, non poteva suscitare alcuno scandalo, se non forse nella destra texana e trumpiana più ottusa. Ma chissenefrega, visto che il premio lo danno i tedeschi...
Tra le motivazioni per l’onorificenza il fatto che «analizzando il declino e la speranza, Gessen racconta i giochi di potere e le tendenze totalitarie ma allo stesso tempo anche la disobbedienza civile e l’amore per la libertà».
Tutto lineare, una biografia intellettuale da manuale politically correct, senza ombre; da una parte i buoni liberali e dall’altra i cattivi “autocratici”, come un resoconto di Repubblica sulla guerra in Ucraina.
Improvvisamente il gelo, timore, imbarazzo. La cerimonia della consegna viene prima resa incerta, come se ci fosse un ripensamento dell’assegnazione del premio. Poi viene confermata, ma “a porte chiuse”. Sempre a Brema, ma non più nella Sala grande del Municipio.
Cos’è successo?
Che nel frattempo Masha Gessen ha scritto un lungo articolo sulla prestigiosa rivista New Yorker in cui, tra l’altro, definisce Gaza “come un ghetto”. E per di più come “un ghetto che sta per essere liquidato”.
Apriti cielo!
Alla fine il premio le verrà dato lo stesso, ma in qualche scantinato della città, senza fanfare né giornalisti...
Del resto, in Germania, ormai è caccia alle streghe in nome dell'“antisemistismo” strumentale. L’altro giorno le forze di polizia sono entrate nell’Aula magna della Libera Università di Berlino, occupata degli studenti filo-palestinesi, e hanno arrestato diversi manifestanti. L’occupazione era diretta contro le dichiarazioni distorte dell’università sulla guerra di annientamento contro Gaza.
L’ennesimo atto di repressione contro iniziative di solidarietà con il martoriato popolo palestinese e contro i bombardamenti indiscriminati che vanno avanti da un mese mezzo sulla popolazione civile di Gaza, che ha causato quasi 20.000 vittime.
Così la Notte della Ragione cala inesorabile sulla Germania.
Basterebbe ricordare che Hannah Arendt, da sempre invisa ad Israele, fu anche lei, come Masha Gessen, negli anni ‘60, oggetto di ostracismo e di pesanti accuse di “antisemitismo”.
Ma questo, i Grünen (Verdi tedeschi), che organizzano il premio Hannah Arendt, probabilmente fanno finta di non ricordarlo. O, ancora peggio, lo ignorano.
Crediamo perciò sia giusto farvi leggere l’articolo incriminato, che potete trovare in originale qui. Lo troviamo molto ricco di informazioni, non stranamente difficili da ritrovare sui principali media italiani ed europei.
Non ci sarebbe neanche bisogno di ricordare che non corrisponde integralmente al nostro modo di vedere le cose (basta leggere il resto del giornale per “intuirlo”, diciamo... specie sulla guerra in Ucraina o sull’Unione Sovietica), ma ci sembra importante e necessario leggerlo perché appare evidente che l’autrice era fin lì convinta che il “quadro dei valori” sbandierato come prova della superiorità morale dell’Occidente fosse anche reale. E che quindi valesse proprio per tutti i popoli e tutti gli esseri umani.
La mezza retromarcia tedesca sul premio e le motivazioni alla base di questa figuraccia immonda, in qualche misura, spiega anche a lei che non è affatto così. Quel “quadro di valori” non vale davvero neanche per “noi abitanti del giardino”. Figuriamoci per gli altri che “ci resistono”...
La Fondazione Heinrich Böll (grandissimo scrittore tedesco, autore fra l’altro di Opinioni di un clown) aveva deciso di assegnare il premio Hannah Arendt – storica e filosofa tedesca di origini ebraiche – a Masha Gessen.
Una scelta decisamente ultra-politically correct, totalmente all’interno del quadro concettuale più asservito all’establishment eur-atlantico da due anni a questa parte.
Masha Gessen, infatti, è una giornalista e scrittrice russa (è nata a Mosca nel 1967), di origine ebraiche, tra “i principali attivisti russi per i diritti LGBT”, da sempre schierata all’opposizione rispetto a Putin, e trasferitasi per tempo negli Stati Uniti con tutta la famiglia.
Particolarmente apprezzata sia per l’origine che per i temi che preferisce trattare, per le feroci critiche a Vladimir Putin, ma anche a Donald Trump, è stata anche inserita nella lista dei ricercati, in Russia, per aver preso duramente posizione a favore dell’Ucraina e contro l’intervento militare in Ucraina.
Autrice, tra l’altro, del romanzo storico “Dove gli ebrei non ci sono”, che narra del fallito tentativo del governo sovietico (c’era Stalin), negli anni '30 del Novecento, di costituire una regione in cui gli ebrei potessero vivere tutti assieme, in un’area al confine con la Manciuria Cinese; un progetto pionieristico che anticipava Israele, un luogo senza pregiudizi né persecuzioni.
L’assegnazione del premio Arendt, insomma, non poteva suscitare alcuno scandalo, se non forse nella destra texana e trumpiana più ottusa. Ma chissenefrega, visto che il premio lo danno i tedeschi...
Tra le motivazioni per l’onorificenza il fatto che «analizzando il declino e la speranza, Gessen racconta i giochi di potere e le tendenze totalitarie ma allo stesso tempo anche la disobbedienza civile e l’amore per la libertà».
Tutto lineare, una biografia intellettuale da manuale politically correct, senza ombre; da una parte i buoni liberali e dall’altra i cattivi “autocratici”, come un resoconto di Repubblica sulla guerra in Ucraina.
Improvvisamente il gelo, timore, imbarazzo. La cerimonia della consegna viene prima resa incerta, come se ci fosse un ripensamento dell’assegnazione del premio. Poi viene confermata, ma “a porte chiuse”. Sempre a Brema, ma non più nella Sala grande del Municipio.
Cos’è successo?
Che nel frattempo Masha Gessen ha scritto un lungo articolo sulla prestigiosa rivista New Yorker in cui, tra l’altro, definisce Gaza “come un ghetto”. E per di più come “un ghetto che sta per essere liquidato”.
Apriti cielo!
Alla fine il premio le verrà dato lo stesso, ma in qualche scantinato della città, senza fanfare né giornalisti...
Del resto, in Germania, ormai è caccia alle streghe in nome dell'“antisemistismo” strumentale. L’altro giorno le forze di polizia sono entrate nell’Aula magna della Libera Università di Berlino, occupata degli studenti filo-palestinesi, e hanno arrestato diversi manifestanti. L’occupazione era diretta contro le dichiarazioni distorte dell’università sulla guerra di annientamento contro Gaza.
L’ennesimo atto di repressione contro iniziative di solidarietà con il martoriato popolo palestinese e contro i bombardamenti indiscriminati che vanno avanti da un mese mezzo sulla popolazione civile di Gaza, che ha causato quasi 20.000 vittime.
Così la Notte della Ragione cala inesorabile sulla Germania.
Basterebbe ricordare che Hannah Arendt, da sempre invisa ad Israele, fu anche lei, come Masha Gessen, negli anni ‘60, oggetto di ostracismo e di pesanti accuse di “antisemitismo”.
Ma questo, i Grünen (Verdi tedeschi), che organizzano il premio Hannah Arendt, probabilmente fanno finta di non ricordarlo. O, ancora peggio, lo ignorano.
