A partire dallo scorso 30 novembre è disponibile nelle sale cinematografiche italiane il film “Palazzina LAF”. Con la regia di Michele Riondino, alla sua prima esperienza da regista, e la partecipazione di attori quali lo stesso Riondino, Elio Germano e Vanessa Scalera, questo film è tratto dal libro “Fumo sulla città” dello scrittore Alessandro Leogrande. Ambientato nel 1997, ripercorre una delle prime vicende riconosciute in Italia come mobbing, nel quadro di uno fra i maggiori casi di speculazione, danni a salute della popolazione e ambiente nel nostro paese: quello dell’ILVA di Taranto (oggi denominata Acciaierie d’Italia). Le vicende narrate testimoniano la fase immediatamente successiva alla privatizzazione avvenuta nel 1995 dell’ILVA stessa, in precedenza Italsider e di proprietà statale, e in quegli anni acquisita dalla famiglia Riva.
La trama del film: ristrutturazione aziendale come condanna dei lavoratori
Nel contesto descritto, i padroni e i dirigenti della fabbrica, tra cui Giancarlo Basile, capo del personale interpretato da Elio Germano, attuano una feroce condotta antisindacale, sottoponendo a continue minacce di ritorsioni gli iscritti a un sindacato o chiunque fosse critico nei confronti della gestione aziendale. Sono infatti diverse le persone scontente per una ristrutturazione che viene pagata sulla pelle dei lavoratori, anche in termini di orari di lavoro insostenibili, che causano sempre più spesso incidenti mortali. Molti dei lavoratori considerati “scomodi” vengono trasferiti nella cosiddetta Palazzina LAF (in quanto adiacente al laminatoio a freddo), un vero e proprio reparto confino, ritenuto però dalla gran parte degli operai un paradiso di ozio e svago che garantisce a chi vi viene collocato uno stipendio pressoché senza lavorare.
Al contrario, a chi vi è stanziato non viene assegnata alcuna mansione e, impossibilitati a lavorare o divagarsi, questi lavoratori sono costretti a una vera e propria detenzione per tutta la giornata lavorativa in un ambiente angusto, sovraffollato e fatiscente, sottoposti a continue vessazioni verbali e fisiche dalle guardie giurate con cui l’azienda li sorveglia a vista. La reclusione nella palazzina rappresenta un vero e proprio incubo per i lavoratori che vi risiedono, molti dei quali presentano evidenti disturbi psicologici, tra cui depressione, episodi di rabbia incontrollata e uno stress pari, se non superiore, ai loro colleghi che effettivamente svolgono lavori.
Nella speranza di essere ricollocati e poter abbandonare quello che ormai considerano un carcere, i lavoratori, che nel corso del film aumentano progressivamente (da 48 a 79), si rivolgono ai sindacati. Tuttavia, la dirigenza aziendale si mostra irremovibile, cercando un pretesto per licenziare i sindacalisti e promettendo ai lavoratori un ricollocamento solo qualora questi (per lo più impiegati) avessero accettato un demansionamento e incarichi dal massimo rischio per i quali non sarebbero stati adeguatamente formati.
Proprio per “spiare” i lavoratori e i sindacalisti, i padroni scelgono Caterino Lamanna, un operaio addetto alla manutenzione della fornace, chiedendo a questo di infiltrarsi e riferire ogni informazione utile ad ostacolare un’opposizione alle politiche societarie, con la promessa di aumenti di livello, salariali e vari altri benefici.
I risultati delle grandi privatizzazioni negli anni 1990
Il contesto in cui le vicende dell’ILVA si svolgono è quello degli anni 1990, contraddistinti dal grande processo di dismissione del patrimonio pubblico e del settore statale dell’economia italiana operato tanto dai governi del centro-destra (Berlusconi), quanto da quelli del centro-sinistra (D’Alema e Prodi), avvenuta di concerto con lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale, frutto della nuova strategia della borghesia italiana che mirava a massimizzare così la propria competitività nella cornice del mercato unico. Talvolta mettendo a disposizione addirittura incentivi statali, i governi hanno proceduto a svendere a grandi fondi speculativi i principali beni pubblici, che, seppur in assenza di un precedente controllo operaio e senza pertanto che quei beni fossero mai stati realmente a disposizione del benessere collettivo, passavano così apertamente nelle mani di gruppi imprenditoriali privati che rinnegavano anche nominalmente qualsiasi forma di finalità sociale, piegando la produzione a pure logiche di bilancio e di profitto.
