La riunione notturna dei 27 capi di stato e di governo dell’Unione Europea si è chiusa nel più classico stile di Bruxelles. Con una pagliacciata, ma pericolosa.
Si doveva decidere sull’inizio del percorso di adesione dell’Ucraina alla UE e sull’assegnazione alla Moldova dello status di “paese candidato”.
L’Ungheria di Viktor Orbàn era l’unico paese contrario, per una lunga serie di motivi (alcuni razionali, altri di puro interesse nazionalistico), ed ha trovato la scappatoia per non dover porre il veto e attirarsi così gli strali – e le ritorsioni – degli altri 26.
Orbàn, al momento del voto, se ne è uscito dalla sala commentando negativamente la decisione. Al tempo stesso ha lanciato una rassicurazione alla sua base elettorale interna: “Ci saranno circa 75 occasioni in cui il governo ungherese potrà fermare questo processo“, ricordando la complessità dei meccanismi decisionali europei.
Così la decisione stessa è passata senza opposizione formale – questo tipo di scelte vanno fatte all’unanimità – e quindi è ufficialmente valida, anche se con un margine di incertezza sul futuro.
E infatti subito dopo, discutendo della revisione del Quadro finanziario pluriennale, lo stesso Orbàn ha posto il veto alla concessione di altri 50 miliardi di aiuti a Kiev. Il che, se non blocca una futura erogazione, certo rallenta i tempi.
“Torneremo sull’argomento all’inizio di gennaio» in occasione di un nuovo vertice, ha dichiarato nel cuore della notte il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.
“Ci sono 26 Paesi che hanno dato il loro via libera. Al momento non c’è un accordo con l’Ungheria, ma sono fiducioso che ci riusciremo l’anno prossimo”, ha aggiunto il primo ministro olandese Mark Rutte (premier uscente, bisogna ricordare, visto che il suo successore è l’ultradestro Wilders).
E i tempi, in piena guerra, sono importanti. Tutto il mondo, e persino l’Occidente che l’ha armata e sostenuta finora, ha capito che la giunta nazigolpista ucraina non vincerà mai il conflitto con la Russia. E che sul campo l’offensiva è tornata completamente in mano a Mosca.
In più, l’amministrazione Biden si è vista bloccare dal Congresso (in mano ai repubblicani) l’erogazione di altri 60 miliardi di aiuti a Kiev.
Il risultato è dunque chiaro: la spinta occidentale a sostegno dell’Ucraina, dopo la fase della “stanchezza”, sta arrivando a quella dell’“esaurimento”.
Gli Stati Uniti, che il prossimo novembre potrebbero ritrovarsi di nuovo Donald Trump alla Casa Bianca, non riescono più a nutrire la sempre più affamata compagine di Kiev. E l’Unione Europea, senza neanche rendersi bene conto delle conseguenze strategiche delle proprie decisioni, rischia di ritrovarsi a breve come principale sponsor militare di Kiev.
L’apertura del processo di adesione alla UE, infatti, crea la possibilità che in tempi relativamente brevi – molto più veloci, comunque, di quelli che sono stati necessari per altri paesi – Kiev possa appellarsi ai diversi trattati che regolano l’Unione.
Tra questi c’è anche la “Clausola di difesa reciproca” che, all’art. 42, stabilisce che i paesi dell’UE sono obbligati ad assistere uno Stato membro “vittima di un’aggressione armata sul suo territorio“.
Questa clausola è stata invocata una sola volta, dalla Francia, in occasione dell’ondata di attentati subiti alcuni anni fa, ma di fatto poi estesa anche agli interventi militari di Parigi nel Sahel.
È evidente in modo solare che se Kiev chiedesse un intervento militare congiunto in propria difesa – come certamente farebbe, una volta maturate le condizioni “burocratiche” per poterlo chiedere – tutti i paesi della UE si ritroverebbero in guerra con la Russia. E a quel punto anche gli Usa dovrebbero essere della partita e mettere perciò “boots on the ground”.
Solo degli idioti che vanno avanti “applicando regole” decise in altri momenti, in base a rapporti di forza momentanei tra i diversi paesi membri, o addirittura in base agli interessi di brevissimo periodo di governo nazionali in difficoltà, possono evitare di porsi la domanda più semplice: dove diavolo stiamo andando?
Ma per quanto semplice possa sembrare, questa domanda non può avere risposte dalla classe politica continentale meno “dotata” – per usare un eufemismo – degli ultimi 80 anni.
Abbiamo spesso dovuto ricordare come questi “leader europei” siano stati selezionati in base a criteri da “manuale Cencelli” (tot posti in tot istituzioni, a seconda del peso dei vari paesi), e con l’unico obiettivo di realizzare l’equilibrio più adatto a soddisfare l’esercito dei lobbisti che assedia Bruxelles. L’esempio di Ursula von der Leyen, in questo senso, è paradigmatico.
Sono tutto, insomma, meno che “statisti europei”. Sono privi di visione, senza alcuna autonomia strategica, subordinati all’alleato statunitense e condizionati dalle multinazionali – finanziarie o industriali – più potenti.
Dunque le loro scelte sono limitate all’andare avanti come prescritto dal sistema di regole deciso prima di loro. A occhi chiusi e passo incerto, sicuramente, ma senza dubbio verso il baratro.
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