Crediamo perciò sia giusto farvi leggere l’articolo incriminato, che potete trovare in originale qui. Lo troviamo molto ricco di informazioni, non stranamente difficili da ritrovare sui principali media italiani ed europei.
Non ci sarebbe neanche bisogno di ricordare che non corrisponde integralmente al nostro modo di vedere le cose (basta leggere il resto del giornale per “intuirlo”, diciamo... specie sulla guerra in Ucraina o sull’Unione Sovietica), ma ci sembra importante e necessario leggerlo perché appare evidente che l’autrice era fin lì convinta che il “quadro dei valori” sbandierato come prova della superiorità morale dell’Occidente fosse anche reale. E che quindi valesse proprio per tutti i popoli e tutti gli esseri umani.
La mezza retromarcia tedesca sul premio e le motivazioni alla base di questa figuraccia immonda, in qualche misura, spiega anche a lei che non è affatto così. Quel “quadro di valori” non vale davvero neanche per “noi abitanti del giardino”. Figuriamoci per gli altri che “ci resistono”...
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Nell’ombra dell’Olocausto
Nell’ombra dell’Olocausto
Come la politica della memoria in Europa offusca ciò che vediamo oggi in Israele e a Gaza.
Berlino non smette mai di ricordarti ciò che è successo lì. Diversi musei esaminano il totalitarismo e l’Olocausto; il Memoriale degli Ebrei assassinati d’Europa occupa un intero isolato della città. In un certo senso, però, queste strutture più grandi sono il meno importante.
I monumenti che ti colgono di sorpresa – il monumento ai libri bruciati, che è letteralmente sottoterra, e le migliaia di Stolpersteine, o “pietre d’inciampo”, inserite nei marciapiedi per commemorare singoli ebrei, Sinti, Rom, omosessuali, persone malate mentali e altri uccisi dai nazisti – rivelano la pervasività dei mali una volta commessi in questo luogo.
All’inizio di novembre, mentre camminavo verso la casa di un amico in città, sono incappato nel banco delle informazioni che segna il sito del bunker di Hitler. L’avevo fatto molte volte prima. Sembrava una bacheca di quartiere, ma racconta la storia degli ultimi giorni del Führer.
Negli anni ’90 e nei primi anni 2000, quando molti di questi monumenti furono concepiti e installati, visitai spesso Berlino. Era entusiasmante vedere la cultura della memoria prendere forma. Qui c’era un paese, o almeno una città, che stava facendo ciò che la maggior parte delle culture non può: guardare i propri crimini, il proprio lato peggiore.
Ma, ad un certo punto, lo sforzo ha iniziato a sembrare statico, incapsulato, come se fosse uno sforzo non solo di ricordare la storia, ma anche di assicurare che solo questa particolare storia sia ricordata, e solo in questo modo. Questo è vero nel senso fisico e visivo.
Molti dei monumenti usano il vetro: il Reichstag, un edificio quasi distrutto durante l’era nazista e ricostruito mezzo secolo dopo, è ora coronato da una cupola di vetro; il monumento ai libri bruciati vive sotto il vetro; partizioni di vetro e lastre di vetro mettono ordine alla straordinaria, una volta caotica, collezione chiamata “Topografia del Terrore”.
Come mi ha detto Candice Breitz, un’artista ebrea sudafricana che vive a Berlino, “le buone intenzioni entrate in gioco negli anni ’80 si sono troppo spesso solidificate in dogma“.
Tra i pochi spazi in cui la rappresentazione della memoria non è fissata in una permanenza apparente ci sono alcune gallerie nel nuovo edificio del Museo Ebraico, completato nel 1999. Quando l’ho visitato all’inizio di novembre, una galleria al piano terra stava mostrando un’installazione video chiamata “Prova dello spettacolo degli spettri“.
Il video era ambientato nel Kibbutz Be’eri, la comunità dove, il 7 ottobre, Hamas uccise più di novanta persone – quasi una su dieci dei residenti – durante il suo attacco a Israele, che alla fine causò più di dodicimila vittime [nel frattempo, come sappiamo sono quasi raddoppiate, ndr].
Nel video, i residenti di Be’eri si alternano a recitare le righe di una poesia di uno dei membri della comunità, il poeta Anadad Eldan: “...dal pantano tra le costole / è emersa lei che si era sommersa in te / e sei costretta a non gridare / cercando le forme che scappano fuori.” Il video, degli artisti israeliani di Berlino Nir Evron e Omer Krieger, è stato completato nove anni fa.
Inizia con una vista aerea dell’area, la Striscia di Gaza visibile, per poi zoomare lentamente sulle case del kibbutz, alcune delle quali sembravano bunker. Non sono sicuro di cosa gli artisti e il poeta intendessero inizialmente comunicare; ora l’installazione sembrava un lavoro di lutto per Be’eri. (Eldan, che ha quasi cent’anni, è sopravvissuto all’attacco di Hamas.)
Più avanti nel corridoio c’era uno degli spazi che l’architetto Daniel Libeskind, che ha progettato il museo, chiamava “vuoti” – fessure d’aria che trafiggono l’edificio, simboleggiano l’assenza degli ebrei in Germania attraverso le generazioni.
Lì, un’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman, intitolata “Foglie cadute“, consiste in più di diecimila dischi di ferro con occhi e bocche tagliati, come calchi di disegni di bambini di facce urlanti. Quando cammini sulle facce, fanno rumore, come catene, o come la leva di un fucile.
Kadishman ha dedicato l’opera alle vittime dell’Olocausto e ad altre vittime innocenti di guerra e violenza. Non so cosa avrebbe detto Kadishman, morto nel 2015, sul conflitto attuale.
Ma, dopo essermi allontanata dal commovente video del Kibbutz Be’eri alle facce di ferro che suonano, ho pensato alle migliaia di residenti di Gaza uccisi in rappresaglia per le vite degli ebrei uccisi da Hamas. Poi ho pensato che, se avessi dichiarato pubblicamente questo in Germania, avrei potuto avere problemi.
Il 9 novembre, per commemorare l’ottantacinquesimo anniversario della Kristallnacht, una stella di Davide e la frase “Nie Wieder Ist Jetzt!” – “Mai più è adesso!” – sono state proiettate in bianco e blu sulla Porta di Brandeburgo di Berlino.
In quel giorno, il Bundestag stava considerando una proposta intitolata “Adempiere alla responsabilità storica: proteggere la vita ebraica in Germania“, che conteneva più di cinquanta misure intese a combattere l’antisemitismo in Germania, tra cui la deportazione degli immigrati che commettono crimini antisemiti; intensificare le attività contro il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (B.D.S.); sostenere gli artisti ebrei “il cui lavoro è critico nei confronti dell’antisemitismo“; implementare una particolare definizione di antisemitismo nelle decisioni di finanziamento e polizia; e rafforzare la cooperazione tra le forze armate tedesche e israeliane.
In precedenti dichiarazioni, il Vice-Cancelliere tedesco, Robert Habeck, membro del Partito Verde, ha affermato che i musulmani in Germania dovrebbero “distanziarsi chiaramente dall’antisemitismo per non compromettere il proprio diritto alla tolleranza“.
