È tradizione soprattutto mediterranea, almeno a far data dall’Eneide, quella del parce sepulto, ossia l’invito a non parlar male dei defunti, anche se hanno avuto delle colpe.
L’invito è rispettabile sotto molti aspetti, ma non può essere esteso oltre misura, fino a cancellare ogni critica per quanto fatto o detto o scritto dal dipartito. Altrimenti ogni progresso storico specifico sarebbe congelato come le lapidi di un cimitero.
Nel caso di Toni Negri, in questi giorni, abbiamo visto molte “dimenticanze” da parte dei vecchi o seminuovi protagonisti della stagione dei “movimenti”, i soliti insulti da parte della destra trinariciuta, qualche ricordo non demonizzante anche su alcuni media mainstream.
Ci sta. I ricordi di gioventù sono sempre più dolci che non i sentimenti in tempo reale. E l’odio da parte del nemico spinge a mettere da parte le critiche, a suggerire “compattezza” anche quando questa non c’è stata, neanche in pieno conflitto.
Ma onestà intellettuale vuole che il parce sepulto, nel suo caso, non sia applicabile almeno per quanto riguarda le due principali influenze che a Negri vengono riconosciute: quella sul pensiero politico e sulle pratiche politiche “di movimento”.
Perché la sua influenza è stata – sì – decisamente importante, ma altrettanto decisamente negativa.
E mi sembra necessario che quel poco o tanto di nuova mobilitazione antagonista sia perlomeno informata sugli aspetti più critici, in modo da decidere liberamente su come e se farci i conti. Non c’è infatti nulla di meno rivoluzionario dell’accodarsi a una “narrazione” edulcorata, priva di rilievi critici, accomodante… Inevitabilmente fasulla.
Pensatore, ok, ma non proprio “marxista”
La sua produzione teorica è vasta, cambia da un periodo all’altro, e una ricostruzione analitica argomentata richiederebbe quanto meno lo spazio di un libro, cosa che eccede ovviamente le intenzioni e le possibilità di un ricordo in tempo reale. Perciò spero che mi possa essere perdonata la sbrigatività assertiva di alcune considerazioni, rinviando ad altro momento eventuali singoli approfondimenti.
Non rientro nelle polemiche storiche sul contributo del filone “operaista” italiano alla movimentazione del pensiero politico comunista di questo paese, spesso svilito a giustificazione teorica delle scelte del Pci. Panzieri, Alquati, Morandi sono stati autentici innovatori, discutibili come tutti i pensatori, ma certamente capaci di stimolare una riflessione sulla realtà della “condizione operaia” nel capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale.
In quel filone e su quei contributi Negri (e Tronti, prima di lui) si è inserito con abilità, “surfando” disinvoltamente su assunti teorici già in gran parte definiti. Il dominio e il sabotaggio resta per molti una pietra miliare nella formazione di una parte consistente della generazione del ’68.
Il suo “rapporto con Marx”, però, è stato – a giudizio non solo mio – una “libera interpretazione”, spesso arbitraria, delle categorie marxiane. Fino alla trasformazione di semplici battute incidentali, scritte da Marx nei suoi appunti, in “categorie” che dovevano illustrare il mondo… secondo Toni.
Esemplare, in questo senso, il suo uso dei Grundrisse in chiave “anti-sovietica”, sorvolando allegramente sul fatto che quei quaderni – sicuramente decisivi per capire molti dei passaggi analitici compiuti da Marx nel suo percorso per arrivare alla sistematizzazione de Il Capitale – fossero stati pubblicati tra il 1939 e il 1941 dalla MEGA, grazie soprattutto all’opera di David Rjazanov. Quindi a Mosca, all’inizio della Seconda guerra mondiale… addirittura sotto Stalin.
Impossibile ripercorrere qui la storia delle discussioni intorno ai Grundrisse, che costituiscono certamente una tappa fondamentale marxiana e come tali vanno studiati. Ma altrettanto certamente negli anni ‘70 Negri è stato tra quanti ne ha proposto una lettura molto “eretica” rispetto ai risultati poi consolidati ne Il Capitale (quanto meno nel primo libro, di cui Marx curò personalmente l’edizione; gli altri due da Engels, co-fondatore della stessa teoria).
