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21/09/2024

Embargo tecnologico alla Cina, un fallimento annunciato

L’embargo tecnologico sul digitale nei confronti della Cina, promosso da USA e UE, si sta palesando come un fallimento clamoroso. Ne sono testimonianza, su tutte, le performance delle due aziende capofila per quanto riguarda l’hardware ed il software, ovvero Semiconductor Manufacturing International Corporation (SMIC) e Huawei.

Per inciso, si tratta di aziende capitalistiche di diritto privato, tuttavia la prima è riconducibile per il 100% allo Stato, tramite vari enti (ministeri, fondi, aziende di stato), mentre la seconda è di proprietà per l’1% circa del fondatore Ren Zhengfei e per il restante 99% circa dei lavoratori tramite la loro associazione Huawei Investment & Holding Company Trade Union Committee. La logica che regola la loro governance e la distribuzione degli utili, pertanto, è molto diversa dalle aziende capitalistiche occidentali.

“Diventeranno come mattoni” si diceva degli smartphone di Huawei, non molto nascostamente, fra le teste d’uovo delle big tech della California, allorquando l’amministrazione Trump ordinò di disconnetterne i dispositivi dagli app store di Google incorporato nel sistema operativo Android. Nel mentre, la Vicepresidente Meng Wanzhou, figlia di Ren Zhenfei, era in arresto in Canada, su ordine degli USA e vi rimarrà per circa tre anni.

Ora quei tempi sembrano lontanissimi. Dopo qualche anno duro, infatti, Huawei si è rilanciata dapprima diversificando i propri settori d’intervento sia nell’hardware che nel software, poi rilanciando clamorosamente anche il settore degli smartphone.

L’azienda di Shenzen, infatti, è stata in grado di sviluppare un proprio sistema operativo, HarmonyOS, utilizzato non solo negli smartphone, ma anche, ad esempio, nell’automotive elettrico, dove ha siglato, con alcuni produttori, la Harmony Intelligent Mobility Alliance, un’alleanza industriale nell’ambito della quale fornisce supporto nel design delle automobili, nella catena di fornitura e nell’ecosistema dei software di bordo.

Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, Huwaei, oltre ad essere stata designata dallo stesso colosso nVidia come proprio competitore nel design di GPU e CPU ad essa dedicati, si sta distinguendo nel cosiddetto Internet of Things. Ad esempio, nel 2021 ha lanciato il progetto MineHarmony, che applica l’intelligenza artificiale nel settore minerario, contribuendo a minimizzare l’impatto ambientale e diminuire gli incidenti sul lavoro.

Tornando agli smartphone, è stato annunciato il lancio del nuovo modello Mate XT, il primo al mondo pieghevole a fisarmonica, dotato di tre schermi, che quando viene allungato totalmente ne formano uno solo, diventando simile ad un tablet.

Tale modello ha già 4 milioni di pre-ordini ed è stato annunciato in concomitanza con il lancio del nuovo modello di iPhone della Apple, destinato, secondo molti analisti, ad un flop inesorabile in Cina, in quanto le funzionalità d’intelligenza artificiale che mette a disposizione, oltre a non essere disponibili attualmente in lingua cinese, probabilmente non lo saranno mai, perché, essendo basati sui modelli di ChatGpt, difficilmente verranno autorizzati dal Ministero della Scienza e della Tecnologia cinese; sia per motivi intrinseci, sia come risposta all’embargo tecnologico da parte degli USA.

Così la Apple, che già è scesa al sesto posto nelle classifiche di vendita in Cina, sembra destinata a sprofondare ulteriormente in quello che costituisce circa il 20% del proprio mercato di sbocco, non molto sotto l’Europa (si ricorda che solo pochi anni fa, la commercializzazione dei nuovi iPhone scatenava nelle maggiori città cinesi le stesse file lunghissime agli store e le stesse reazioni isteriche che scatenava nei consumatori occidentali).

Allo stesso tempo, Huawei ha visto un aumento del 72% di vendite nei primi cinque mesi del 2024 e sembra destinata ad allargare la forbice con il colosso di Cupertino, con utili e ricavi che si dirigono verso la doppia cifra di miliardi di euro. Da redistribuire in parte fra gli azionisti, ovvero, per il 99%, ai lavoratori.

In fin dei conti, pertanto, l’embargo tecnologico nei confronti di Huawei ha finito per rafforzarla ai danni di Apple e, probabilmente, fra poco anche di nVidia. Classico caso di reazionari “che sollevano massi, che poi ricadranno sui propri piedi”.

Da sottolineare che tutti i successi tecnologici fin qui descritti sarebbero stati impossibili se il XVIII Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese del 2012 non avesse messo fra le priorità strategiche assolute la costruzione di un’infrastruttura internet “nazionale”, indipendente dalla Silicon Valley.

