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20/09/2024

Le tensioni tra Usa e Cina e lo stato di salute del capitalismo mondiale

di Raffaele Sciortino

Benjamin Bürbaumer, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation, Paris, La Découverte, 2024

Nella letteratura sullo stato delle relazioni sino-americane non è affatto facile ritagliarsi uno spazio. A maggior ragione se il focus non è su aspetti particolari ma sul quadro complessivo, nello spazio e nel tempo, dello scontro che va delineandosi tra Stati Uniti e Cina Popolare. Ciò vale in particolare per gli studi europei non in lingua inglese, sui quali pesa la scarsa attenzione per un tema che il pubblico continentale percepisce sì come cruciale ma tende a vivere da spettatore passivo. Gioco forza, data la crescente irrilevanza della Unione Europea nel quadro economico e geopolitico mondiale. Rappresenta una parziale eccezione la Francia, per ragioni che rimandano vuoi alle mai scomparse velleità geopolitiche vuoi alla percezione del declino interno e internazionale del paese.

Dopo la pubblicazione tra il 2022 e il 2023 di alcuni lavori in lingua francese sulla competizione tra le due potenze[1], è da poco uscito su questo tema il lavoro di un giovane studioso di economia politica internazionale, Chine/ Ètats-Unis, le capitalisme contre la mondialisation di Benjamin Bürbaumer. Mentre fin qui il focus delle analisi si è per lo più incentrato sull’ambito della politica internazionale, ciò che caratterizza in positivo questo studio è il rifiuto esplicito di un approccio che fa della geopolitica una dinamica separata e in ultima istanza decisiva incentrata oltretutto sulla relazione tra attori nazionali. La tendenza allo scontro Usa/Cina parla innanzitutto dello stato di salute del sistema capitalistico mondiale e della parabola paradossale della globalizzazione (che gli autori francesi chiamano mondializzazione). Paradossale a misura che il “nodo mondializzazione-finanziarizzazione” – il cui asse, vedremo, si è costituito proprio intorno alla relazione Stati Uniti/Cina – ha sì permesso al capitalismo mondiale la fuoriuscita dalla crisi degli anni Settanta, ma alla condizione di innescare l’ascesa di un potente rivale del capitale occidentale che è oggi arrivato a contestare la “supervisione” statunitense della mondializzazione stessa.

Di qui lo scontro che si va delineando sotto i nostri occhi e che per l’autore configura una lotta per l’egemonia alla scala del sistema mondiale: la spinta di Pechino per un ordine internazionale alternativo di contro alla reazione di Washington per il mantenimento dell’ordine esistente. Uno scontro che mette a rischio la stessa mondializzazione non per fattori esogeni, bensì per la dinamica conflittuale stessa del capitalismo. Di qui il titolo a suo modo provocatorio del libro.

Traspare da questa ipotesi centrale il riferimento marxista dell’autore, che da un lato punta a un’attenta analisi degli elementi strutturali della mondializzazione (in particolare, i flussi degli investimenti esteri di capitale, diretti e finanziari, e non semplicemente gli scambi commerciali), dall’altro si serve del concetto gramsciano di egemonia trasposto sul piano delle relazioni internazionali per incastonare queste ultime nelle dinamiche di classe interne agli stati nazionali in gioco. Il connubio di questi due elementi permette di sfuggire all’uso invalso dello strumentario gramsciano, oramai neutralizzato nella disciplina delle relazioni internazionali sotto la vuota etichetta di soft power o ridotto a mera critica culturale.[2] Ma permette altresì di evitare un’attitudine analitica e politica tipica di buona parte della critica francese (e non solo) della mondializzazione, letta come frutto della sola intenzionalità politica e/o come produzione del “discorso neoliberale”.[3] Ciò non toglie che questo ancoraggio marxista risulta a volte come ingabbiato in un apparato concettuale che sembra rimandare alla scuola francese della regolazione e, più in generale, a un approccio di International Political Economy fermo alla combinazione di politica ed economia e dei livelli di analisi internazionale e interno più che teso a investigarne i nessi intrinseci nei termini della legge del valore dispiegata a scala mondiale.

Proviamo allora a ripercorrere il ragionamento di Bürbaumer e man mano porne in luce meriti e criticità.