Ma è ovvio che contrapporre o dilatare le differenze tra due testi che rappresentano tappe diverse di un unico percorso non è il massimo della correttezza intellettuale…
Per brevità ricordo soltanto il “successo di chiacchiera” goduto all’espressione general intellect, che si può ritrovare in questo paragrafo dei Grundrisse:
“La natura non costruisce macchine, né locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, muli automatici, ecc. Questi sono prodotti dell’industria umana; materiali naturali trasformati in organi della volontà umana sulla natura, o della partecipazione umana nella natura. Sono organi del cervello umano, creati dalla mano umana; il potere della conoscenza, oggettivato.Una notazione che appare quasi marginale e scontata, rispetto all’indagine. Perché è abbastanza difficile per qualsiasi comunità umana far funzionare il processo di produzione sociale indipendentemente dalla «facoltà di pensare e di parlare» o contro le conoscenze – scientifiche tecnologiche, ecc – consolidate. Si può e deve svilupparle, naturalmente, ma a partire da quel che già è noto, verificato, comunicato.
Lo sviluppo del capitale fisso indica in che misura la conoscenza sociale generale è diventata una forza diretta di produzione e in che misura, quindi, le condizioni del processo di vita sociale stesso sono entrate sotto il controllo del general intellect e sono state trasformate in conformità ad esso. In che misura le potenze della produzione sociale sono state generate, non solo sotto forma di conoscenza, ma anche come organi immediati della pratica sociale, del processo di vita reale.”
In un sintagma di due parole, riferite al più generale o generico dei concetti (o a un modo di dire nell’uso abituale in Inghilterra a metà ‘800), si può certo provare a infilare un po’ di tutto, gonfiandolo come una mongolfiera. Ma anche questa non è un’operazione innocente…
Per chiunque abbia provato a studiare qualche parte della produzione marxiana nella forma espositiva finale destinata alla pubblicazione (per esempio, il libro primo de Il Capitale) è palese che il Moro di Treviri fa un uso scientifico e univoco delle “categorie”, al punto da ripeterle nella loro formulazione durante tutta la trattazione, evitando con cura ogni abbreviazione, allusione, vaghezza.
Per capirci: il “capitale produttivo di interesse” (da prestito, insomma) è una figura o categoria diversa dal “capitale produttivo” in generale. E non troverete mai una delle due espressioni usata al posto dell’altra o di altre categorie che pure contengono le parole “capitale produttivo…”.
Visto questo metodo espositivo senza eccezioni, dovrebbe esser chiaro a tutti che se una espressione è stata da Marx usata una volta sola in tutti i suoi scritti (svariati metri cubi di carte, nella maggior parte appunti o versioni “grezze” di studi da completare) quella espressione non è una sua “categoria” analitica, ma poco più di una “battuta” buttata lì per abbreviare la scrittura, un promemoria per se stesso, mentre si tiene ferma l’attenzione sul processo che si sta osservando (“Contraddizione tra la fondazione della produzione borghese [il valore come misura] e il suo sviluppo. Macchine, ecc”, si intitola il capitolo in cui è inserito il paragrafo appena citato).
Marx, del resto, è con Engels il fondatore di una teoria scientifica su come funziona il capitale, ma non l’ha “inventata” con un colpo di fulmine, già completa in ogni sua parte come Minerva dalla mente di Giove. Ha lavorato per decenni, modificando spesso in corso d’opera l’architettura generale del suo edificio teorico, man mano che a lui stesso si chiarivano alcuni processi reali del capitale in azione e la loro precisa interconnessione in un sistema teorico che deve corrispondere al processo reale.
Dunque, se il buon Marx, una sera di metà Ottocento, ha messo lì un general intellect e poi, nel corso dei decenni, non l’ha più ripreso né “rielaborato”, non possiamo noi – gente del XX secolo poi sopravvissuta fino al XXI – farla diventare una “categoria marxiana” con cui colorare questo o quell’aspetto del mondo che abbiamo davanti oggi.
Ma Toni Negri, com’è noto, ne ha fatto uno dei “tratti caratteristici” del proprio modo di violentare Marx (per tentare di andare “oltre Marx”).