La Germania ha a lungo regolamentato le modalità in cui l’Olocausto viene ricordato e discusso. Nel 2008, quando la cancelliera Angela Merkel parlò davanti al Knesset nel sessantesimo anniversario della fondazione dello stato di Israele, sottolineò la responsabilità speciale della Germania non solo nel preservare la memoria dell’Olocausto come una storica atrocità unica, ma anche per la sicurezza di Israele.
Questo, ha proseguito, fa parte della Staatsräson della Germania, la ragione per l’esistenza dello stato. Il sentimento è stato ripetuto in Germania apparentemente ogni volta che il tema di Israele, degli ebrei o dell’antisemitismo viene sollevato, incluso nei commenti di Habeck. “La frase ‘La sicurezza di Israele fa parte della Staatsräson della Germania’ non è mai stata una frase vuota“, ha detto. “E non deve diventarlo.“
Nel frattempo, si è svolto un dibattito oscuro ma stranamente importante su ciò che costituisce l’antisemitismo.
Nel 2016, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (I.H.R.A.), un’organizzazione intergovernativa, ha adottato la seguente definizione: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui e/o proprietà ebraici o non ebraici, verso istituzioni della comunità e strutture religiose ebraiche“.
Questa definizione era corredata da undici esempi, che iniziavano con l’ovvio – chiedere o giustificare l’uccisione degli ebrei – ma includevano anche “sostenere che l’esistenza di uno Stato di Israele è un tentativo razzista” e “tracciare paragoni della politica israeliana contemporanea con quella dei nazisti“.
Questa definizione non aveva forza legale, ma ha avuto un’influenza straordinaria. Venticinque stati membri dell’U.E. e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti hanno sostenuto o adottato la definizione I.H.R.A.
Nel 2019, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che prevedeva il blocco dei fondi federali per i college in cui gli studenti non sono protetti dall’antisemitismo così come definito dalla I.H.R.A.
Il 5 dicembre di quest’anno, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione non vincolante condannando l’antisemitismo così come definito dalla I.H.R.A.; è stata proposta da due rappresentanti repubblicani e contrastata da diversi importanti democratici ebrei, tra cui Jerry Nadler di New York.
Nel 2020, un gruppo di accademici ha proposto una definizione alternativa di antisemitismo, chiamata Dichiarazione di Gerusalemme. Essa definisce l’antisemitismo come “discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto tali (o contro istituzioni ebraiche in quanto tali)” e fornisce esempi che aiutano a distinguere le dichiarazioni e le azioni anti-israeliane da quelle antisemite.
Ma anche se alcuni dei più eminenti studiosi dell’Olocausto hanno partecipato alla stesura della dichiarazione, essa ha fatto appena una piccola increspatura nella crescente influenza della definizione I.H.R.A.
Nel 2021, la Commissione europea ha pubblicato un manuale “per l’uso pratico” della definizione I.H.R.A., che raccomandava, tra le altre cose, di utilizzare la definizione nella formazione degli agenti di polizia per riconoscere i crimini d’odio e di istituire la figura del pubblico ministero o coordinatore o commissario per l’antisemitismo.
La Germania aveva già implementato questa particolare raccomandazione. Nel 2018, il paese ha creato l’Ufficio del Commissario del Governo Federale per la Vita Ebraica in Germania e la Lotta contro l’Antisemitismo, una vasta burocrazia che include commissari a livello statale e locale, alcuni dei quali operano presso gli uffici dei pubblici ministeri o le stazioni di polizia.
Da allora, la Germania ha segnalato un aumento quasi ininterrotto del numero di episodi antisemiti: più di duemila nel 2019, più di tremila nel 2021 e, secondo un gruppo di monitoraggio, ben novecentonovantaquattro incidenti nel mese successivo all’attacco di Hamas.
Ma le statistiche mescolano ciò che i tedeschi chiamano Israelbezogener Antisemitismus – antisemitismo legato a Israele, come casi di critica alle politiche del governo israeliano – con attacchi violenti, come un tentativo di sparare a una sinagoga, ad Halle, nel 2019, che ha ucciso due passanti; colpi sparati a casa di un ex rabbino, a Essen, nel 2022; e due cocktail Molotov lanciati contro una sinagoga di Berlino quest’autunno. Il numero di episodi con violenza è, infatti, rimasto relativamente stabile e non è aumentato a seguito dell’attacco di Hamas.
Ci sono ora dozzine di ‘commissari antisemitismo’ in tutta la Germania. Non hanno una singola descrizione del lavoro o un quadro legale per il loro lavoro, ma gran parte sembra consistere nel mettere pubblicamente alla berlina coloro che considerano antisemiti, spesso per “de-singolarizzare l’Olocausto” o per criticare Israele.
Quasi nessuno di questi commissari è ebreo. In effetti, la proporzione di ebrei tra i loro bersagli è sicuramente più alta. Questi includono il sociologo tedesco-israeliano Moshe Zuckermann, preso di mira per sostenere il movimento B.D.S., così come il fotografo ebreo sudafricano Adam Broomberg.
Nel 2019, il Bundestag ha approvato una risoluzione condannando il movimento B.D.S. come antisemita e raccomandando che i finanziamenti statali siano trattenuti da eventi e istituzioni legati al B.D.S.
La storia della risoluzione è significativa. Una versione fu originariamente presentata dall’AfD, il partito etnonazionalista e sovranista di estrema destra, allora relativamente nuovo nel parlamento tedesco. I politici mainstream rifiutarono la risoluzione perché proveniva dall’AfD, ma, apparentemente temendo di essere visti come incapaci di combattere l’antisemitismo, ne presentarono immediatamente una simile alla loro.
La risoluzione era imbattibile perché collegava il B.D.S. alla “fase più terribile della storia tedesca“. Per l’AfD, la cui leadership ha fatto dichiarazioni apertamente antisemite e ha approvato la rinascita del linguaggio nazionalista dell’era nazista, lo spettro dell’antisemitismo è uno strumento politico perfetto, utilizzato cinicamente sia come biglietto per il mainstream politico sia come arma contro gli immigrati musulmani.
Il movimento B.D.S., ispirato al movimento di boicottaggio contro l’apartheid sudafricana, cerca di utilizzare la pressione economica per garantire i diritti uguali per i palestinesi in Israele, porre fine all’occupazione e promuovere il ritorno dei rifugiati palestinesi. Molte persone trovano problematico il movimento B.D.S. perché non afferma il diritto dello Stato di Israele a esistere, e alcuni sostenitori del B.D.S. immaginano addirittura la totale disfatta del progetto sionista.
Tuttavia, si potrebbe sostenere che associare all’Olocausto un movimento di boicottaggio non violento, i cui sostenitori lo hanno esplicitamente posizionato come un’alternativa alla lotta armata, sia la definizione stessa di relativismo dell’Olocausto.
Ma, secondo la logica della politica della memoria tedesca, poiché il B.D.S. è diretto contro gli ebrei – anche se molti sostenitori del movimento sono ebrei – è antisemita. Si potrebbe anche sostenere che l’equiparazione intrinseca degli ebrei con lo Stato di Israele sia antisemita, addirittura che soddisfi la definizione di antisemitismo della I.H.R.A. E, dato il coinvolgimento dell’AfD e il modello della risoluzione usato principalmente contro ebrei e persone di colore, potrebbe sembrare che questo argomento possa ottenere consenso.
