Nei giorni scorsi aveva fatto rumore l’acquisto del 9% di Commerzbank, il secondo istituto di credito tedesco, da parte di Unicredit, che insieme a IntesaSanPaolofa da asse portante del sistema bancario italiano.
Tanto più che Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, aveva fatto chiaramente capire di voler puntare al 30%, quota azionaria “di controllo” che conferirebbe alla banca italiana la guida della banca tedesca. Una fusione di fatto, insomma, a guida italica...
Non ci sarebbe nulla da stupirsi, in una regime capitalistico liberista, dove i capitali fanno quello che vogliono, senza che i governi provino neanche a “dar fastidio alle imprese” (copyright di Giorgia Meloni). Gran parte del patrimonio industriale italiano, costruito peraltro dallo Stato nei decenni dell’IRI, è passato di mano in mano fino a scomparire quasi del tutto (Italsider-Ilva, Alitalia, Telecom, le cinque banche di interesse nazionale, ecc.).
Facile a dirsi, più complicato farlo se – come nel caso di Commerzbank – un governo, quello di Berlino, detiene il 12% dell’istituto, esercitando di fatto la “golden share”, ossia un potere di veto o orientamento (pubblico) che i trattati europei teoricamente vietano, se non per casi eccezionali come crisi improvvise.
E infatti, dopo la sorpresa iniziale (pare che l’acquisto del 9% non fosse stato comunicato preventivamente, anche se le “manifestazioni di interesse” da parte Unicredit erano partite già dal 2017, sull’onda della profonda crisi che ha colpito le banche tedesche alle prese con le conseguenze di mosse speculative azzardate sui “derivati” statunitensi) il governo di Berlino ha fatto molto chiaramente capire di non essere disposto a vendere il proprio 12% ad un solo investitore, per di più già presente in modo così forte nella banca.
Teoricamente la preferenza andrebbe per una vendita frammentata a più investitori, impedendo così – almeno per qualche tempo – una eccessiva concentrazione di potere in una sola mano.
Il niet del governo ha smosso anche il management di Commerzbank, con l’attuale amministratore delegato che annuncia la volontà di non restare dopo la fine del suo mandato (nel 2025), mentre la responsabile finanziaria Bettina Orlopp – incaricata di condurre i colloqui con UniCredit, nonché potenziale successore dell’attuale a.d. Manfred Knof – avrebbe detto chiaramente che la banca tedesca “non ha bisogno di UniCredit” anche perché sul piano della ristrutturazione “c’è ancora molto da fare, vogliamo generare il costo del capitale al massimo entro il 2027 e siamo più che mai convinti di poterlo fare”.
Per essere ancora più chiara, Orlopp ha aggiunto che vorrebbe che lo Stato tedesco rimanesse per il momento nella banca con il suo 12%. “È importante, perché credo che prima ci sia bisogno di un po’ di pace e tranquillità”.
Insomma: la seconda banca tedesca deve restare in mani tedesche.
Le ragioni addotte sono diverse. Si va dai timori di esporre un istituto importante ai sempre sbandierati problemi del debito pubblico italiano (Unicredit, come quasi tutte le banche di questo paese, possiede grandi quantità di titoli di stato emessi dal Tesoro), fino alle maggiori difficoltà che potrebbe incontrare le imprese tedesche bisognose di prestiti (fin qui evidentemente concessi con manica larga e secondo un criterio “nazionalistico”).
Una riprova che l’Unione Europea, così come è stata costruita – e in base agli interessi sui cui è stata costruita – non solo funziona male e in modo nazionalisticamente selettivo (con l’ovvia differenza tra “chi pesa” e chi no), ma entra sempre più di frequente in contraddizione con i “valori” che dice di voler difendere/affermare. Addirittura con la “libertà di impresa” – l’architrave fondamentale dell’ideologia liberista – se è in ballo il suo controllo.
Figuriamoci cosa può accadere quando sono in gioco gli interessi e la sopravvivenza delle classi popolari...
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