In diverse delle aziende che hanno subito questo destino si è assistito a gravi casi di speculazione, anche tramite il ricorso a fondi pubblici, vicende che hanno condotto a ristrutturazioni aziendali che non permettevano alcun rispetto del diritto al lavoro.
L’Italsider era proprio una di quelle aziende di proprietà statale, attraverso l’IRI, con il suo stabilimento di Taranto che fu inaugurato il 10 aprile 1965. Con il pretesto di una crisi del settore siderurgico, l’ILVA (che aveva assunto questo nome nel 1988) fu prima smembrata, con la chiusura o svendita degli impianti a diversi gruppi, e poi del tutto privatizzata con l’acquisto del polo di Taranto da parte del Gruppo Riva. Proprio in questo periodo la nuova proprietà si macchia di vari reati ambientali e di inquinamento, oltre ad organizzare un vero e proprio sistema punitivo per i dipendenti, da cui le vicende della Palazzina LAF.
Non è un caso se la privatizzazione delle aziende pubbliche, in un contesto di liberalizzazioni che proseguì per molti anni, abbia portato a speculazione, devastazione, condotte antioperaie, attacco ai diritti e al benessere della collettività. Lungi dal ritenere che la mera proprietà pubblica di determinati asset strategici nell’economia nazionale possa, in assenza del potere ai lavoratori, garantire benessere, o addirittura una tappa verso una società strutturalmente diversa da quella odierna (il ruolo dello Stato in economia ha piuttosto rappresentato in Italia un uso della spesa pubblica a sostegno del processo di concentrazione del capitale privato), è impossibile non riconoscere come sul piano occupazionale e dei diritti la stagione delle liberalizzazioni abbia rappresentato un peggioramento, legato al più ampio arretramento in Italia del movimento operaio, del sindacalismo confederale e dei partiti che di esso si facevano interpreti.
Tutto ciò che ne consegue, tra cui le vicende narrate in Palazzina LAF, non può pertanto prescindere da una lettura di quegli anni, in un cui veniva meno la necessità per i governi borghesi di garantire una gestione, almeno all’apparenza, “sociale” tramite welfare e proprietà pubblica di parte dei mezzi di produzione a cui i governi stessi erano costretti dalla presenza di un blocco socialista che desse forza a un’alternativa socialista alla barbarie del capitalismo. Nel nostro paese, proprio grazie alla disorganizzazione della classe operaia, questo processo di dismissione di elementi “palliativi” ha rappresentato un salto di qualità per una società che strutturalmente si fonda sul profitto, in barba a qualsiasi finalità sociale della produzione.
Le conseguenze della divisione tra i lavoratori
La figura di Caterino e il suo rapporto con gli altri lavoratori mostrano in maniera cinica ma efficace la strategia padronale di frammentare la classe lavoratrice, creando divisioni, spesso pretestuose quanto artificiali, sulla base della mansione, del salario e dell’anzianità. Caterino è infatti un lavoratore disilluso, che non vede possibile un miglioramento delle proprie condizioni materiali se non nel compiacimento delle richieste padronali, tanto da essere preda della retorica dell’interesse aziendale, anche a scapito dei suoi colleghi.
Come tutti gli operai dell’acciaieria, Caterino non vede di buon occhio chi lavora nella Palazzina LAF, riservando loro atti di scherno, provocazione e derisione. Infatti, lui prova invidia, che genera in lui risentimento e voglia di rivalsa, per i lavoratori della Palazzina LAF, che considera privilegiati in quanto percepiscono, senza lavorare, uno stipendio superiore al suo, che rischiava ogni giorno la vita alle batterie. Per chi lavorava nel suo reparto, infatti, le morti sul lavoro erano una realtà quotidiana.
Vi sono infine i lavoratori impiegati nella vigilanza privata di stanza nel complesso industriale, che, incapaci di percepire e provare risentimento per le condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori confinati nella palazzina, diventano lo strumento che consente ai padroni di mantenere un clima di intimidazione, timore, violenza verbale e fisica.
È proprio la divisione tra i lavoratori della fabbrica a renderli ricattabili. Infatti, l’atomizzazione che le politiche aziendali sono riuscite a produrre e l’individualismo imperante nella società capitalistica fanno sì che ciascun lavoratore, se non i più coscienti, non veda nei suoi pari un compagno nella lotta per la conquista di condizioni migliori. Questa realtà è stata descritta in un’intervista anche da Elio Germano, secondo il quale la corsa al profitto genera conflittualità tra i lavoratori, impedendo a questi di lottare insieme, e individuando il proprio nemico negli altri lavoratori, piuttosto che nel datore di lavoro.