Altrettanto può dirsi di un altro cavallo di battaglia della lunga narrativa negriana, quasi sempre incentrata sulla individuazione di un “soggetto spontaneamente rivoluzionario” che non abbisognava di una conoscenza scientifica del modo di produzione, di una teoria rivoluzionaria conseguente, di un’organizzazione adeguata, ecc.
Dall’operaio massa perché inserito come un ingranaggio nel meccanismo infernale della fabbrica – caratteristico della fase più feconda e stimolante dell’”operaismo” italiano, poco prima e contemporaneamente all’esplosione dell’“autunno caldo” – Negri transita in un attimo alla teorizzazione di un altro “soggetto centrale”, che ha perso però molte determinazioni concrete: l’operaio sociale.
Una figura che può stare un po’ dappertutto e che ognuno può riempire come preferisce, in cui “tutte le vacche sono nere”. O meglio, un qualcosa di indistinto che serve da “àncora” fisica per far apparire concreto un discorso decisamente svolazzante.
Fino all’ultima trasfigurazione, all’alba del terzo millennio, le moltitudini, che non hanno più caratteristiche né forma, perse come sono nello spazio spianato dell’Impero senza più confini. Ma ci arriveremo...
La militanza rivoluzionaria
Su questo piano, invece, ci sono ben pochi spazi per interpretazioni benevole dell’”influenza negriana”. Che vive, anche qui, due fasi nettamente diverse.
Non c’è dubbio che tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli ‘80 abbia esercitato un ruolo importante, fondando tra gli altri Potere Operaio. Né possono esserci dubbi , a partire dallo scioglimento dei gruppi extraparlamentari (dal ‘73 in poi), abbia contribuito con grande peso sulla formazione della galassia dell’Autonomia Operaia.
Una galassia protagonista di una stagione di grande conflittualità sociale e politica, molto differenziata al proprio interno, ma complessivamente – e ideologicamente – rappresentata soprattutto dal gruppo ristretto intorno a Negri (con l’ala romana, “i Volsci”, in posizione sempre piuttosto critica).
Si può condividere o meno molto di quel che l’Autonomia Operaia ha prodotto in quegli anni, ma sembra pacifico affermare che il “modello organizzativo” adottato garantiva al ristretto gruppo dirigente il potere di indirizzare politicamente l’insieme, senza le incombenze – e le responsabilità – tipiche di un “vertice”, mentre ogni area territoriale si strutturava in modo più o meno forte.
Quando Negri & co. hanno preso a “flirtare” anche con pratiche armate di una certa rilevanza questa separazione tra “autorità di indirizzo” e “irresponsabilità organizzativa” ha prodotto diversi episodi ben poco commendevoli (i compagni condannati per la rapina di Argelato, per esempio, non ne conservano affatto un buon ricordo).
Ma fu l’inchiesta denominata “7 aprile”, condotta da un magistrato privo di scrupoli sulla base delle illazioni di un collaboratore fornito dal Pci, a creare la confusione più completa.
Negri venne accusato di essere “il capo delle Brigate Rosse” e addirittura l’autore di una delle telefonate decisive durante la prigionia di Aldo Moro.
Un’invenzione pura e semplice, sbirrescamente “utile” solo a produrre qualche decina di arresti. Ma che si fondava sulla “certezza” – senza molte prove, prima che qualche arrestato non non cominciasse a “collaborare” – che “gli autonomi” fossero i responsabili di un gran numero di azioni, diciamo così, “a bassa intensità” (le “notti dei fuochi”, ecc.).
Negri verrà anni dopo condannato solo per le azioni condotte dai militanti che a lui facevano diretto riferimento, e non per altro.
In particolare per essere stato il “mandante” del sequestro per autofinanziamento di Carlo Saronio, a lungo attivista nello stesso gruppo, di ottima famiglia (industriali farmaceutici), morto per l’imperizia di chi aveva il compito di trattenerlo.
Non entro naturalmente nel merito delle accuse. Ricordo bene che nei processi di quel tempo – e di quella stessa Corte – si distribuivano secoli di condanne con criteri all’ingrosso, con ben poca attenzione ai dettagli e alle responsabilità individuali.