Innanzitutto, si pone la questione di cosa deve intendersi per mondializzazione nel suo rapporto al capitalismo. E la risposta sta in una stimolante genealogia per fatti stilizzati della “fabbricazione americana della mondializzazione” (titolo del primo capitolo che rievoca The Making of Global Capitalism di Sam Gindin e Leo Panitch, un testo degli anni Dieci che ha avuto una certa importanza nel dibattito radical sul tema). Il punto di innesco della crisi dell’ordine fordista precedente viene individuato nell’insubordinazione operaia e popolare di quello che è stato chiamato il Lungo Sessantotto. Questo fattore unitamente all’acuita concorrenza inter-capitalistica, in particolare dovuta alla ripresa delle economie giapponese e tedesca, e alla caduta dell’efficienza del capitale porta alla “crisi strutturale del capitalismo statunitense” (pp. 25-6) manifestata dalla caduta della profittabilità delle grandi imprese e dal graduale esaurimento del paradigma tecno-economico incentrato sul binomio automobile-petrolio. La reazione della borghesia Usa al rischio declino si sostanzia negli anni Settanta nel prevalere della sua frazione “transnazionale” volta a rilanciare gli investimenti esteri e il commercio internazionale e dunque a smantellare, in patria e soprattutto all’estero, i limiti alla libera circolazione di capitali e merci. Non senza l’aiuto dello stato americano, ha così potuto superare le resistenze interne del capitale nazionale più orientato al protezionismo nonché integrare nei nuovi circuiti dell’internazionalizzazione e legare a sé le frazioni di borghesia europea e giapponese (in nota l’autore recupera a questo riguardo il concetto di “borghesia interna” di Poulantzas, che rimanda al dibattito marxista degli anni Settanta sulla caratterizzazione del nuovo “super-imperialismo” americano)[4]. Per questo risultato è stato cruciale secondo Bürbaumer – ecco la nota “gramsciana” aggiornata alle analisi sulla borghesia transnazionale di Stephen Gill sulla Commissione Trilaterale e quelle più recenti di Van Appeldoorn-de Graaf sulle reti dell’élite “corporate” statunitense – il ruolo degli emergenti think tank globalisti, veri e propri organi di pianificazione politica per l’elaborazione della nuova Grand Strategy americana.[5] Ciò si è combinato con l’offensiva anti-operaia in Occidente e l’estensione a palla di neve della deregulation ai paesi del Terzo Mondo, piegati dalla trappola del debito estero e dalle conseguenti terapie choc. Il tutto ha avuto inizio già con le amministrazioni americane degli anni Settanta, si è rafforzato sotto Reagan ed è culminato nel decennio clintoniano, non senza l’apporto della caduta del blocco cosiddetto socialista.

Questa ricostruzione incrocia la tesi “smithiana” di Robert Brenner dell’accresciuta competizione inter-capitalistica anni ’60-’70 con la tesi della diminuita redditività del capitale. Sicuramente avrebbe beneficiato altresì di un accenno agli “interventi umanitari” americani che hanno caratterizzato il cosiddetto momento unipolare. In ogni caso ha un duplice merito. Il primo è quello di sottolineare come la ripresa della profittabilità delle multinazionali statunitensi – via delocalizzazioni della produzione industriale: ecco dove si inserisce la Cina – sia consistita e consista tuttora nel “drenaggio” (p. 63) di valore dagli investimenti esteri in una misura superiore a qualunque altro concorrente: la mondializzazione dunque si basa su di una asimmetria strutturale a favore dell’imperialismo Usa (l’autore non usa questo termine, ma a più riprese sottolinea questo nesso). In questo quadro, ma anche nell’economia dell’insieme del lavoro in oggetto, è di particolare importanza l’analisi dedicata al ruolo del dollaro per le basi materiali della riconfigurazione dell’egemonia americana. Bürbaumer sceglie di parlarne diffusamente solo nel quarto capitolo (“La contestazione del privilegio esorbitante del dollaro”) in relazione al tentativo cinese di aggirare quella che si è rivelata essere un’arma fondamentale del capitalismo americano, ma il tema è già implicito nella genealogia della mondializzazione. L’analisi è di tipo funzionalista e istituzionalista – sulla scorta, ci sembra di capire, di Aglietta, Orléan, Cartelier, ma anche per ragioni metodologiche e per il livello di astrazione scelto – più che strettamente marxista (moneta come rapporto sociale, espressione necessaria del valore come forma della socializzazione della produzione basata sul capitale, contestuale al potere statale). Comunque sia, particolarmente efficace nella sua sinteticità risulta la spiegazione del peculiare signoraggio del dollaro che, in particolare dopo lo sganciamento dalla convertibilità con l’oro nel 1971, ha permesso a Washington di indebitarsi nella propria moneta a tassi di interesse bassi e di investire all’estero i capitali così ricavati grazie alla politica monetaria della Federal Reserve, unitamente all’attrattività dei Treasuries americani come bene rifugio e all’accumulo di riserve denominate nel biglietto verde da parte delle banche centrali del resto del mondo. Alla base di ciò, ovviamente, la circolazione del dollaro come mezzo di scambio a valenza mondiale, rafforzata dall’accordo del 1974 con l’Arabia Saudita sul prezzo e vendita del petrolio in valuta statunitense. I dati riportati dall’autore illustrano ampiamente il dominio monetario che ne è seguito – e che vige tutt’oggi nonostante la tempesta del 2008 – che ne fa la moneta “liquida” per eccellenza, supportata da una fin qui insuperata potenza diplomatica e militare. Il che spiega, altresì, la possibilità per Washington di reggere da cinquant’anni a questa parte un crescente doppio deficit, e quindi debito, statale e estero senza incorrere nella necessità di un doloroso risanamento della bilancia dei pagamenti. La tenuta del fronte interno negli States deve molto, se non quasi tutto, a questo.