Ma sarebbe in errore. La Legge fondamentale tedesca, a differenza della Costituzione degli Stati Uniti ma simile alle costituzioni di molti altri paesi europei, non è stata interpretata per garantire un diritto assoluto alla libertà di parola. Tuttavia, promette la libertà di espressione non solo nella stampa, ma anche nelle arti, nelle scienze, nella ricerca e nell’insegnamento.
È possibile che, se la risoluzione B.D.S. diventasse legge, potrebbe essere considerata incostituzionale. Ma non è stata testata in questo modo. Parte di ciò che ha reso la risoluzione particolarmente potente è la generosità consueta dello Stato tedesco: quasi tutti i musei, mostre, conferenze, festival e altri eventi culturali ricevono finanziamenti dal governo federale, statale o locale.
“Ha creato un ambiente maccartista“, ha detto Candice Breitz, l’artista. “Ogni volta che vogliamo invitare qualcuno, loro” – inteso come qualsiasi agenzia governativa che potrebbe finanziare un evento – “googlano il suo nome con ‘B.D.S.’, ‘Israele’, ‘apartheid’.”
Circa due anni fa, Breitz, la cui arte tratta tematiche di razza e identità, e Michael Rothberg, titolare di una cattedra di studi sull’Olocausto presso l’Università della California, aa Los Angeles, cercarono di organizzare un simposio sulla memoria tedesca dell’Olocausto, chiamato “We Need to Talk“.
Dopo mesi di preparativi, il finanziamento statale fu ritirato, probabilmente perché il programma includeva un panel che collegava Auschwitz e il genocidio degli Herero e dei Nama perpetrato tra il 1904 e il 1908 dai colonizzatori tedeschi nell’attuale Namibia.
“Alcune delle tecniche della Shoah furono sviluppate allora“, ha detto Breitz. “Ma non ti è permesso parlare contemporaneamente di colonialismo tedesco e della Shoah perché sarebbe un ‘livellamento’.”
L’insistenza sulla singolarità dell’Olocausto e sulla centralità dell’impegno della Germania a farci i conti sono due facce della stessa medaglia: posizionano l’Olocausto come un evento che i tedeschi devono sempre ricordare e menzionare, ma non devono temere di ripetere, perché è diverso da qualsiasi altra cosa sia mai successa o succederà.
La storica tedesca Stefanie Schüler-Springorum, che dirige il Centro di ricerca sull’antisemitismo a Berlino, ha sostenuto che la Germania unita ha trasformato il rendiconto con l’Olocausto nella sua idea nazionale e, di conseguenza, “ogni tentativo di avanzare la nostra comprensione dell’evento storico stesso, attraverso confronti con altri crimini tedeschi o altri genocidi, può essere e viene percepito come un attacco alle fondamenta stesse di questo nuovo stato nazionale“. Forse questo è il significato di “Mai più è adesso“.
Alcuni dei grandi pensatori ebrei sopravvissuti all’Olocausto hanno trascorso il resto della loro vita a cercare di dire al mondo che quell’orrore, pur essendo stato unico e mortale, non doveva essere visto come un’aberrazione. Il fatto che l’Olocausto sia accaduto significa che era possibile – e rimane possibile.
Il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman ha sostenuto che la natura massiccia, sistematica ed efficiente dell’Olocausto era una funzione della modernità: sebbene non fosse affatto predeterminata, era in linea con altre invenzioni del XX secolo.
Theodor Adorno studiò cosa rende le persone inclini a seguire i leader autoritari e cercò un principio morale che impedisse un’altra Auschwitz.
Nel 1948, Hannah Arendt scrisse una lettera aperta che iniziava così: “Tra i fenomeni politici più inquietanti del nostro tempo c’è l’emergere, nel neonato Stato di Israele, del ‘Partito della Libertà’ (Tnuat Haherut), un partito politico molto simile per organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattiva sociale ai partiti nazista e fascista“.
Solo tre anni dopo l’Olocausto, la Arendt paragonava un partito ebraico israeliano al partito nazista, un atto che oggi sarebbe una chiara violazione della definizione di antisemitismo dell’I.H.R.A...
La Arendt basava il suo paragone su un attacco condotto in parte dall’Irgun, un predecessore paramilitare del Partito della Libertà, al villaggio arabo di Deir Yassin, che non era stato coinvolto nella guerra e non costituiva un obiettivo militare. Gli aggressori “uccisero la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e ne tennero in vita alcuni per farli sfilare come prigionieri per le strade di Gerusalemme“.
L’occasione per la lettera di Arendt fu una visita programmata negli Stati Uniti dal leader del partito, Menachem Begin. Albert Einstein, un altro ebreo tedesco fuggito dai nazisti, aggiunse la sua firma.
Trent’anni dopo, Begin divenne Primo Ministro di Israele. Un altro mezzo secolo dopo, a Berlino, la filosofa Susan Neiman, che dirige un istituto di ricerca intitolato a Einstein, ha parlato all’apertura di una conferenza intitolata “Hijacking Memory: L’Olocausto e la Nuova Destra“. Ha suggerito che potrebbe subire ripercussioni per aver messo in discussione i modi in cui la Germania ora gestisce la sua cultura della memoria.
Neiman è cittadina israeliana e studiosa di memoria e morale. Uno dei suoi libri si intitola “Learning from the Germans: Race and the Memory of Evil“. Negli ultimi due anni, ha detto Neiman, la cultura della memoria è “andata in tilt“.
La risoluzione anti-BDS della Germania, ad esempio, ha avuto un effetto raggelante sulla sfera culturale del Paese. La città di Aquisgrana ha ritirato il premio di diecimila euro che aveva assegnato all’artista libanese-americano Walid Raad; la città di Dortmund e la giuria del premio Nelly Sachs, del valore di quindicimila euro, hanno revocato l’onorificenza assegnata alla scrittrice britannico-pakistana Kamila Shamsie.
Il filosofo politico camerunense Achille Mbembe è stato messo in discussione dopo che il commissario federale per l’antisemitismo lo ha accusato di sostenere il B.D.S. e di “relativizzare l’Olocausto” (Mbembe ha dichiarato di non essere legato al movimento di boicottaggio; il festival stesso è stato cancellato a causa del COVID).
Il direttore del Museo Ebraico di Berlino, Peter Schäfer, si è dimesso nel 2019 dopo essere stato accusato di sostenere il B.D.S. – in realtà non sosteneva il movimento di boicottaggio, ma il museo aveva pubblicato su Twitter un link a un articolo di giornale che conteneva critiche alla risoluzione.
Anche l’ufficio di Benjamin Netanyahu aveva chiesto alla Merkel di tagliare i fondi del museo perché, secondo il primo ministro israeliano, la sua mostra su Gerusalemme prestava troppa attenzione ai musulmani della città (la risoluzione sul BDS della Germania può essere unica per il suo impatto, ma non per il suo contenuto: la maggior parte degli Stati Usa ha ora leggi che equiparano il boicottaggio all’antisemitismo e che negano i finanziamenti statali alle persone e alle istituzioni che lo sostengono).
Dopo la cancellazione del simposio “Dobbiamo parlarne“, Breitz e Rothberg si sono riuniti e hanno proposto un simposio intitolato “Dobbiamo ancora parlarne“. L’elenco dei relatori era pulito. Un ente governativo ha controllato tutti e ha accettato di finanziare l’incontro. L’incontro era previsto per l’inizio di dicembre.
