Con un colpo di scena dai contorni discutibili si è chiusa con un solo giorno di ritardo la COP 28. Dopo la prima bozza uscita due giorni fa e rigettata da una larga maggioranza dei partecipanti, nella notte la presidenza ha rigurgitato un’altra proposta perché, come promesso dal petroliere Sultan Al-Jaber presidente della conferenza, non si poteva accettare un fallimento in casa sua.
E con un colpo di mano ne è uscita una risoluzione di compromesso tra petrolieri e capitalisti green che non è né carne né pesce.
Quello che ne vien fuori, al contrario di quanto dicano i titoli di alcuni giornali, è ben più che deludente. Una autentica debacle, si potrebbe dire.
“Per la prima volta si parla di abbandono dei combustibili fossili”, dicono i giornali. Non c’è traccia però di target, obiettivi, percentuali di riduzioni, disincentivi alla produzione o all’uso dei fossili.
L’accordo è stato infatti trovato su un termine che vuol dire tutto e niente, al quale da un po’ di anni ci siamo abituati: “transizione”.
Tutti d’accordo contro il carbone, anche su spinta degli USA, ma nulla si dice contro gli idrocarburi, i più impattanti e i più inquinanti, oltre che i più profittevoli, tra i combustibili fossili.
Parlare di transizione vuol dire mettere nero su bianco quello che da anni si invoca come “principio”, non una dichiarazione di intenti senza obiettivi e azioni pratiche per dare concretezza a quel principio.
Parlare di transizione all’uscita dal fossile in un documento guida come quello di Dubai, è come pensare di buttare un bicchiere d’acqua per spegnere un incendio; significa iniziare a pensare di cambiare fonte energetica principale quando già il pianeta sta bruciando e quando la tecnologia è già matura abbastanza per dare una sferzata all’uso delle energie rinnovabili.
Rispetto all’innalzamento delle temperature, e alla necessità non superare come incremento medio quel fatidico +1.5°C, vengono richieste “riduzioni profonde, rapide e durature delle emissioni globali di gas serra pari al 43% entro il 2030 e al 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019, raggiungendo zero emissioni nette entro il 2050”.
Già l’IPCC aveva indicato ai Paesi sviluppati la necessità di ridurre le proprie emissioni del 25-40% rispetto al 1990, cosa che ovviamente non è stata raggiunta… Vedremo se questa nuova formulazione riuscirà ad essere più incisiva.
Di certo ci sarà di aspettarsi una stretta sulle emissioni di metano, in primis quelle derivanti dagli allevamenti. Anche qui, le scelte saranno demandate agli Stati, ma qui c’è un altro principio che rende tutto fluido: non ci sono differenziali!
Non sono previste infatti quote di riduzioni assegnate agli Stati, ma un unico principio secondo il quale ogni Stato si impegna a ridurre di un po’. Immaginatevi lo sforzo economico e sociale necessario per ridurre anche solo di un 10% le emissioni di energia non rinnovabili per un Paese come gli USA e per uno come il Ghana!
“Non c’è alcun riferimento alle responsabilità comuni e differenziate tra paesi sviluppati e non“, ha affermato il rappresentante della Bolivia, criticando duramente la scelta di parole estremamente “leggere” usate del documento finale, decisamente a svantaggio dei Paesi del Sud del mondo.
Dulcis in fundo, viene mantenuto il riferimento alla necessità di triplicare le rinnovabili e duplicare l’efficienza energetica entro il 2030.
Tra le “rinnovabili” la cui tecnologia è ben più che matura e può essere incentivata in tutto il mondo, per la prima volta in questo genere di documenti, entra il nucleare: dopo l’accordo di venti paesi nei giorni scorsi volto a triplicare la potenza entro il 2030, nel documento finale di Dubai si parla di accelerare l’adozione di nuove tecnologie, incluso il ricorso all’atomo come strategia per produrre “energia pulita“.
Peccato che non si parli affatto né dei rischi altissimi di questa tecnologia, né – tanto meno – della gestione delle scorie.
Che sia stata deludente e imbarazzante questa COP 28 è dire poco: uno spreco di denaro e di parole che offendono i milioni di persone che ogni anno si trovano a dover far fronte a catastrofi economiche e alimentari legate alla crisi climatica.
In buona sostanza, lì dove qualcosa è stato deciso in questi giorni, pesa poco o pochissimo, o in alternativa apre la porta a scelte che non sappiamo davvero dove porteranno questo pianeta.
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