Ma so altrettanto bene che in una qualsiasi organizzazione degna di questo nome – qualunque siano i criteri di funzionamento – la “direzione politica” non può dirsi estranea a ciò che i militanti di base o intermedi hanno ritenuto giusto fare. Né che questi ultimi abbiano agito all’insaputa dei vertici.
Quindi il fatto che mi sembra rilevante – e negativo – ancora oggi non è “cosa effettivamente Negri ha fatto o deciso”, ma la sua perpetua pretesa di essere considerato al di sopra e fuori dalla normale pratica quotidiana dell’insieme politico che a lui faceva riferimento. “Innocente” in termini giuridici, ossia irresponsabile secondo quelli politici.
Una deresponsabilizzazione che si è cominciata a vedere fisicamente dal momento della svolta dalla militanza rivoluzionaria alla collaborazione con il potere dominante. Ovvero con lo Stato.
Quel momento l’ho visto dal vivo e comincia a prendere corpo nei giorni successivi alla rivolta nel carcere speciale di Trani (fine dicembre 1980). Passate le 24 ore in cui “il calore della comunità prigioniera” aveva momentaneamente unito tutte le componenti presenti (dai brigatisti ai piellini, agli “autonomi” delle diverse anime, ai detenuti “comuni”), la battaglia contro le forze speciali dei carabinieri e i successivi pestaggi sanguinosi ad opera delle guardie avevano riportato tutti alla dura “normalità”. Eravamo in mano al nemico.
Toni subì un pestaggio violento e “dedicato”, in cui si mescolavano istintive antipatie di classe, anticomunismo viscerale, odio specifico per “quelli famosi” e altre carinerie “normali” per gli agenti di un carcere speciale.
Non fu quello che ne prese di più, certo, ma in certi casi non si sta a sottilizzare o a far classifiche.
È necessario anche ricordare che quella rivolta, in coincidenza con il sequestro del giudice D’Urso, seguita a poche ore di distanza dall’esecuzione del generale dei carabinieri Galvaligi (a capo della sorveglianza esterna delle carceri speciali, Trani compresa), portò alla chiusura definitiva del supercarcere dell’Asinara, il più infame fino ad allora messo in funzione.
Una vittoria parziale ma significativa, insomma, anche se in un fase molto problematica e segnata da una accentuazione feroce della repressione.
Da lì in poi le strade di Toni Negri e di gran parte dei suoi si separarono da quelle degli altri prigionieri politici. Cominciarono a circolare documenti un po’ strambi (il più noto diventò Do you remember revolution?, quasi un “addio alle armi”), bizantine differenziazioni che ben presto si sarebbero trasformate nella solita distinzione tra “prigionieri cattivi” (quelli che resistevano, solo successivamente chiamati “irriducibili”) e “semi-buoni”.
Presero forma prima le “aree omogenee”, ossia gruppi di prigionieri che venivano trasferiti in carceri “normali”, senza le notevoli restrizioni di quelle “speciali”.
A seguire, l’”omogeneità” precipitò in “movimento della dissociazione”, finalizzato ad ottenere una legge che garantisse robusti sconti di pena per chi ammetteva i propri reati, facesse pubblica ammenda sugli “eccessi” di una generazione, mentre su tutti gli altri prigionieri politici calava la cortina di ferro dell’”articolo 90” – l’ultimo del Codice penitenziario, che annullava tutti i precedenti ottantanove.
In quel contesto maturò anche la sua candidatura alle elezioni politiche nelle liste del Partito Radicale (era possibile, non avendo ancora fin lì subito alcuna condanna), e quindi l’ingresso in Parlamento con la pattuglia di Marco Pannella, allo scopo – veniva detto – di facilitare la realizzazione dell’agognata legge pro “prigionieri buoni”.
Le cose non andarono benissimo, i reazionari (nella Dc e nel Pci) scalpitavano, le condanne – anche agli “aspiranti dissociati” – fioccavano regalando secoli di carcere e Negri stesso vide la possibilità concreta di essere spogliato dell’immunità parlamentare e quindi essere nuovamente arrestato.
Se ne andò prima che avvenisse, e non tutti i suoi seguaci in carcere la presero benissimo. Ma l’agognata legge per i “dissociati” andò avanti comunque, seppur più lentamente e con quel tanto di “paletti” supplementari che la resero quasi una seconda legge sui “pentiti” (di “nuove rivelazioni” a quel punto – 1987 – era impossibile farne, bastava spesso confermare le proprie responsabilità già testimoniate da un “pentito” e stracciarsi le vesti q.b.).