Poi Hamas ha attaccato Israele. “Sapevamo che da quel momento ogni politico tedesco avrebbe considerato estremamente rischioso essere collegato a un evento con oratori palestinesi o con la parola ‘apartheid’“, ha detto Breitz. Il 17 ottobre Breitz ha appreso che i finanziamenti erano stati revocati.
Nel frattempo, in tutta la Germania, la polizia stava reprimendo le manifestazioni che chiedevano un cessate il fuoco a Gaza o che manifestavano sostegno ai palestinesi. Invece di un simposio, Breitz e altri organizzarono una protesta. L’hanno chiamata “Abbiamo ancora bisogno di parlarne“.
Dopo circa un’ora dall’inizio del raduno, la polizia ha tagliato silenziosamente la folla per confiscare un poster di cartone con la scritta “Dal fiume al mare, chiediamo l’uguaglianza“. La persona che aveva portato il manifesto era una donna ebrea israeliana.
Da allora, la proposta di “Adempimento della responsabilità storica” ha languito in commissione. Tuttavia, la battaglia performativa contro l’antisemitismo ha continuato ad aumentare.
A novembre, la pianificazione di Documenta, una delle mostre più importanti del mondo dell’arte, è stata messa a soqquadro dopo che il quotidiano Süddeutsche Zeitung ha scovato una petizione che un membro del comitato artistico organizzatore, Ranjit Hoskote, aveva firmato nel 2019.
La petizione, scritta per protestare contro un evento programmato sul sionismo e l’Hindutva nella città natale di Hoskote, Mumbai, denunciava il sionismo come “un’ideologia razzista che chiede uno Stato coloniale e di apartheid in cui i non ebrei hanno diritti diseguali e che, in pratica, si basa sulla pulizia etnica dei palestinesi“. La Süddeutsche Zeitung ne ha parlato sotto il titolo “Antisemitismo“. Hoskote si dimise e il resto del comitato seguì l’esempio.
Una settimana dopo, Breitz ha letto su un giornale che un museo del Saarland aveva cancellato una sua mostra, che era stata programmata per il 2024, “in considerazione della copertura mediatica sull’artista in relazione alle sue dichiarazioni controverse nel contesto della guerra di aggressione di Hamas contro lo Stato di Israele“.
Lo scorso novembre ho lasciato Berlino per recarmi a Kiev, attraversando in treno la Polonia e poi l’Ucraina. Questo è un buon posto come un altro per dire alcune cose sul mio rapporto con la storia ebraica di queste terre.
Molti ebrei americani si recano in Polonia per visitare quel poco, se non nulla, che è rimasto dei vecchi quartieri ebraici, per mangiare cibo ricostruito secondo le ricette lasciate dalle famiglie scomparse da tempo e per fare visite guidate alla storia ebraica, ai ghetti ebraici e ai campi di concentramento nazisti.
Io sono più vicina a questa storia. Sono cresciuta in Unione Sovietica negli anni Settanta, nell’ombra sempre presente dell’Olocausto, perché solo una parte della mia famiglia era sopravvissuta e perché la censura sovietica sopprimeva ogni menzione pubblica.
Quando, intorno ai nove anni, seppi che alcuni criminali di guerra nazisti erano ancora a piede libero, smisi di dormire. Immaginavo che uno di loro si arrampicasse sul balcone del quinto piano per rapirmi.
Durante l’estate, nostra cugina Anna e i suoi figli venivano in visita da Varsavia. I suoi genitori avevano deciso di uccidersi dopo l’incendio del ghetto di Varsavia. Il padre di Anna si gettò sotto un treno. La madre di Anna la legò alla vita con uno scialle, quando aveva solo tre anni, e si gettò in un fiume. Furono tirati fuori dall’acqua da un uomo polacco e sopravvissero alla guerra nascondendosi in campagna.
Conoscevo la storia, ma non mi era permesso parlarne. Anna era già adulta quando seppe di essere una sopravvissuta all’Olocausto e aspettò di raccontarlo ai suoi figli, che avevano circa la mia età.
La prima volta che andai in Polonia, negli anni Novanta, fu per fare ricerche sul destino del mio bisnonno, che trascorse quasi tre anni nel ghetto di Białystok prima di essere ucciso a Majdanek.
Le guerre per la memoria dell’Olocausto in Polonia si sono svolte parallelamente a quelle della Germania. Le idee che si combattono nei due Paesi sono diverse, ma una caratteristica costante è il coinvolgimento dei politici di destra nella collaborazione con lo Stato di Israele.
Come in Germania, gli anni Novanta e Duemila hanno visto ambiziosi sforzi di commemorazione, sia nazionali che locali, che hanno rotto il silenzio degli anni sovietici. I polacchi costruirono musei e monumenti per commemorare gli ebrei uccisi nell’Olocausto – che fece metà delle vittime nella Polonia occupata dai nazisti – e la cultura ebraica che andò perduta con loro.
Poi arrivò il contraccolpo. Ha coinciso con l’ascesa al potere del partito di destra e illiberale “Diritto e Giustizia”, nel 2015. I polacchi volevano una versione della storia in cui fossero vittime dell’occupazione nazista insieme agli ebrei, che avevano cercato di proteggere dai nazisti.
Non è vero: i casi di polacchi che rischiano la vita per salvare gli ebrei dai tedeschi, come nel caso di mia cugina Anna, sono estremamente rari, mentre è frequente il caso opposto – intere comunità o strutture dello Stato polacco pre-occupazione, come la polizia o gli uffici comunali, che compiono omicidi di massa di ebrei. Ma gli storici che hanno studiato il ruolo dei polacchi nell’Olocausto sono stati attaccati.
Lo storico di Princeton di origine polacca, Jan Tomasz Gross, fu interrogato e minacciato di essere perseguito per aver scritto che i polacchi uccisero più ebrei polacchi dei tedeschi. Le autorità polacche lo perseguitarono anche dopo il suo ritiro.
Il governo ha tolto il posto a Dariusz Stola, direttore del POLIN, l’innovativo museo di storia ebraica polacca di Varsavia. Gli storici Jan Grabowski e Barbara Engelking sono stati trascinati in tribunale per aver scritto che il sindaco di un villaggio polacco era stato un collaboratore dell’Olocausto.
Quando ho scritto del caso di Grabowski e Engleking, ho ricevuto alcune delle minacce di morte più spaventose della mia vita (una, inviata a un indirizzo e-mail di lavoro, recitava: “Se continui a scrivere menzogne sulla Polonia e sui polacchi, ti spedirò questi proiettili sul corpo. Vedi l’allegato! Cinque di essi in ogni rotula, così non camminerai più. Ma se continuerai a diffondere il tuo odio per gli ebrei, consegnerò i prossimi 5 proiettili nella tua figa. Il terzo passo non lo noterai. Ma non preoccuparti, non verrò a trovarti la prossima settimana o otto settimane, tornerò quando dimenticherai questa e-mail, forse tra 5 anni. Sei sulla mia lista...”
L’allegato era una foto di due proiettili lucidi nel palmo di una mano.
Il Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau, diretto da un incaricato del governo, ha twittato una condanna del mio articolo, così come l’account del Congresso ebraico mondiale. Qualche mese dopo, un invito a parlare in un’università è saltato perché, come ha detto l’università al mio agente, era emerso che potevo essere un’antisemita.