Con ciò siamo direttamente al secondo punto di merito di questa ricostruzione. Come è stato possibile, nonostante la relativa de-industrializzazione negli Stati Uniti con conseguente perdita di potere contrattuale da parte della classe operaia, ricacciare indietro il lavoro organizzato e però conservare la pace sociale? È qui che si inserisce il ruolo essenziale della Cina in questo processo di “fabbricazione” della mondializzazione. Averne fatto grazie agli investimenti delle multinazionali la fabbrica del mondo dai bassi costi, i cui prodotti hanno libero accesso ai mercati occidentali, vi ha permesso una pressione deflazionistica sui salari delle classi lavoratrici contestualmente al riversarsi nel loro paniere di una massa di prodotti d’uso a basso costo. Questo il rapporto di classe su scala internazionale che è l’altra faccia dell’internazionalizzazione della produzione e della finanza.

A questo punto Bürbaumer può passare nel secondo capitolo del libro a illustrare i passaggi essenziali dell’“inserzione subordinata” (p. 88) della Cina nella rete della mondializzazione: l’aggettivo è altrettanto importante del sostantivo. Analiticamente, si possono distinguere dai fattori esogeni – quelli attinenti ai processi di internazionalizzazione delle imprese e della finanza americane attraverso le nuove catene globali del valore – quelli endogeni che hanno dato luogo alla più che trentennale “alleanza di circostanza” (p. 74) tra le due sponde del Pacifico. Su questo versante l’autore attribuisce particolare importanza al peculiare assemblaggio tra le spinte modernizzatrici e sviluppiste proprie del corso politico post-maoista del Partito Comunista Cinese e l’emergere di una classe capitalista come escrescenza degli apparati di partito, il che ha fatto prevalere la spinta all’apertura verso l’Occidente. (A questo riguardo, però, andrebbe ricordata l’importante mossa diplomatica di Mao sfociata nel rapprochement con l’amministrazione Nixon già nel ’72, ben prima del depositarsi definitivo delle polveri sollevate dalla Rivoluzione Culturale e dell’inizio del corso denghista).[6] Nel corso degli anni Novanta – dopo che la liberalizzazione contestata da piazza Tien An Men nell’89 è stata riformulata in termini più graduali ma sostanzialmente riconfermata e spinta in avanti – questo processo ha liberato forze potenti che hanno fatto nascere nuovi settori sociali pro apertura in una dinamica autoalimentantesi (p. 75).