In poco più di un decennio, il web cinese è passato dall’essere una bruttissima copia di quello americano, all’avere server fisici, browser, motori di ricerca, social network e app per smartphone, big tech (rigorosamente regolamentate, chiedere a Jack Ma) tutti propri, alcuni dei quali spopolano anche in Occidente.

Passando a SMCI, azienda produttrice di chip a semiconduttori, che sono la base di tutti i dispositivi elettronici, a suonare il campanello d’allarme per USA, Giappone e UE è Hiroharu Shimizu, Amministratore Delegato di TechanaLye, società di ricerca sui semiconduttori che smonta 100 dispositivi elettronici all’anno e li esamina, dalle colonne del giornale Nikkei Asia.

Il dirigente d’azienda ha parlato del confronto effettuato fra un modello di smartphone di Huawei, il Pura 70 Pro, rilasciato nell’aprile 2021, prodotto con tecnologia Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), azienda taiwanese leader mondiale nella produzione di chip, con il più recente modello di Huawei messo in commercio, equipaggiato con cpu Kirin 9010, prodotto con tecnologia SMIC.

Sebbene a SMIC sia impedito dalle sanzioni USA l’accesso alle tecnologie per produrre chip a 5 nanometri, come quelli del Pura 70 Pro di 3 anni fa, e sia, pertanto ferma ai 7 nanometri del Kirin 9010, Shimizu ha concluso che le prestazioni fra i due processori siano comparabili; pertanto SMIC si trova a soli tre anni di divario da TSMC. Con la differenza sostanziale che l’86% di tutti i chip del Kirin 9010 sono prodotto in Cina, pertanto quasi tutta la filiera produttiva è internalizzata e messa al sicuro.

Invece, i modelli prodotti con tecnologia TSMC, ovvero praticamente tutti i modelli occidentali, hanno la filiera sparsa in giro per il mondo, con tutte le incertezze che ne conseguono dati gli scenari geopolitici attuali. Incertezze che potrebbero essere aumentate in maniera decisiva, specialmente quando si passa per Taiwan, dopo l’attentato terroristico messo in atto dal regime sionista contro Hezbollah nei giorni scorsi, con la complicità, appunto, di un’azienda tech dell’isola.

L’ultima mossa messa in atto dagli USA per fermare SMIC è la minaccia di sanzionare l’azienda olandese ASML, affinché non rispetti il contratto con la SMIC stessa, che le impone di riparare le macchine litografiche fornitele a suo tempo. A proposito di “ordine mondiale basato sulle regole”.

Le macchine litografiche sono i mezzi di produzione dei chip, che la Cina non sarebbe ancora in grado di produrre da se. In questo caso parliamo di una tecnica litografica risalente a 5 anni fa, poiché le ultimissime tecniche già sono interdette.

Il mezzo che gli USA stanno utilizzando nel loro ricatto è il Foreign Direct Product Rules (FDPR), legge del 1959 con la quale, in maniera arbitraria, il Dipartimento del Commercio si arroga il diritto di poter stoppare la vendita sul mercato internazionale di qualsiasi prodotto in cui anche un solo bullone sia made in USA. L’Amministrazione Trump provò ad utilizzare questa legge nel 2020 per bloccare del tutto la fornitura di chip a Huwei, ma in quel caso TSMC era troppo grande ed importante per soggiacere ad una tale imposizione.

Per ASML, aderire a queste limitazioni significherebbe suicidarsi, in quanto la Cina è il 50% del suo mercato. Tuttavia, mentre il precedente governo olandese sembrava voler provare ad opporre resistenza, quello attuale sembra invece orientato a ritirare le licenze ad ASML per effettuare le riparazioni che dovrebbe effettuare da contratto stipulato, minando per l’ennesima volta l’elemento fiduciario che c’è alla base delle catene del valore sparse in tutto il mondo.

Paradossalmente, tutte queste sanzioni ed imposizioni, oltre a rivelarsi, come visto, o del tutto fallimentari o solo un intralcio momentaneo, fanno il gioco di Pechino a più ampio spettro. Infatti, l’idea di globalizzazione basata sulla cooperazione win – win, su filiere produttive sicure e sulla fiducia reciproca basata sul regole vere, che incardina la Belt and Road Initiative guadagna veramente terreno e credibilità rispetto all’inaffidabilità, all’unilateralismo, all’attitudine all’interferenza negli affari altrui e, ultimamente, addirittura alla pericolosità dell’ordinamento monetario e produttivo mondiale forgiato dall’imperialismo.

La sfida, per Pechino, sarà gestire una lunga fase di disaccoppiamento tecnologico e di filiere produttive che l’imperialismo vuole imporle e nel corso del quale cercherà di minare l’ascesa cinese con ogni mezzo, guerra compresa.

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