La necessità di un sindacalismo conflittuale
Una figura importante in tutto l’arco narrativo del film è quella di Renato Morra, un sindacalista che cerca in varie maniere di mobilitare i lavoratori. A partire dall’organizzazione di uno sciopero contro le frequenti morti sul lavoro, Morra attira su di sé le attenzioni dei dirigenti della fabbrica, che a più riprese cercano di “assoldare” lavoratori, tra cui Caterino, per incastrarlo, se non addirittura per creare ad arte prove di violazioni disciplinari, al fine di licenziarlo e sbarazzarsene.
Senza alcun dubbio la figura di Morra lascia trasparire una sincera volontà di migliorare le condizioni di lavoro degli operai, e, in seguito, di “liberare” i lavoratori della Palazzina LAF, che gli si erano rivolti nella speranza di poter abbandonare quel luogo. Il suo ruolo nella trama è pertanto sicuramente positivo. Tuttavia, fin da subito è possibile riscontrare alcune contraddizioni che impediscono a Morra di restare in contatto con gli altri lavoratori e di organizzarli in una lotta.
In primo luogo, i lavoratori non ritengono all’altezza la risposta sindacale alle morti sul lavoro (emblematica è l’affermazione di Caterino, secondo il quale quando muore un operaio i sindacati si limiterebbero a fare mezz’ora di sciopero, senza quindi incidere realmente); in secondo luogo, Morra non riesce a contrastare le politiche societarie, in quanto il suo sindacato era firmatario degli accordi di ristrutturazione aziendale (ciò lascia intuire che, realisticamente, il sindacato in questione fosse uno tra i confederali) che consentivano ai padroni, in tutta la loro arroganza, di disporre dei lavoratori a loro piacimento.
La debolezza, se non la compromissione aperta in taluni casi, dei principali sindacati che hanno scelto la via della concertazione, piuttosto che quella della conflittualità, è ciò che rende ai lavoratori, preda della propaganda borghese, inviso lo strumento stesso del sindacato, vedendo come inutile o perfino ostile uno degli elementi fondamentali della lotta di classe.
Seppur il film non vi faccia riferimento esplicito, la necessità di un sindacalismo conflittuale, che sappia contrapporre a concertazione e collaborazionismo la lotta di classe sui luoghi di lavoro, è evidente dalla pellicola. Si evince che proprio la lotta può far pesare la forza dei lavoratori sui padroni, mentre al contrario la concertazione non fa che “anestetizzare” le lotte, producendo rassegnazione e disillusione per quei sindacalisti, che altrimenti vengono visti come individui dediti esclusivamente alla ricerca di soldi e tessere, come afferma Caterino in apertura.
Il mobbing come violenza fisica e psicologica sui lavoratori
Come anticipato in apertura, il film trae spunto dai fatti realmente avvenuti presso gli stabilimenti tarantini dell’ILVA tra fine anni 1990 e inizio anni 2000, uno dei primissimi casi riconosciuti come mobbing in Italia.
Per oltre due anni, i lavoratori confinati non hanno svolto alcuna attività lavorativa e per un certo periodo sono stati tenuti a casa col pagamento dello stipendio. In seguito sono finiti in cassa integrazione, scaduta il 30 novembre 2001: tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 una minima parte di loro è rientrata nel ciclo produttivo insieme ad altri lavoratori che erano in CIGS (cassa integrazione guadagni straordinaria). Una parte dei 70 lavoratori, a causa di queste vessazioni, ha subito danni psicologici e persino fisici (come testimoniato da un articolo de “La Repubblica” dell’8 dicembre 2001).