Non seguiremo nel dettaglio la descrizione del corso cinese di “riforma e apertura” sintetizzato in questo capitolo. Ma possiamo fermarci brevemente su alcune domande che il libro, nell’affrontare questo grumo di questioni obiettivamente intricatissimo, inevitabilmente solleva. Si tratta, in sintesi, della caratterizzazione della formazione economico-sociale cinese. L’autore dà per scontata, comprensibilmente, la natura capitalistica della Cina attuale. Ma non ritiene di doversi soffermare sul problema della sua transizione al capitalismo: quando si è data? Come? Quali le cause profonde? Ha avuto luogo una “restaurazione” capitalista di una formazione già socialista o transitante verso il socialismo, come molta letteratura marxista di ascendenza anche opposta (trozkista, marxista-leninista, radical) ritiene? Oppure sotto le bandiere del socialismo maoista ha avuto luogo una peculiare accumulazione primitiva capitalista – peculiare in quanto scaturita da una rivoluzione democratica contadina in un paese periferico di antica civiltà, non passato attraverso una fase feudale e sottoposto alla rapina semicoloniale – che a un certo punto ha prodotto anche dall’interno le spinte all’apertura al mercato mondiale concomitante con la pressione imperialista esterna senza però subordinarvisi del tutto proprio in forza di quel retaggio?[7] Questioni che hanno tutta una complessa stratificazione storica e politica. Per restare nei limiti di una “critica immanente” al libro possiamo far notare due implicazioni della loro rilevanza. Primo, la permanenza di una “questione agraria” in Cina, che rappresenta sì un ostacolo al pieno dispiegamento di un moderno capitalismo all’altezza dell’imperialismo occidentale ma anche un ammortizzatore rispetto a una proletarizzazione selvaggia e incontrollata.[8] Secondo, e collegato a ciò, la collocazione delle classi lavoratrici delle campagne e delle città, che sono sì forza-lavoro a basso costo disciplinata dall’educazione “socialista” (p. 90) ma anche forza attiva nel condizionare lo sviluppo capitalistico cinese spingendolo verso una modernizzazione accompagnata da un compromesso sociale di tipo più socialdemocratico. Sono dunque i rapporti di classe interni alla Cina, intrecciati alla dinamica del capitalismo mondiale, a spiegare sia perché il partito-stato abbia potuto e dovuto evitare un passaggio da terapia choc, sia perché all’indomani della crisi del 2008 abbia tentato di svoltare rispetto a un modello di sviluppo eccessivamente dipendente ed esposto alle crisi cicliche e alle strategie di controllo provenienti da Occidente.

Per intanto registriamo con l’autore che dagli anni Novanta dello scorso secolo la Cina diventa la destinazione numero uno del flusso degli investimenti diretti americani, una “vacca da latte delle multinazionali americane” (p. 89), snodo cruciale delle catene del valore controllate dagli oligopoli occidentali, paese esportatore di peso mondiale ma pur sempre di beni manufatti a medio-basso valore aggiunto per conto, appunto, di quelle multinazionali. A questo riguardo Bürbaumer – forse memore del vecchio dibattito marxista di inizio Settanta tra Mandel e Nicolaus – fa giustamente notare che, data questa configurazione dei circuiti internazionali del capitale, non è certo la bilancia commerciale l’indice più significativo del peso specifico di un’economia nazionale se non se ne disaggrega il valore aggiunto domestico contenuto nelle esportazioni. Per non parlare dei profitti occidentali rimpatriati nonché dell’obbligo tacito, anche per la Cina, di reinvestire parte del surplus commerciale nei titoli del Tesoro statunitensi come contropartita dell’apertura dei mercati occidentali e dell’acquisizione di tecnologie (comunque non del livello più alto). E il cerchio si chiude.[9]

Si riapre, però, con la svolta successiva alla crisi finanziaria globale, che il libro affronta nell’ultima parte del secondo capitolo. La crisi si incarica di portare a maturazione le fragilità della “simbiosi transpacifica” (p. 95). Fragilità presenti già prima della tempesta per quanto con modalità differenti sui due versanti. Su quello cinese (pp. 95-101), si tratta di uno sviluppo improntato a forti investimenti in capitale fisso senza però, almeno dagli anni ’00, decisi incrementi di produttività e di innovazione tecnologica, la cui assenza viene compensata da una crescita meramente quantitativa della produzione.[10] Di conseguenza, l’unica via di uscita resta l’extraversione dell’economia, che fissa però la Cina al ruolo di macchina da esportazione dipendente, nei modi visti, dai mercati occidentali, con bassi livelli di consumo interno e, nonostante i successi della lotta alla povertà, processi di massiccia proletarizzazione senza la possibilità di formazione di una vera classe media. A questo proposito l’autore sembra dare una torsione “keynesiana” al ragionamento insistendo sul divario sovracapacità produttiva / scarsi consumi come causa dell’extraversione commerciale, fonte di tensioni con gli Stati Uniti.[11] Il punto, a mio avviso, è però distinguere l’extraversione dipendente da multinazionali e mercati occidentali, fonte di un surplus commerciale a basso valore aggiunto cinese, da una proiezione esterna basata invece su investimenti interni a più alto contenuto tecnologico al fine di risalire le catene globali del valore ed erodere il prelievo imperialista occidentale. Solo questa seconda strategia – intrapresa sotto la presidenza Xi Jinping – permette di innalzare sul medio-lungo termine anche salari e consumi interni e di accedere a un compromesso sociale di tipo socialdemocratico.