Non è una mia interpretazione malevola. Ci sono i verbali di interrogatorio, scritti nel linguaggio questurino che non permette troppi voli pindarici e arzigogoli semantici. Perché quando “a domanda risponde”, l’imputato deve essere chiaro. Altrimenti ne seguono altre, fin quando non resta da dire un “sì” o un “no”…
Un rivoluzionario, davanti al giudice, può scegliere di tacere oppure di difendersi (con un buon avvocato), nella misura in cui è innocente rispetto alle accuse mossegli. Di “terze vie” ne sono state tentate molte, ma non ne ricordo di funzionanti, praticamente, Ancor meno di onorevoli…
Da lì in poi il Negri “rivoluzionario” scomparve per sempre, anche se restò nell’aria la fama di “cattivo maestro” che solleva ancor oggi il sopracciglio dei reazionari, la nostalgia di molti reduci e magari qualche curiosità in chi è arrivato al mondo molto dopo.
L’Impero (“del bene”?)
Nella fase post-dissociazione l’impostazione filosofica non marxista di Negri diventa più trasparente. Resta l’enfasi tonitruante, il parlare da profeta che non ammette confronto, la profusione di immagini più fascinose che illuminanti, la vaghezza dei fenomeni concreti posti a fondamento di obiettivi e strategie, a volte pure la rivendicazione di un “comunismo” declinato in termini di fantasiosa utopia… ma il gioco diventa più facile da scoprire.
Se si vuole, certo. I laudatores, totalmente acritici, continuano a non mancare e si sperticano in genuflessioni.
È Impero il suo ultimo successo, sia “di movimento” sia in libreria, che pretende di “sussumere” da un lato il movimento no global che stava in quel periodo attraversando il mondo e dall’altro l’egemonia statunitense sul pianeta, al termine dell’era clintoniana, in un connubio apparentemente inspiegabile in termini razionali.
Ma tutto si tiene, nella narrativa negriana, perché “il capitale lavora per noi”, come diceva – con altri orizzonti – ai tempi dell’antagonismo radicale. Una banalizzazione pericolosa del concetto marxiano che individua nell’affermarsi del capitale una “forza progressiva” che demolisce il vecchio mondo pre-industriale, nonché tutte le istituzioni relative e la “cultura generale”. Una forza che, insomma, affermandosi sul mondo produce anche le condizioni oggettive per il proprio stesso superamento.
Una banalizzazione che vernicia di “progresso” il passaggio alla cosiddetta “globalizzazione”, ossia alla lunga fase dell’incontrastata egemonia statunitense sul mondo (oggi palesemente in crisi), ma che regge per pochissimo tempo.
Quando le elezioni presidenziali portarono alla Casa Bianca, pochi mesi dopo, George W. Bush – che certo poteva essere accusato di tutto, tranne che di essere espressione delle forze del “progresso” – al povero Negri non restò che lamentarsi del “golpe” avvenuto nell’Impero.
Più seriamente, la critica a quella narrativa venne per esempio da Giovanni Arrighi, che – pur condividendo benevolmente le “intenzioni” del testo – ne contestò i fondamenti utilizzando gli argomenti che padroneggiava da maestro.
“L’asserzione di Hardt e Negri relativa a una progressiva riduzione della distanza tra Nord e Sud è dunque chiaramente falsa. Non tengono neppure le loro affermazioni in merito alla direzione e all’estensione dei flussi contemporanei di capitale e lavoro.Mi sembra molto importante questa critica porta in tono persino amichevole, perché individua alcune caratteristiche centrali del “metodo” sempre usato da Negri (e imitato dai seguaci): noncuranza per i dati empirici, soprattutto quelli brutalmente economici; assolutizzazione di singoli fenomeni utili a sostenere le proprie tesi e silenziamento di quelli che le smentiscono.