Durante le guerre polacche per la memoria dell’Olocausto, Israele ha mantenuto relazioni amichevoli con la Polonia.
Nel 2018, Netanyahu e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki hanno rilasciato una dichiarazione congiunta contro “le azioni volte a incolpare la Polonia o la nazione polacca nel suo complesso per le atrocità commesse dai nazisti e dai loro collaboratori di diverse nazioni“. La dichiarazione affermava, falsamente, che “le strutture dello Stato clandestino polacco, supervisionate dal governo polacco in esilio, hanno creato un meccanismo di aiuto e sostegno sistematico al popolo ebraico“.
Netanyahu stava costruendo alleanze con i governi illiberali dei Paesi dell’Europa centrale, come la Polonia e l’Ungheria, in parte per impedire che un consenso anti-occupazione si consolidasse nell’Unione Europea. Per questo, era disposto a mentire sull’Olocausto.
Ogni anno, decine di migliaia di adolescenti israeliani si recano al museo di Auschwitz prima di diplomarsi (anche se l’anno scorso i viaggi sono stati annullati per problemi di sicurezza e per la crescente insistenza del governo polacco a cancellare dalla storia il coinvolgimento dei polacchi nell’Olocausto). Si tratta di un viaggio potente, che forma l’identità e che arriva appena un anno o due prima che i giovani israeliani si arruolino nell’esercito.
Noam Chayut, fondatore di Breaking the Silence, un gruppo di difesa contro l’occupazione in Israele, ha scritto a proposito del suo viaggio liceale, avvenuto alla fine degli anni Novanta: “Ora, in Polonia, da adolescente liceale, ho iniziato a sentire l’appartenenza, l’amore per me stesso, il potere e l’orgoglio, e il desiderio di contribuire, di vivere e di essere forte, così forte che nessuno avrebbe mai cercato di farmi del male“.
Chayut ha portato questo sentimento nell’I.D.F., che lo ha inviato nella Cisgiordania occupata. Un giorno stava affiggendo avvisi di confisca di proprietà. Un gruppo di bambini stava giocando nelle vicinanze. Chayut rivolse a una bambina quello che considerava un sorriso gentile e non minaccioso. Gli altri bambini scapparono via, ma la bambina si bloccò, terrorizzata, finché non scappò anche lei.
Più tardi, quando Chayut pubblicò un libro sulla trasformazione che questo incontro aveva provocato, scrisse che non era sicuro del perché di questa bambina: “Dopo tutto, c’erano anche il bambino incatenato nella jeep e la ragazza nella cui casa familiare avevamo fatto irruzione a notte fonda per portare via la madre e la zia. E c’erano molti bambini, centinaia, che urlavano e piangevano mentre rovistavamo nelle loro stanze e nelle loro cose. E c’era il bambino di Jenin a cui abbiamo fatto saltare il muro con una carica esplosiva che ha fatto un buco a pochi centimetri dalla sua testa. Miracolosamente non è rimasto ferito, ma sono sicura che il suo udito e la sua mente sono stati gravemente danneggiati“.
Ma negli occhi di quella ragazzina, quel giorno, Chayut vide un riflesso del male annichilente, quello che gli era stato insegnato che esisteva, ma solo tra il 1933 e il 1945, e solo dove governavano i nazisti. Chayut ha intitolato il suo libro “La ragazza che mi rubò l’Olocausto“.
Ho preso il treno dal confine polacco a Kiev. Quasi trentaquattromila ebrei furono fucilati a Babyn Yar, un enorme burrone alla periferia della città, in sole trentasei ore nel settembre 1941. Altre decine di migliaia di persone morirono lì prima della fine della guerra. Si tratta di quello che oggi è conosciuto come l’Olocausto dei proiettili.
Molti dei Paesi in cui avvennero questi massacri – Baltici, Bielorussia, Ucraina – furono ricolonizzati dall’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale. Dissidenti e attivisti culturali ebrei hanno rischiato la loro libertà per mantenere una memoria di queste tragedie, per raccogliere testimonianze e nomi e, dove possibile, per ripulire e proteggere i siti stessi.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, i progetti di commemorazione hanno accompagnato gli sforzi per entrare nell’Unione Europea. “Il riconoscimento dell’Olocausto è il nostro biglietto d’ingresso europeo contemporaneo“, ha scritto lo storico Tony Judt nel suo libro del 2005, Postwar.
Nella foresta di Rumbula, fuori Riga, ad esempio, dove circa venticinquemila ebrei furono uccisi nel 1941, è stato inaugurato un monumento commemorativo nel 2002, due anni prima che la Lettonia fosse ammessa all’Unione Europea.
Un serio sforzo per commemorare Babyn Yar si è concretizzato dopo la rivoluzione del 2014 che ha portato l’Ucraina su un percorso di aspirazione verso l’Unione Europea. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, nel febbraio del 2022, erano state completate diverse strutture più piccole ed erano in atto piani ambiziosi per un complesso museale più grande. Con l’invasione, la costruzione si è interrotta.
Una settimana dopo l’inizio della guerra su larga scala, un missile russo ha colpito proprio il complesso commemorativo, uccidendo almeno quattro persone. Da allora, alcune delle persone associate al progetto si sono ricostituite come team di investigatori di crimini di guerra.
Il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha intrapreso una seria campagna per ottenere il sostegno di Israele all’Ucraina. Nel marzo 2022 ha tenuto un discorso alla Knesset, in cui non ha sottolineato la propria origine ebraica, ma si è concentrato sull’inestricabile legame storico tra ebrei e ucraini. Ha tracciato paralleli inequivocabili tra il regime di Putin e il partito nazista.
Ha persino affermato che ottanta anni fa gli ucraini salvarono gli ebrei (ma ciò che ha funzionato per il governo di destra della Polonia non ha funzionato per il Presidente pro-europeo dell’Ucraina. Israele non ha dato all’Ucraina l’aiuto che ha implorato nella sua guerra contro la Russia, un Paese che sostiene apertamente Hamas e Hezbollah).
Eppure, sia prima che dopo l’attacco del 7 ottobre, la frase che ho sentito in Ucraina forse più di ogni altra è stata “Dobbiamo essere come Israele“. Politici, giornalisti, intellettuali e ucraini comuni si identificano con la storia che Israele racconta di sé, quella di una piccola ma potente isola di democrazia che si erge forte contro i nemici che la circondano.
Alcuni intellettuali ucraini di sinistra hanno sostenuto che l’Ucraina, che sta combattendo una guerra anticoloniale contro una potenza occupante, dovrebbe vedere il proprio riflesso nella Palestina, non in Israele.
Queste voci sono marginali e spesso appartengono a giovani ucraini che studiano o hanno studiato all’estero. Dopo l’attacco di Hamas, Zelensky voleva correre in Israele come dimostrazione di sostegno e unità tra Israele e Ucraina. Le autorità israeliane sembrano avere altre idee: la visita non è avvenuta.
Mentre l’Ucraina ha cercato senza successo di far riconoscere a Israele che l’invasione russa assomiglia all’aggressione genocida della Germania nazista, Mosca ha costruito un universo propagandistico che dipinge il governo di Zelensky, l’esercito ucraino e il popolo ucraino come nazisti. La Seconda guerra mondiale è l’evento centrale del mito storico russo. Durante il regno di Vladimir Putin, mentre gli ultimi che hanno vissuto la guerra stanno morendo, gli eventi commemorativi si sono trasformati in carnevali che celebrano il vittimismo russo.