A seguito di una nota del locale ispettorato del lavoro, originata da una richiesta pervenuta dal Ministero del Lavoro che doveva predisporre una risposta ad un’interrogazione parlamentare, il 19 febbraio 1998 venne avviata un’inchiesta, che condusse alla condanna per violenza privata a due anni e tre mesi di reclusione di Emilio Riva, presidente del consiglio di amministrazione dell’ILVA, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento di Taranto, e un caporeparto, Antonio Bon, oltre alla condanna di altri sette imputati, tutti capireparto, a pene minori, a partire da nove mesi di reclusione. Le condanne sono arrivate in primo grado il 7 marzo 2002, in appello il 10 agosto 2005. La sentenza del Tribunale di Taranto rileva come gli imputati:
«Minacciavano i lavoratori in questione, in maniera diretta ed indiretta, e quantomeno in forma implicita, che, ove non avessero accettato la proposta novazione del rapporto di lavoro con declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio con conseguente mutamento peggiorativo delle mansioni relative, i predetti sarebbero stati trasferiti (trasferimento poi attuato) alla “Palazzina Laf”, ove era sicuramente prevedibile la inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle aspirazioni legittime dei dipendenti, al miglioramento e alla tutela delle loro attitudini professionali e consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sì da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità dei lavoratori stessi, con ciò determinando da un lato il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle capacità professionali delle parti lese e, dall’altra, l’avvilimento del loro legittimo diritto ad espletare un’attività lavorativa decorosa e confacente ai principi tipici di un equilibrato rapporto di lavoro, subordinando il ripristino di un normale rapporto alla accettazione della “proposta” di novazione, lasciando perdurare a tempo indeterminato la negativa situazione descritta a fronte del perdurante diniego opposto dagli interessati.»
Le pratiche di mobbismo sono solo uno dei numerosi esempi di prevaricazione e abuso di potere sul luogo di lavoro, spesso finalizzate a creare un ambiente ostile al lavoratore, costringendolo alle dimissioni e all’abbandono del lavoro stesso o all’accettazione di un ridimensionamento della propria figura professionale. Se nel periodo all’incirca coincidente con i fatti narrati in Palazzina LAF perfino il Parlamento Europeo, lungi dal rappresentare un attore neutrale nel conflitto tra capitale e lavoro, riconosceva come tra il 2000 e il 2001 «l’8% dei lavoratori dell’Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato», in Italia l’Eurispes rilevava come i lavoratori italiani mobbizzati ammontavano a un milione e mezzo (su 21 milioni di occupati), pari al 7,1%.
Ancora oggi il mobbing è considerato uno dei principali determinanti della riduzione del benessere lavorativo a livello mondiale ed in grado di causare nelle vittime non solo problemi di salute mentale, come ad esempio depressione, ansia, idee suicidarie, alterazioni del ritmo sonno-veglia, ma anche di influenzare il decorso di malattie cardiovascolari, e diabete. L’assenza nel nostro paese di una fattispecie di reato specifica contro il mobbismo, oltre a non contribuire ad arginare queste pratiche ostili ai lavoratori, rende ad ogni modo lo studio del fenomeno in Italia farraginoso, nonché le statistiche incomplete e scarsamente aggiornate.
Esempi di casi a cui la giurisprudenza ha riconosciuto pratiche mobbiste riguardano situazioni di emarginazione, demansionamento, inattività coatta, denigrazione, dequalificazione, discriminazione professionale, terrorismo psicologico, umiliazioni e pressioni psicologiche, intento lesivo diretto alla persecuzione e moltre altre situazioni analoghe.
Purtroppo, come testimonia il film, quella del mobbing è una pratica spesso sottovalutata o non denunciata come abusatrice da parte dei lavoratori: questo avviene da una parte per una difficoltà da parte dei lavoratori nel reagire alle diverse forme con cui l’oppressione padronale si può esplicare nei luoghi di lavoro; dall’altra per una vera e propria assuefazione ai soprusi commessi dal padronato stesso, in un contesto in cui, in assenza di una prospettiva politica o sindacale che rilanci la centralità del proletariato e la lotta per la conquista di diritti sociali, caporalato e arroganza padronale diventano per i proletari stessi la normalità e l’unica prospettiva in una società all’insegna di precarietà e sfruttamento.
Negli anni immediatamente successivi alla sentenza sull’ILVA, secondo una ricerca dell’IREF del 2004, il 70,4% dei lavoratori italiani dichiarava di non conoscere il fenomeno del mobbing. Nel film, Caterino stesso, convinto che la prospettiva di guadagnare stipendi maggiori senza dover lavorare sia un’utopia, si rende conto solo con il passare del tempo che la vita nella Palazzina LAF è in realtà un inferno.
Per i padroni il profitto conta più delle vite
La cornice del film è una città, Taranto, avvelenata da diossina e amianto, in cui è ormai raro morire di vecchiaia e non ammalarsi per la presenza di sostanze tossiche prodotte dall’acciaieria, tanto che vivere nei quartieri della città più vicini alla fabbrica è considerato una vera e propria condanna a morte. Lo stesso Caterino, a più riprese nel film, inizia a mostrare sintomi di problemi respiratori, verosimilmente per il lavoro che svolge.
