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16/12/2023

I salari in Italia fermi da trent’anni, grazie alla concertazione tra governi e Cgil Cisl Uil

In Italia i salari reali sono sostanzialmente al palo da trent’anni, la forza lavoro è in rapido invecchiamento. Secondo l’Inapp (Istituto Nazionale per le Politiche Pubbliche) sono queste alcune tra le principali criticità del mercato del lavoro italiano.

Il Rapporto annuale dell’Inapp è stato presentato ieri alla Camera e, ovviamente, sostiene l’utilità dell’introduzione del salario minimo legale visto che la struttura della contrattazione collettiva non è riuscita a far crescere nel nostro Paese le retribuzioni reali. Nella distribuzione del reddito si vede una caduta crescente della quota dei salari sul Pil e una crescente quota dei profitti, che si è ormai stabilizzata su valori rispettivamente del 40% per i salari e del 60% per i profitti.

Tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono cresciuti solo dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse. “Una prima criticità – ha spiegato il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda – è costituita dalla questione salariale. La distribuzione funzionale del reddito mostra una caduta crescente della quota dei salari sul Pil e una crescente quota dei profitti (sono rispettivamente del 40% e del 60%) che configurano un modello di crescita profit led. Nella letteratura economica – si evidenzia – vengono avanzati forti dubbi sulla tenuta di tale modello nel lungo periodo, mentre si attribuisce maggior solidità al modello wage led per via della crescita della domanda aggregata che è in grado di alimentare un sentiero di crescita sostenuta”.

“Non esistono ragioni né sul piano analitico né sul piano dell’evidenza empirica – spiega Fadda a proposito delle difficoltà della contrattazione collettiva nella salvaguardia delle retribuzioni – per escludere strumenti basati sull’imposizione di una soglia minima invalicabile”. In Italia inoltre sta emergendo un altro fenomeno che, secondo l’Inapp, “deve preoccupare i responsabili della politica economica: si tratta del cosiddetto ‘labour shortage‘, ossia della carenza di lavoratori. Si manifesta con la difficoltà dei datori di lavoro a coprire i posti vacanti”. Un dato questo che è legato anche al forte invecchiamento della forza lavoro (e ai salari bassi che non spingono nel mercato del lavoro nuove quote di attuali inattivi) sulla scia dell’andamento demografico.

Ma sono ancora troppo pochi quelli che danno risposta alla domanda: perché è dal 1992 che i salari di lavoratrici e lavoratori italiani sono rimasti al palo? Gli europeisti hanno la coda di paglia e tendono sempre a svicolare sul fatto che l’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht avviò le politiche di austerità e impose il blocco dei salari. E proprio nel biennio 1992/1993 infatti che gli accordi sulla concertazione tra governi (Amato e Ciampi), Confindustria e Cgil Cisl Uil, portarono sia all’eliminazione definitiva della scala mobile che all’aggancio dei salari alla cosiddetta inflazione programmata invece che a quella reale.

Quel meccanismo ha agito sistematicamente sui contratti nazionali dei decenni successivi, con aumenti salariali irrisori nel corso del tempo, fino all’emergenza dei bassi e bassissimi salari esplosa negli ultimi anni, in particolare quando l’inflazione reale – e non quella fittizia “programmata – ha falcidiato il potere d’acquisto.

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