Sul versante americano (pp. 101-3), nonostante il periodo di vacche grasse per il grande capitale, incubano le contraddizioni dovute al crescente indebitamento delle classi lavoratrici, alla disgregazione sociale risultato della deindustrializzazione, e alla formazione di bolle speculative nella finanza come quella subprime, poi puntualmente esplosa. Bürbaumer ne conclude che quella simbiosi era in realtà solo apparente, senza un’effettiva convergenza tra le due economie (p. 112) a causa, da un lato, dello scarso radicamento, qualitativo e quantitativo, delle multinazionali statunitensi nel tessuto produttivo cinese – nulla di paragonabile con l’entità degli investimenti diretti in Europa – e, dall’altro, per il forte controllo da parte dello Stato cinese sulle aperture economiche attraverso la limitazione delle acquisizioni straniere, la formazione di forti conglomerati monopolistici pubblici e la subordinazione del capitale privato.

A questo proposito possiamo rincarare la dose. Senza bisogno di aderire alla lettura arrighiana di una Cina qualitativamente differente e relativamente separata dal capitalismo occidentale[12], è vero che il corso economico cinese non è mai stato né puramente “neoliberale” né – storia e rivoluzione contano – completamente subordinato all’imperialismo occidentale. Il prelievo di valore da parte delle multinazionali occidentali e l’inserimento nella rete di dominio mondiale del dollaro e della finanza statunitense hanno rappresentato, nelle condizioni storiche date, la via di accesso quasi obbligata della Cina al mercato mondiale come condizione di un suo salto nella modernizzazione interna (e così, crediamo, sono sempre state viste dalla frazione determinante del Partito Comunista Cinese, al di là di transitorie giravolte “liberiste”).

Le traiettorie, innanzitutto economiche, di Stati Uniti e Cina iniziano decisamente a divergere con lo scoppio della crisi globale perché la parabola discendente dell’accumulazione mondiale, col suo epicentro di crisi in Occidente, rovescia la loro relativa interdipendenza già strutturalmente asimmetrica in contrasto di interessi sempre meno conciliabili, economici e geopolitici. È qui che la struttura si fa azione: per la Cina proseguire sulla linea degli ultimi decenni avrebbe significato non solo confermare la subordinazione fin qui gioco forza accettata, ma rischiare il blocco se non il rinculo del proprio sviluppo economico e, con esso, la messa a rischio dell’ordine sociale garantito dalla crescita verso una “prosperità moderata”. Un regime change di marca filo-occidentale ne sarebbe stato l’esito probabile.

Torniamo al libro. L’asimmetria di collocazione nel sistema capitalistico mondiale – che Bürbaumer discute nei suoi diversi aspetti, non solo economici – si manifesta anche nell’opposta reazione di Washington e Pechino alla crisi. Per gli Usa si tratta di continuare, dopo e grazie ai salvataggi della finanza, col business as usual: vanno in questa direzione le mosse della Fed per confermare la centralità mondiale del dollaro.[13] Tutta la parte centrale, cioè i capitoli terzo (“Sfuggire al controllo americano delle catene globali del valore”) e quarto (“La contestazione del privilegio esorbitante del dollaro”), sono un’efficace illustrazione dello sforzo cinese di aggirare questa che oramai è divenuta una vera e propria trappola per le proprie prospettive di sviluppo. Può non essere superfluo ricordare che, secondo l’autore, non è stato il cambio al vertice con l’arrivo di Xi Jinping ad aver prodotto il superamento del connubio denghista di liberalizzazione economica e minimalismo in politica estera, bensì qualunque altro dirigente si sarebbe dovuto confrontare con le sfide poste dal nuovo contesto (p.117).

In estrema sintesi, si è trattato a questo punto per Pechino di cercare una collocazione diversa alle proprie imprese nella divisione internazionale del lavoro risalendo la catena globale del valore anche dal punto di vista tecnologico e, al contempo, di portare avanti una “lotta per le infrastrutture” al fine di incanalare verso di sé i flussi di valore precedentemente appropriati dall’Occidente. Il punto di convergenza di questo doppio asse strategico l’autore lo rinviene nel progetto delle Nuove Vie della Seta (BRI, secondo l’acronimo inglese), la vera sfida cinese al dominio statunitense sui flussi mondiali di valore. Lanciato, come è noto, nel 2013 questo progetto è la cornice generale della proiezione esterna autonoma delle imprese cinesi sul mercato mondiale, finalizzata sia ad accrescere il valore aggiunto domestico delle merci esportate sia a dare inizio a una esportazione di capitali in proprio, salita effettivamente al 2022 al 9% dello stock mondiale (di contro al 22% statunitense, di tutt’altro spessore qualitativo).

