In pochi giorni tutte le principali case automobilistiche europee hanno comunicato ai mercati la propria crisi. Volkswagen licenzia – per ora soltanto i precari – ma si prepara a chiudere due o tre stabilimenti in Germania (quelli all’estero non fanno notizia, pare). Bmw è costretta a richiamare un milione e mezzo di vetture già vendute per problemi di fabbricazione. Persino Mercedes ha lanciato un profit warning, per il drastico calo di vendite (in Cina e non solo) che anche il marchio più lussuoso dell’automotive tedesco ha dovuto registrare.
Più tradizionalmente Stellantis si sta muovendo per trovare un nuovo amministratore delegato al posto di Carlos Tavares, visto il mezzo milione di auto invendute che arrugginiscono sui suoi piazzali.
Si potrebbe andare avanti a lungo, elencando anche i problemi di Toyota, Ford, General Motors, Hyundai e Renault, più altri marchi minori, ma il quadro non cambia. I fabbricanti occidentali (comprendendo anche il Giappone) hanno incontrato un limite insuperabile nel divario crescente tra una capacità produttiva sempre maggiore e una domanda solvibile sempre minore, specialmente in Usa ed Europa. Mentre altri mercati di grandi dimensioni – India, Brasile, ecc. – ricorrono alla produzione locale, scalzando i marchi di importazione.
Inutile imputare all’auto elettrica e alla “transizione energetica” la responsabilità della crisi. È vero che i modelli venduti in Occidente costano troppo, hanno poca autonomia e tempi lunghi per ricaricare le batterie, ma altrove (in Cina, per esempio) stanno velocemente soppiantando i veicoli con motore a combustione interna. Costano meno, camminano di più, la politica di quel governo in materia è decisamente più chiara, soprattutto stabile nel medio periodo.
Qui in Occidente la “transizione green” è stata pensata e impostata come occasione per le aziende di fare profitti sostituendo il parco automobilistico esistente. Ma senza alcuna politica mirata a facilitare il passaggio. Anzi. L’idea è sempre stata “i consumatori se la pagano” e basta. Fino a spaventarsi davanti alla necessità di investimenti adeguati per “cambiare sistema di autotrazione” e quindi fare pressione sui governi e sulla UE per fermare il passaggio al “green”.
Una marcia indietro disastrosa. Due delle più grandi aziende produttrici di batterie al mondo, Lg Energy Solution e Sk On, sono in difficoltà economiche. E anche Northvolt, la grande speranza dell’Europa, annuncia una revisione strategica. Mentre le cinesi Catl e Byd prosperano più che mai...
Ma c’è qualcosa di più, e sicuramente di più grave, se anche le auto “tradizionali”, benzina o diesel, sono oggi meno vendute.
Il problema è che i consumatori occidentali sono sempre di meno e sempre più poveri in virtù di due discutibilissimi “successi” del capitalismo neoliberista: il calo demografico e i bassi salari. Due processi peraltro strettamente intrecciati, perché se i salari sono troppo bassi le imprese festeggiano al momento di pagare gli stipendi, ma piangono quando devono vendere il prodotto. Dall’altro lato del bancone immaginario, infatti, stanno esattamente le stesse persone.
E allora, il “successo” di aver creato un paio di giovani generazioni che vivono di contratti precari e salari da fame porta con sé il disastro del calo demografico.
Cento o più anni fa, infatti, quando l’auto ha cominciato a diventare una merce di massa, il “paniere delle merci-salario” – quelle indispensabili per far riprodurre la forza lavoro – era estremamente risicato: qualche straccio per vestito, un solo paio di scarpe da risuolare all’infinito, una minestra per sfamare moglie e figli (“dove si mangia in quattro si mangia anche in cinque o sei”), qualche spicciolo per l’affitto della catapecchia in cui si viveva.
I bassi salari, insomma, paradossalmente erano sufficienti per sopravvivere in una condizione di miseria di massa, alimentando anche una “propensione alla natalità” alta per molte ragioni (l’inesistenza di metodi anticoncezionali affidabili, il predominio delle ideologie religiose, ecc.).
L’evoluzione sociale e le grandi conquiste operaie che hanno poi portato al welfare state, oltre che a salari dignitosi e diritti sul lavoro, hanno anche allargato notevolmente il “paniere delle merci salario”, che ora comprende affitto o mutuo che se ne mangia almeno un terzo, i pannolini, il latte in polvere, l’automobile, la retta dell’asilo, le tasse di iscrizione alla scuola e i libri di testo, i riscaldamenti, le bollette e l’infinita lista delle “necessità” indispensabili per tirar su un figlio per oltre venti anni.
Tutte cose che, tra l’altro, hanno spinto “il mercato” lungo una crescita apparentemente inarrestabile, ma che richiedono salari sempre adeguati a coprire questa marea di “spese minime indispensabili”, altrimenti il ciclo si inverte e la “natalità” scende.
E infatti la media della natalità è velocemente scesa verso un solo figlio a famiglia, perché il secondo o il terzo sarebbero un costo eccessivo.
Per le generazioni precarie è addirittura troppo farne uno, visto che spesso devono ricorrere a nonni e genitori per integrare il reddito.
Questi ultimi, che viaggiano ormai tra i 60 e gli 80 anni, sono già nella fascia di età che cambia meno spesso la macchina, per le mutate (e ridotte) esigenze di mobilità. Ma in più si ritrovano a dover gestire il proprio reddito (in diminuzione, visto il contemporaneo attacco alle pensioni, compresa la riduzione dell’indicizzazione all’inflazione anche per quelle medio-basse, tipo i 1.800 euro mensili netti degli ex insegnanti) dovendo decidere tra spese obbligate – tra cui prendono sempre più spazio le cure sanitarie, dal costo in crescita esponenziale, vista la distruzione radicale sella sanità pubblica – e quelle per il “welfare familiare” per figli e/o nipoti.
Insomma, il reddito della popolazione da destinare all’acquisto di auto nuove è in drastica diminuzione dappertutto, in Occidente, non solo in Italia. La coperta della “domanda” è diventata più che corta, striminzita.
Il mercato dell’usato, negli ultimi anni, era letteralmente esploso, causando un notevole aumento dei prezzi. Ma anche questo ora comincia a dare, come si dice in gergo, “segni di stanchezza”.
Si potrebbe pensare che ci si può (e si deve) dispiacere per gli operai metalmeccanici che perderanno il posto di lavoro, ma in fondo non sarà poi un dramma se ci si tiene un’auto un po’ vecchia riparandola qualche volta di più.
Ma il problema degli operai è in questo caso il problema del capitalismo occidentale, che nell’ultimo secolo o poco più ha prosperato intorno al pilastro della produzione automobilistica e dell’immenso indotto che è stata capace di trainare (dai carrozzieri alle assicurazioni, dal turismo alla ristorazione, ecc.).
C’è una campana che sta suonando forte, e sta sulle nostre teste...
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