L’URSS ha perso almeno ventisette milioni di persone in quella guerra, un numero sproporzionato di ucraini. L’Unione Sovietica e la Russia hanno combattuto quasi ininterrottamente dal 1945, ma la parola “guerra” è ancora sinonimo di Seconda Guerra Mondiale e la parola “nemico” è usata in modo intercambiabile con “fascista” e “nazista”. Questo ha reso molto più facile per Putin, nel dichiarare una nuova guerra, bollare gli ucraini come nazisti.
Netanyahu ha paragonato gli omicidi di Hamas al festival musicale all”Olocausto dei proiettili’. Questo paragone, ripreso e fatto circolare dai leader mondiali, compreso il presidente Biden, serve a rafforzare le ragioni di Israele per infliggere una punizione collettiva ai residenti di Gaza.
Allo stesso modo, quando Putin dice “nazista” o “fascista”, intende dire che il governo ucraino è così pericoloso che la Russia è giustificata a bombardare a tappeto, assediare le città ucraine e uccidere i civili ucraini.
Ci sono differenze significative, naturalmente: la Russia sostiene che l’Ucraina l’ha attaccata per prima e dipinge il governo ucraino come fascista, ma Hamas è una potenza tirannica che ha attaccato Israele e commesso atrocità che non possiamo ancora comprendere appieno.
Ma queste differenze hanno importanza quando si tratta di uccidere dei bambini?
Nelle prime settimane dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, quando le sue truppe occupavano i sobborghi occidentali di Kiev, il direttore del museo della Seconda Guerra Mondiale di Kiev, Yurii Savchuk, viveva nel museo e stava ripensando alla mostra principale.
Un giorno, dopo che l’esercito ucraino aveva cacciato i russi dalla regione di Kiev, incontrò il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhnyi, e ottenne il permesso di iniziare a raccogliere reperti. Savchuk e il suo staff si sono recati a Bucha, Irpin e in altre città che erano state appena “deoccupate”, come hanno iniziato a dire gli ucraini, e hanno intervistato le persone che non avevano ancora raccontato le loro storie.
“Questo avveniva prima delle esumazioni e delle sepolture“, mi ha detto Savchuk. “Abbiamo visto il vero volto della guerra, con tutte le sue emozioni. La paura, il terrore, erano nell’atmosfera e noi li abbiamo assorbiti con l’aria“.
Nel maggio del 2022, il museo ha aperto una nuova mostra, intitolata “Ucraina – Crocifissione“. Inizia con un’esposizione di stivali di soldati russi, raccolti dal team di Savchuk.
È una strana inversione: sia il museo di Auschwitz che il museo dell’Olocausto di Washington hanno esposto centinaia o migliaia di scarpe appartenute alle vittime dell’Olocausto. Queste scarpe trasmettono l’entità della perdita, anche se ne mostrano solo una piccola parte. L’esposizione a Kiev mostra l’entità della minaccia. Gli stivali sono disposti sul pavimento del museo secondo lo schema della stella a cinque punte, il simbolo dell’Armata Rossa che in Ucraina è diventato sinistro come la svastica.
A settembre, Kiev ha rimosso le stelle a cinque punte da un monumento alla Seconda guerra mondiale in quella che un tempo si chiamava Piazza della Vittoria: è stata ribattezzata così perché la parola stessa “Vittoria” connota la celebrazione della Russia in quella che ancora oggi chiama Grande guerra patriottica.
La città ha anche cambiato le date del monumento, passando da “1941-1945” – gli anni della guerra tra Unione Sovietica e Germania – a “1939-1945“. Correggere la memoria un monumento alla volta.
Nel 1954, un tribunale israeliano esaminò un caso di diffamazione riguardante un ebreo ungherese di nome Israel Kastner. Un decennio prima, quando la Germania occupò l’Ungheria e si affrettò poi a mettere in atto l’assassinio di massa degli ebrei, Kastner, in qualità di leader della comunità ebraica, entrò in trattative con Adolf Eichmann in persona.
Kastner propose di comprare la vita degli ebrei ungheresi con diecimila camion. Quando questo tentativo fallì, negoziò per salvare milleseicentoottantacinque persone trasportandole in Svizzera con un treno noleggiato. Centinaia di migliaia di altri ebrei ungheresi furono caricati su treni diretti ai campi di sterminio.
Un sopravvissuto ebreo ungherese aveva accusato pubblicamente Kastner di aver collaborato con i tedeschi. Kastner fece causa per diffamazione e, di fatto, si ritrovò sotto processo. Il giudice concluse che Kastner aveva “venduto l’anima al diavolo“.
L’accusa di collaborazionismo contro Kastner si basava sull’affermazione che egli aveva omesso di dire alle persone che stavano andando incontro alla morte. I suoi accusatori sostenevano che, se avesse avvertito i deportati, questi si sarebbero ribellati e non sarebbero andati nei campi di sterminio come pecore da macello.
Il processo è stato letto come l’inizio di uno stallo discorsivo in cui la destra israeliana sostiene la violenza preventiva e vede la sinistra come intenzionalmente indifesa. All’epoca del processo, Kastner era un politico di sinistra; la sua accusatrice era un’attivista di destra.
Sette anni dopo, il giudice che aveva presieduto il processo per diffamazione di Kastner era uno dei tre giudici del processo ad Adolf Eichmann. Ecco il diavolo in persona. L’accusa sostenne che Eichmann rappresentava solo un’iterazione dell’eterna minaccia agli ebrei. Il processo contribuì a consolidare la tesi secondo cui, per evitare l’annientamento, gli ebrei dovevano essere pronti a usare la forza in modo preventivo.
La Arendt, riferendo del processo, non avrebbe accettato tutto questo. La sua frase “la banalità del male” suscitò forse le prime accuse, rivolte a un’ebrea, di banalizzare l’Olocausto. Non era così. Ma vide che Eichmann non era un diavolo, che forse il diavolo non esisteva.
Aveva ragionato sul fatto che non esisteva il male radicale, che il male era sempre ordinario anche quando era estremo, qualcosa “nato nei bassifondi“, come disse più tardi, qualcosa di “assoluta superficialità“.
Arendt si opponeva anche alla storia dell’accusa, secondo cui gli ebrei erano vittime di, come diceva lei, “un principio storico che si estendeva dal Faraone ad Haman – la vittima di un principio metafisico“.
Questa storia, che affonda le sue radici nella leggenda biblica di Amalek, un popolo del deserto del Negev che combatté ripetutamente gli antichi israeliti, sostiene che ogni generazione di ebrei deve affrontare il proprio Amalek.
Ho imparato questa storia da adolescente; è stata la prima lezione di Torah che ho ricevuto, tenuta da un rabbino che riuniva i ragazzi in un sobborgo di Roma dove vivevano i rifugiati ebrei dall’Unione Sovietica in attesa dei documenti per entrare negli Stati Uniti, in Canada o in Australia.
In questa storia, raccontata dal pubblico ministero nel processo Eichmann, l’Olocausto è un evento predeterminato, parte della storia ebraica e solo della storia ebraica. Gli ebrei, in questa versione, hanno sempre una paura ben giustificata di essere annientati. Infatti, possono sopravvivere solo se agiscono come se l’annientamento fosse imminente.