Ma il cambio di strategia non si limita a ciò. Come accennavamo, altrettanto se non più importante delle mere cifre economiche è secondo Bürbaumer il tentativo cinese di mettere in campo nella sua proiezione esterna un’intelaiatura di infrastrutture fisiche, tecniche, di comunicazioni e di reti digitali – emblematico il successo e la diffusione delle reti 5G di Huawei – fino all’intelligenza artificiale come tecnologia e metodo di innovazione di applicazione generale. Un’intelaiatura che permetta di oltrepassare gli standard tecnologici occidentali legando a sé i paesi aderenti (pp. 132-50). Resa possibile dalla veloce e per certi versi straordinaria rincorsa tecnologica cinese, tale espansione a sua volta la rilancia. In gioco è allora il “potere strutturale” (concetto mutuato da Susan Strange), ovvero la capacità di incanalare i flussi di valore delle transazioni globali nel mentre si determinano, con l’attiva partecipazione dello stato, le condizioni di rango e di partecipazione al mercato e alla geopolitica mondiali, le regole del gioco dell’ordine internazionale, il controllo dei colli di bottiglia fisici e intangibili.

Una lotta, dunque, che investe contemporaneamente il piano economico-finanziario e quello geopolitico. Non a caso, essa è strettamente intrecciata con la “contestazione monetaria cinese” (pp. 188-201) del dominio mondiale del dollaro, cui abbiamo accennato sopra. Dall’incremento dell’interscambio commerciale direttamente in valuta cinese agli scambi tra banche centrali, dal graduale allentamento dei controlli su cambio e capitali per permettere una più ampia circolazione internazionale del renminbi yuan all’approntamento di un sistema di pagamenti interbancari proprio (il Chips, non ancora però del tutto slegato dal sistema Swift controllato da Washington), il libro fa una sintesi aggiornata di quella che definisce una “finanziarizzazione in forma statale” (p. 199) volta a creare mercati finanziari distinti e concorrenti con quelli occidentali. La posta in gioco, con una formula efficace: “rinforzare l’extraversione diminuendo le vulnerabilità a ciò associate” (p. 120) di contro a un modello export-led del tutto esposto al bello e cattivo tempo dei capitali e delle politiche statunitensi (rimando a quanto scritto sopra al riguardo).

Bürbaumer non nasconde comunque le persistenti fragilità cinesi. Sottrarsi alla supervisione statunitense della mondializzazione non è impresa facile. Il libro si ferma in particolare su due mosse che Washington, da leader mondiale, può giocare d’anticipo. Da un lato la cosiddetta guerra dei chip (pp. 151-61, dal titolo dell’oramai famoso libro di Chris Miller), iniziata con l’offensiva anti-Huawei, e tesa a disconnettere l’industria cinese dai segmenti alti di questa produzione strategica per bloccarne in anticipo la potenziale risalita tecnologica. Con risultati ambivalenti: Pechino è stata incentivata a sviluppare capacità di ideazione e produzione autonome, pur restando dipendente per i chip più sofisticati dalla strumentazione occidentale, che le è sempre più negata. Dall’altro Washington, per contrastare in prospettiva la graduale internazionalizzazione della valuta cinese, sta trasformando a più non posso il dollaro in “arma politica esplicita” (p. 201) attraverso un sistema oramai pervasivo di sanzioni finanziarie a paesi ed entità avversarie, di cui quelle comminate contro la Russia all’indomani dello scoppio del conflitto in Ucraina sono solo l’ultimo e più rilevante esempio. Anche su questo versante i risultati non sono così lineari: l’arma delle sanzioni si sta rivelando a doppio taglio per l’Occidente e paradossalmente un catalizzatore dell’uso internazionale dello yuan cinese da parte dei soggetti statali sanzionati (p. 211). Al tempo stesso, nonostante questo effetto boomerang, resta il fatto che il dollaro non ha al momento degli effettivi rivali come moneta mondiale.

