Ormai una decina d’anni fa, spulciando fra i dischi e le cassette dei
miei genitori, ricordo il mio stupore nel vedere come, in mezzo a decine
di 45 giri degli anni 60, spuntasse una musicassetta del 1981, "La voce
del padrone", di Franco Battiato.
Perché mai i miei genitori, rimasti a Nico Fidenco e i Dik Dik,
l’avevano comprata? La risposta è semplice, anche se ho impiegato
qualche anno per scoprirlo: nei primi anni '80 Battiato era diventato
qualcosa di imprescindibile, per chiunque ascoltasse un po’ di radio o
vedesse un po’ di tv.
Stupore doppio: come fu possibile che un
disco di canzoni pop così raffinate e dai testi così cervellotici
riuscisse a vendere oltre un milione di copie (primo nella storia della
discografia italiana)? La risposta, in questo caso, è ancora più
semplice: ci si trova di fronte a sette canzoni praticamente perfette e
intelligenti e, cosa non da poco, orecchiabili e persino ballabili.
Tutte le carte in regola (qualcuno più colto direbbe "piani di lettura")
per piacere a chiunque, insomma.
In verità "La voce del padrone"
è il frutto di un percorso che Battiato aveva intrapreso fin
dall’inizio degli anni '70: dopo sette dischi elettronici e sperimentali,
aveva virato verso il pop nel 1979 con "L’era del cinghiale bianco" e
poi, l’anno seguente con "Patriots". Seppur ottimi, questi due dischi
non possiedono ancora quella compattezza, semplicità, limpidezza che
consentiranno poi a Battiato di sfondare definitivamente.
Musicalmente
il disco si presenta come "pop", ma riaggiornato con spruzzate di
quello che la scena musicale degli anni precedenti aveva prodotto, dal
punk all’elettronica, dalla new wave fino alle trovate "classicheggianti" dovute in gran parte alla
collaborazione stretta con il maestro Giusto Pio, autore delle musiche
insieme allo stesso Battiato.
I testi sono un geniale pastiche di letteratura, musica, pubblicità, politica, filosofia, religione... e non ci è dato sapere fino a che punto si tratti di puro nonsense
o di sapienti accostamenti. Certo è che Battiato non ha paura a
mischiare citazionismo alto e basso: dai "Minima moralia" di Adorno (che
in "Bandiera bianca" diventano "Immoralia") ai "Figli delle stelle" di Alan Sorrenti, dal "Cantami o diva" a "Il mondo è grigio/ il mondo è blu", di Nicola di Bari.
La
critica sociale è spietata e alcuni testi, letti oggi, anticipano
lucidamente e clamorosamente gli anni '80, cosiddetti del "riflusso", con
il rampantismo, la crisi delle ideologie e la rincorsa al denaro e al
benessere ("Siamo figli delle stelle/ pronipoti di sua maestà il
denaro"): d’altronde lo sventolio della bandiera bianca dell’omonima
canzone (anch’essa una citazione, dall’"Ode a Venezia" di Arnaldo
Fusinato, del 1849) non è altro che un segno di resa da parte del
cantautore nei confronti della società, qualcosa di simile alla metafora
del ritorno del "cinghiale bianco" di un paio di album anteriore. Non
mancano nemmeno la denuncia sociale, seppur velata d’ironia ("...quei
programmi demenziali/ con tribune elettorali", "Quante squallide figure
che attraversano il paese/ Com’è misera la vita negli abusi di potere") e
le punzecchiature, anche in questo caso più sarcastiche che convinte,
verso la musica ("A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata/ A Vivaldi
l’uva passa che mi dà più calorie", "...e sommersi soprattutto da
immondizie musicali", "Non sopporto i cori russi la musica finto-rock la
new wave italiana il free jazz punk inglese/ neanche la nera
africana").
È grazie a questo mix che Battiato scala le
classifiche, ma convince anche la critica, sebbene nell’album, oltre ai
tre brani più celebri e tuttora indimenticati ("Bandiera bianca",
"Cuccurucucù" e "Cerco un centro di gravità permanente"), siano presenti
alcune canzoni più raffinate e meno giocose, come "Gli uccelli",
elegante e poetica descrizione del volo, "Segnali di vita", riflessione
sul tempo e sullo spazio che anticipa molto del Battiato che verrà, e
"Sentimento nuevo", pezzo atipico del suo repertorio, praticamente un
inno all’amore fisico, seppur disseminato di citazioni classiche.
Qualcuno
potrà storcere il naso vedendo questo disco inserito nelle pietre
miliari, ed effettivamente una precisione va fatta: "La voce del
padrone" è un disco che forse non possiederà alcuna importanza storica
né sociale per il mondo, ma ne ha indiscutibilmente, e parecchia, per la
storia musicale e sociale del nostro paese. Franco Battiato non
riuscirà più a replicare un successo simile: già l’album successivo,
"L’arca di Noè", sembra una copia sbiadita. Meglio andrà successivamente
(ad esempio con "Caffè de la paix" e "L’imboscata"), con dischi però più cervellotici, che piaceranno più alla critica che al pubblico.
"La voce del padrone" resta un esempio quasi unico, nella discografia italiana, di album che è riuscito a mettere d’accordo tutti. Ed è sufficiente un ascolto, anche oggi, per capire immediatamente il perché.
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