In primo luogo, esagerano molto nel dire che tali flussi sono senza precedenti. Questo è vero in particolare quando definiscono “lillipuziane” le migrazioni dell’Ottocento in rapporto a quelle di fine Novecento. In realtà, in proporzione, quelle ottocentesche furono molto più ampie, specialmente se si includono le migrazioni dall’Asia e all’interno dell’Asia stessa.
Inoltre, è vera solo in parte anche l’affermazione che il capitale speculativo e finanziario ha continuato ad andare “dove il costo del lavoro è più basso e dove è più alta la capacità amministrativa di garantire lo sfruttamento”.
È vera soltanto se manteniamo uguali un mucchio di altre cose, e in particolare il reddito pro capite nazionale. Ma gran parte delle altre cose – e soprattutto il reddito pro capite nazionale – non sono per niente uguali nelle diverse regioni e giurisdizioni del mondo.
Ne consegue che la fetta di gran lunga maggiore dei flussi di capitali avviene tra i paesi ricchi (dove il costo del lavoro è relativamente alto e la forza amministrativa in grado di garantire lo sfruttamento è relativamente bassa), e solo una quota proporzionalmente molto minore di capitali passa dai paesi ricchi a quelli poveri.
Queste non sono le sole affermazioni di fatto che, nelle pagine di Empire, si rivelano false a un’osservazione ravvicinata. Eppure esse sono tra le più decisive ai fini della credibilità sia della ricostruzione delle tendenze in atto, sia delle conclusioni politiche contenute nel libro.”
La considerazione sulle dimensioni dei fenomeni migratori, per dirne una, rivelano per di più una visione del tutto “occidentalo-centrica”, che fa chiudere gli occhi su quanto è avvenuto o avviene nel resto del mondo.
Ma come si può prendere sul serio un pensiero politico che fa volentieri a meno dell’analisi concreta della situazione concreta (i dati e i fenomeni reali) e tratteggia impressionisticamente le evoluzioni possibili di una realtà che andrebbe modificata tramite l’azione politica progettuale? Che progetto politico può essere, in altri termini, quello che non conosce né vuole riconoscere il reale com’è? Come può aiutare a cambiare davvero il mondo una visione che lo “racconta” invece di capire com’è fatto?
È questa, in definitiva, la critica finale che Arrighi muove a Negri e che ripropongo all’attenzione dei compagni che vogliono capirne di più, senza affidarsi alle romanticherie mitologiche dei “come eravamo”, redatti secondo la regola del parce sepulto.
“L’ottimismo di Hardt e Negri nel ritenere che la globalizzazione apra nuove possibilità di liberazione della moltitudine dal bisogno e dall’oppressione poggia largamente sul loro assunto che, sotto l’Impero, il capitale tende a una doppia equalizzazione delle condizioni di esistenza della moltitudine: l’equalizzazione derivante dalla mobilità del capitale dal Nord al Sud e quella derivante dalla mobilità del lavoro dal Sud al Nord.Non ci sarebbe molto da aggiungere, sul piano teorico e concettuale. Ma può risultare illuminante un evento concreto che chiarisce in modo lampante in che modo Negri abbia preso lucciole per lanterne tratteggiando il presunto “progressismo” della cosiddetta globalizzazione.
Ma se questi meccanismi non funzionano – come sembra avvenire per ora – la strada verso la cittadinanza globale e verso un reddito garantito per tutti i cittadini può rivelarsi molto più lunga, sconnessa e piena di insidie di quanto Hardt e Negri vorrebbero farci credere”.
Nella tarda primavera del 2005 Francia e Olanda tennero un referendum popolare per approvare il progetto di “costituzione europea”, una bozza di trattato elaborata nella relazione Méndes de Vigo-Leinen, già approvata dal Parlamento europeo ma istituzionalmente bisognosa di ratifica da parte degli Stati membri.
Un testo che appariva più un trattato commerciale che non una vera Costituzione, contenente buona parte dei “pilastri” istituzionali poi approvati con singoli trattati.
Negri, ormai residente a Parigi, aveva caldeggiato il voto per il “Sì” da parte della sinistra locale.
Entrambi i referendum registrarono la nettissima vittoria del “No”. Della “costituzione europea” non si parlò più. Di far votare i popoli sull’architettura istituzionale della UE, neanche.
Ce n’è di distanza da Il dominio e il sabotaggio, non vi pare?
Fonte
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