In entrambi questi casi ciò che emerge è la contraddizione tra le spinte all’internazionalizzazione del capitale – sia sul fronte delle multinazionali americane, interessate al mercato cinese, sia su quello del capitalismo sviluppista della Cina che ancora abbisogna degli apporti del capitale straniero – da un lato, e le divergenze senza precedenti tra i due avversari dall’altro. Senza che, rilievo importante dell’autore, la questione possa ridursi alla meccanica separazione tra un’economia presuntamente portatrice di interdipendenza pacifica e una geopolitica causa di scontro: se è vero che il cliente cinese delle imprese statunitensi è sempre più anche concorrente. Allo stato, questa contraddizione si è attestata sul decoupling strategico rispetto all’economia cinese da parte di Washington, che sta diversificando i propri fornitori secondo ragioni geopolitiche (friendshoring) senza, per ora, attaccare l’integrità delle catene globali, dunque anche cinesi, del valore (pp. 165-6).

Siamo così all’ultimo capitolo, dedicato a “Gli Stati Uniti nella trappola dell’egemonia”. Come abbiamo anticipato all’inizio, per Bürbaumer la cifra di fondo delle tensioni in corso è quella di una lotta per l’egemonia a tutto tondo tra le due grandi potenze, ben oltre la mera dimensione economica: si tratta della capacità di fare della propria organizzazione sociale un modello universale garantendo un ordine internazionale di cui tutti in teoria possano beneficiare. Ed è qui che viene fuori la posizione critica attuale degli Stati Uniti. Netto è il loro predominio sul piano militare, in questo capitolo illustrato in particolare con riferimento all’esorbitante spesa militare, alla rete mondiale di basi militari e alla forward presence nell’area dell’Indo-Pacifico e a Taiwan, che di fatto prefigura l’espansione della Nato in Asia (pp. 267-82). Ma l’impegno crescente in questa direzione non fa che attestare che l’equilibrio “gramsciano” tra consenso e coercizione pende sempre più verso il secondo aspetto. Nonostante il perdurante richiamo del modo di vivere americano e una ineguagliabile rete di alleanze sparse nel globo, la crescente militarizzazione spinge dall’attrattività egemonica nella direzione dell’esercizio del puro dominio. Ma la perdita di prestigio internazionale di Washington – sotto gli occhi di tutti l’instabilità crescente della pax americana e il doppio standard applicato ai conflitti in Ucraina e a Gaza – non si spiega secondo Bürbaumer senza la contestuale strategia cinese. L’offensiva dello charme va qui dalle iniziative istituzionali in Asia e in sede di paesi Brics all’impegno per un ordine internazionale più giusto e favorevole ai paesi della periferia del mondo. Il tutto costellato di azioni concrete in questa direzione, dalla crisi asiatica del 1997 allorché Pechino evitò di svalutare la propria valuta venendo così in soccorso dei paesi asiatici fino alla diplomazia dei vaccini anti-covid, e alla mediazione tra Iran e Arabia Saudita nel 2023. Non certo un’azione disinteressata, bensì nel quadro della proiezione esterna di cui si diceva, e comunque in grado finora anche sul piano degli interventi economici di non imporre ai paesi interlocutori, per lo più del Sud del mondo, le famigerate condizionalità del Fmi e della finanza occidentale, bensì garantire in certa misura uno “sviluppo”.

Insomma, la supervisione americana della mondializzazione risulta sempre più contestata, con possibili ripercussioni anche sulla stabilità interna, in un circolo vizioso di interventismo militare e perdita di prestigio che sta alla base del peggioramento complessivo del clima internazionale. La rivalità inter-capitalistica delle due principali potenze mondiali arriva così a minare la stessa mondializzazione palesando la dinamica conflittuale tra nazioni intrinseca al capitalismo che l’autore, richiamandosi nella pagina finale del libro a Rosa Luxemburg, definisce “imperialismo”.