Quando ho appreso per la prima volta la leggenda di Amalek, per me aveva perfettamente senso. Descriveva la mia conoscenza del mondo; mi aiutava a collegare la mia esperienza di prese in giro e di pestaggio con le ammonizioni della mia bisnonna sul fatto che usare espressioni domestiche yiddish in pubblico era pericoloso, con l’insondabile ingiustizia di mio nonno e del mio bisnonno e di decine di altri parenti uccisi prima che io nascessi.
Avevo quattordici anni e mi sentivo sola. Sapevo che io e la mia famiglia eravamo delle vittime, e la leggenda di Amalek ha impregnato il mio senso di vittimismo con un significato e un senso di comunità.
Netanyahu ha brandito Amalek sulla scia dell’attacco di Hamas. La logica di questa leggenda, così come lui la utilizza – che gli ebrei occupano un posto singolare nella storia e hanno un diritto esclusivo al vittimismo – ha rafforzato la burocrazia dell’anti-antisemitismo in Germania e l’empia alleanza tra Israele e l’estrema destra europea.
Ma nessuna nazione è sempre vittima o sempre carnefice. Così come gran parte della pretesa di impunità di Israele risiede nello status di vittima perpetua degli ebrei, molti critici del Paese hanno cercato di giustificare l’atto terroristico di Hamas come una risposta prevedibile all’oppressione di Israele sui palestinesi. Al contrario, agli occhi dei sostenitori di Israele, i palestinesi di Gaza non possono essere vittime perché Hamas ha attaccato Israele per primo. La lotta su una legittima rivendicazione di vittimismo si protrae all’infinito.
Negli ultimi diciassette anni, Gaza è stata un complesso iperdensamente popolato, impoverito e murato, dove solo una piccola parte della popolazione aveva il diritto di uscire anche solo per un breve periodo di tempo: in altre parole, un ghetto. Non come il ghetto ebraico di Venezia o un ghetto di una città americana, ma come un ghetto ebraico in un Paese dell’Europa orientale occupato dalla Germania nazista.
Nei due mesi successivi all’attacco di Hamas contro Israele, tutti i gazawi hanno sofferto per l’assalto appena interrotto delle forze israeliane. Migliaia di persone sono morte. In media, a Gaza viene ucciso un bambino ogni dieci minuti. Le bombe israeliane hanno colpito ospedali, reparti di maternità e ambulanze. Otto gazawi su dieci sono ormai senza casa, si spostano da un luogo all’altro, senza mai riuscire a mettersi in salvo.
Il termine “prigione a cielo aperto” sembra essere stato coniato nel 2010 da David Cameron, il ministro degli Esteri britannico che allora era primo ministro. Molte organizzazioni per i diritti umani che documentano le condizioni a Gaza hanno adottato questa descrizione. Ma come nei ghetti ebraici dell’Europa occupata, non ci sono guardie carcerarie: Gaza non è sorvegliata dagli occupanti, ma da una forza locale.
Presumibilmente, il termine più appropriato “ghetto” ci avrebbe attirato il fuoco per aver paragonato la situazione dei gazawi assediati a quella degli ebrei ghettizzati. Ma ci avrebbe anche fornito il linguaggio per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza ora. Il ghetto viene liquidato.
I nazisti sostenevano che i ghetti erano necessari per proteggere i non ebrei dalle malattie diffuse dagli ebrei. Israele ha sostenuto che l’isolamento di Gaza, come il muro in Cisgiordania, è necessario per proteggere gli israeliani dagli attacchi terroristici compiuti dai palestinesi.
La rivendicazione nazista non aveva alcun fondamento nella realtà, mentre quella israeliana deriva da atti di violenza effettivi e ripetuti. Si tratta di differenze essenziali. Tuttavia, entrambe le rivendicazioni propongono che un’autorità occupante possa scegliere di isolare, immiserire e, ora, mettere mortalmente in pericolo un’intera popolazione in nome della protezione della propria.
Fin dai primi giorni della fondazione di Israele, il paragone tra palestinesi sfollati ed ebrei sfollati si è presentato, per poi essere respinto. Nel 1948, anno di creazione dello Stato, un articolo del quotidiano israeliano Maariv descriveva le condizioni terribili – “anziani così deboli da essere sul punto di morire“; “un ragazzo con due gambe paralizzate“; “un altro ragazzo con le mani mozzate” – in cui i palestinesi, per lo più donne e bambini, lasciavano il villaggio di Tantura dopo che le truppe israeliane lo avevano occupato:
“Una donna portava il suo bambino con un braccio e con l’altra mano teneva la madre anziana. Quest’ultima non riusciva a tenere il passo, urlava e pregava la figlia di rallentare, ma la figlia non acconsentiva. Alla fine l’anziana si è accasciata sulla strada e non riusciva più a muoversi. La figlia si strappò i capelli… per non arrivare in tempo. E peggio ancora è stata l’associazione [di questa scena, ndr] alle madri e alle nonne ebree che si sono attardate sulle strade sotto il tiro degli assassini.”
Il giornalista si bloccò. “Ovviamente non c’è spazio per un simile paragone“, scrisse. “Questo destino se lo sono procurato da soli“.
Gli ebrei hanno preso le armi nel 1948 per rivendicare la terra che era stata loro offerta da una decisione delle Nazioni Unite di dividere quella che era stata la Palestina controllata dagli inglesi. I palestinesi, sostenuti dagli Stati arabi circostanti, non accettarono la spartizione e la dichiarazione di indipendenza di Israele.
Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania invasero il proto-Stato israeliano, dando inizio a quella che oggi Israele chiama Guerra d’Indipendenza. Centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono dai combattimenti. Quelli che non lo fecero furono cacciati dai loro villaggi dalle forze israeliane. La maggior parte di loro non fu mai in grado di tornare.
I palestinesi ricordano il 1948 come la Nakba, una parola che in arabo significa “catastrofe”, così come Shoah significa “catastrofe” in ebraico. Il fatto che il paragone sia inevitabile ha spinto molti israeliani ad affermare che, a differenza degli ebrei, i palestinesi si sono procurati la catastrofe da soli.
Il giorno in cui sono arrivata a Kiev, qualcuno mi ha consegnato un grosso libro. Si trattava del primo studio accademico su Stepan Bandera pubblicato in Ucraina. Bandera è un eroe ucraino: ha combattuto contro il regime sovietico; decine di monumenti a lui dedicati sono apparsi dopo il crollo dell’URSS.
Finito in Germania dopo la Seconda guerra mondiale, ha guidato un movimento clandestino dall’esilio ed è morto dopo essere stato avvelenato da un agente del KGB, nel 1959. Bandera era anche un fascista convinto, un ideologo che voleva costruire un regime totalitario. Questi fatti sono descritti in dettaglio nel libro, che ha venduto circa milleduecento copie (la Russia usa allegramente il culto ucraino di Bandera come prova che l’Ucraina è uno Stato nazista. Gli ucraini rispondono per lo più sbianchettando l’eredità di Bandera).
È sempre più difficile per le persone concepire l’idea che qualcuno possa essere stato il nemico del tuo nemico e tuttavia non una forza benevola. Una vittima e anche un carnefice. O viceversa.
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