I dati di malattie contratte o riscontrate dai residenti della provincia di Taranto sono strazianti: l’ONA (Osservatorio Nazionale Amianto) riporta come si registrano il 400% in più di casi di tumore tra i lavoratori impiegati nelle fonderie ILVA, ma anche il 50% di malattie tumorali in più tra gli impiegati dello stabilimento, esposti solo in modo indiretto, oltre al fatto che tra 1993 e il 2015 il 40% (472 su 1191) dei casi nella Puglia di mesotelioma, un tumore causato esclusivamente dall’amianto, sono stati diagnosticati nella sola città di Taranto.
L’inquinamento prodotto dalla fabbrica non risparmia neanche i bambini: infatti, sempre secondo l’ONA, a Taranto si registra un +54% di incidenza delle malattie tumorali nei bambini e un +21% di mortalità infantile (0 – 14 anni), con un dato ancora più drammatico nei quartieri Tamburi e Paolo VI, adiacenti all’acciaieria, dove risulta maggiore del 70% rispetto alla media della città; inoltre, secondo lo studio epidemiologico Sentieri tra il 2002 e il 2015 sono nati 600 bambini malformati, “con una prevalenza superiore all’atteso calcolato su base regionale”, oltre a più di 40 tumori in età pediatrica e nel primo anno di vita.
Nonostante la nota condizione a cui i residenti di Taranto sono costretti, l’inquinamento atmosferico nella città aumenta di anno in anno. Come rilevato dall’ARPA Puglia, la media di benzene, composto tossico che genera il cancro, nell’aria è in costante crescita. Tra gennaio e novembre 2022 il valore medio delle rilevazioni era pari a 3,3 microgrammi per metro cubo, un valore superiore alle medie rilevate dal 2019 al 2021. Nel 2019 infatti il valore medio era di 1,3 μg/m3, nel 2020 di 2,8 μg/m3 e infine nel 2021 di 2,9 μg/m3
L’ONU ha riconosciuto l’impianto siderurgico dell’ILVA tra le aree più degradate e inquinate del mondo, nonché definito la produzione degli stabilimenti come una vera a propria violazione dei diritti umani a danno dei cittadini tarantini.
I motivi per cui questo stato di cose perdura a Taranto sono le logiche di profitto da parte delle dirigenze aziendali che si sono susseguite negli anni, insieme al costante ricatto occupazionale legato alla falsa contrapposizione tra occupazione e diritto alla salute. Questo è quanto avvenuto ad esempio nel dicembre 2019 a seguito di una sentenza del Tribunale di Taranto che stabiliva il sequestro e lo spegnimento dell’altoforno 2 (uno dei tre su quattro in funzione), con la conseguente messa in cassa integrazione straordinaria da parte di ArcelorMittal, proprietaria degli stabilimenti, di 3500 operai a seguito della sentenza (la decisione fu in seguito annullata dal tribunale del riesame in accoglimento del ricorso presentato dall’ILVA).
L’elevata mortalità, la devastazione ambientale, le morti sul lavoro sono quindi da attribuire solamente alla gestione padronale dei mezzi di produzione, come testimoniano le parole di Aldo Romanazzi, uno degli impiegati “scomodi” per l’azienda: «Il nostro acciaio serve a costruire la ricchezza di qualcun altro. A noi ci lasciano solo la mondezza…»
Un crudo spaccato di un sistema di sfruttamento
Alla luce di quanto detto, il film Palazzina LAF ha l’indubbio merito di portare all’attenzione del grande schermo una serie di tematiche operaie e di denunciare fenomeni che i lavoratori, in molti casi inconsapevolmente, si trovano a vivere. Non è infatti consueto che le tematiche del lavoro siano affrontate in maniera altrettanto precisa e realistica, in tutta la loro crudezza. La visione del film, il cui giudizio è del tutto positivo, è pertanto consigliata per avere non solo un quadro su una vicenda che ha fatto storia nella giurisprudenza e nel diritto del lavoro italiano, ma anche per comprendere meglio quali sono le logiche sostenute dal padronato, quando vengono richiesti, come spesso accade, sacrifici ai lavoratori nel nome dell’interesse aziendale o di ristrutturazioni che gioveranno solo ai profitti di chi sfrutta ogni giorno il lavoro di milioni di persone.
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