È evidente, da questa pur parziale presentazione, come il lavoro di Bürbaumer sia ricco in sé di contenuti tenuti insieme da un quadro complessivo forte, cosa che, lo si condivida o meno, pochi oggi si arrischiano a fare nello specialismo imperante. Proprio per questo, merito non ultimo del libro è quello di aprire tutta una serie di questioni cruciali non solo per il lavoro teorico e storico, ma ancor più per la politica mondiale a venire (se intesa come grande politica). Mi limito su questo a due considerazioni finali. La prima: la caratterizzazione complessiva dello scontro in corso come lotta per l’egemonia tra le due grandi potenze sembra implicare la possibilità di un avvicendamento egemonico tra Stati Uniti e Cina, rischiando così di oscurare la persistente asimmetria non solo tra i due attori in gioco, ma tra Occidente e resto del mondo – asimmetria (ben presente a Bürbaumer) che rende oltremodo improbabile una “successione egemonica” (per usare una terminologia arrighiana). In realtà, si potrebbe forse parlare di una contro-egemonia di “resistenza”, portatrice non di un discorso anti-imperialista e anti-capitalista, sia chiaro, ma di un’istanza “riformista” a scala mondiale, che non a caso sta raccogliendo l’attenzione e il cauto appoggio di parte del Sud del mondo (e della Russia, malgré soi portatrice di un’anomalia risalente al ’17 che l’Occidente non le ha mai perdonato). Purtroppo nell’indifferenza finora di gran parte delle classi lavoratrici occidentali (per non parlare dell’aperta ostilità delle loro rappresentanze politiche e sindacali). Seconda considerazione, strettamente legata alla prima: risulta da questo lavoro come la traiettoria statunitense dall’egemonia al dominio rimandi non semplicemente a un problema di direzione da parte di Washington – di cui è segno la difficoltà di elaborazione di una nuova, coerente Grand Strategy – bensì a un impasse oggettivo del capitalismo mondiale. Se ne potrebbe dedurre che il blocco posto dagli Stati Uniti a un rinnovamento profondo degli equilibri geopolitici, economici, sociali a scala mondiale – blocco di cui lo scontro con la Cina è espressione – segnala una crisi profonda non solo della mondializzazione come “stadio” fin qui più alto raggiunto dal capitalismo, ma del sistema capitalistico in quanto tale.

Alla luce di ciò, non si fa forse torto all’autore concludendo che il suo lavoro pone in definitiva l’esigenza di una rinnovata teoria dell’imperialismo, banco di prova di un marxismo all’altezza degli sconvolgimenti mondiali a venire.

Note

[1]
Ricordiamo di Barthélémy Courmont Chine-Usa: le grand écart, a cura dell’Iris; di Pierre Grosser L’autre guerre froide? La confrontation Ètats-Unis/Chine. Va considerato anche il lavoro di analisi che fa capo al sito Le Grand Continent. La tradizione gollista permette ancora qualche margine di analisi, se non di dibattito, non immediatamente schiacciato sull’opzione atlantista, che pure non viene in generale contestata.

[2]
Vivek Chibber, The Class Matrix. Social Theory After the Cultural Turn, Harvard University Press, Cambridge 2022.

[3]
Pensiamo ai lavori di Pierre Dardot e Christian Laval e di Frédéric Lordon, ma prima ancora di Pierre Bourdieu: v. il mio Il dibattito sulla globalizzazione, 2010, in rete.

[4]
Sul tema l’autore è tornato con il saggio Alliances et accumulation. Comprendre la conflictualité entre les États-Unis d’Amérique, la Chine et la Russie à travers les flux mondiaux de capitaux, Terrains Théories, 18, 2024 (https://journals.openedition.org/teth/5747).

[5]
Su questa linea da ultimo Alexander Ward, The Internationalists: The Fight to Restore American Foreign Policy after Trump, Penguin Random House, 2024 sull’influenza dei think tank globalisti sulla e nella amministrazione Biden.

[6]
Ampia la letteratura specialistica al riguardo: rimando al mio Un passaggio oltre il bipolarismo. Il rapprochement sino-americano 1969-1972, Bologna 2012 (in rete).

[7]
Ho trattato questi temi nella terza parte del mio The Us-China Rift and its Impact on Globalisation. Crisis, strategy, transitions, Brill 2024.

[8]
Pun Gai, Lu Huilin, Unfinished Proletarianization, Modern China 36, 5, 2010, 493-519.

[9]
Non a caso è la fase delle teorie apologetiche della globalizzazione come interdipendenza o, sul versante radical, dell’Impero (riedizione del kautskiano super-imperialismo al netto della tesi del declino degli stati nazionali).

[10]
Il testo di riferimento è qui Mylène Gaulard, Karl Marx à Pékin: Le racines de la crise en Chine capitaliste, Demopolis, Paris 2014.

[11]
Una lettura che rimanda ai lavori di economisti come Michael Pettis (in Italia possiamo pensare a Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis, Milano 2022). Insistere sul surplus commerciale cinese in sé come causa delle tensioni internazionali – i cosiddetti squilibri globali – rischia però di portare acqua al mulino del crescente protezionismo occidentale.

[12]
Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing, Verso, London, 2007.

[13]
Mosse finalizzate altresì allo scarico della crisi su alleati, come nel caso dell’eurocrisi dei primi anni Dieci, e avversari.

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