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25/09/2024

Il piano ucraino per colpire in profondità e la minaccia del nucleare russo

di Francesco Dall'Aglio

Nelle ultime settimane il dibattito sia pubblico che politico sul conflitto in Ucraina sembra concentrato quasi esclusivamente su un solo tema: la richiesta ucraina di ricevere dai paesi NATO l’autorizzazione a colpire in profondità il territorio russo con i missili che già sono stati forniti dagli alleati, e meglio ancora con altri modelli di gittata ancora maggiore. Al momento, infatti, all’Ucraina è consentito colpire col materiale bellico occidentale soltanto gli obiettivi che si trovano nei territori occupati (Crimea inclusa) e immediatamente a ridosso della frontiera, ma non oltre. La gran parte delle basi militari, degli aeroporti e dei depositi russi è dunque fuori tiro, e se si eccettuano i lanci di droni l’Ucraina non ha modo di attaccarli. Proprio negli ultimi giorni abbiamo visto che l’Ucraina è stata in grado di colpire, con conseguenze serie, alcuni depositi di munizioni russi situati a parecchie centinaia di chilometri dal confine, ma è ovvio che potere impiegare missili e non solo droni le consentirebbe di raggiungere risultati molto più concreti e di obbligare la Russia a spostare a distanza nettamente maggiore dal fronte i suoi principali centri logistici, con le ovvie conseguenze negative che questo comporterebbe per la sua macchina bellica.

Ottenere questa autorizzazione è uno dei punti fondamentali del nuovo piano di pace ucraino, ottimisticamente definito ‟piano di vittoria”, che Zelensky presenterà nel corso della sua appena cominciata visita statunitense a Biden, oltre che ad Harris, Trump, al Congresso americano e probabilmente all’Assemblea Generale dell’ONU (LINK 1). Il contenuto di questo piano non è stato divulgato in dettaglio, ma da quello che Zelensky ha anticipato in un’intervista a Fareed Zakaria della CNN, andata in onda il 15 settembre, i punti sono sostanzialmente quattro e riguardano la sicurezza dell’Ucraina, la sua posizione geopolitica, il sostegno militare occidentale e, appunto, la libertà di utilizzare il materiale ricevuto. Un quinto punto, a guerra finita, riguarderà la situazione economica del paese. Se dunque l’idea della vittoria sul campo e del recupero dei confini ucraini del 1991 sembra essere stata accantonata, la sostanza non è cambiata di molto. ‟Sicurezza” e ‟posizione geopolitica” dell’Ucraina sembrano alludere a un ingresso nella NATO o a garanzie più estese e più vincolanti per l’Occidente, prima ancora che la guerra sia finita: questo fattore, unito a nuovi e più massicci aiuti da utilizzare liberamente e senza più limitazioni, dovrebbe portare la Russia a ritirarsi dal conflitto o rischiare un allargamento che coinvolgerebbe in maniera diretta la NATO (o almeno, interpretando più riduttivamente i concetti di sicurezza e posizione geopolitica, quei paesi NATO come la Gran Bretagna che si sono detti disposti ad accordi bilaterali di sicurezza che non coinvolgano il resto dell’Alleanza).

Se l’ingresso nella NATO a guerra in corso sembra piuttosto improbabile, così come che alcuni paesi dell’Alleanza decidano di intervenire direttamente nel conflitto senza l’ombrello protettivo dell’Articolo 5 del suo statuto, meno improbabile appare strappare almeno la promessa di nuovi aiuti. Per quanto riguarda invece l’autorizzazione all’impiego sul territorio russo, Zelensky è stato molto abile, nei mesi precedenti, a presentarla come il fattore decisivo per la vittoria finale, mettendo l’amministrazione Biden in una posizione diplomatica molto complessa soprattutto perché accompagnata da una campagna mediatica intensissima, che mirava a convincere il pubblico che la concessione dell’autorizzazione non avrebbe portato a nessuna conseguenza pratica dal momento che già in passato le proteste russe per la violazione di qualche ‟linea rossa” non erano mai sfociate in risposte concrete. Che si trattasse del ponte di Crimea, dell’invio degli HIMARS, degli Abrams o degli F-16, degli attacchi al porto di Sebastopoli o all’aeroporto di Engels, e in ultimo dell’invasione dell’oblast’ di Kursk, alle minacce non è mai seguito nulla e lo stesso succederà se l’autorizzazione sarà concessa: tanto vale dunque concederla, anche perché, come astutamente si è fatto in modo di suggerire, è la chiave della vittoria definitiva. All’inizio di settembre sembrava che l’autorizzazione fosse non solo imminente ma già decisa, e che si aspettasse solo l’occasione buona per dichiararla ufficialmente (ne scriveva ad esempio il Guardian l’11 settembre LINK 2).

La reazione russa non si è fatta attendere ed è stata come prevedibile molto intransigente. Proprio l’11, infatti, Putin dichiarava che il problema non era tanto che la Russia sarebbe stata attaccata in profondità, perché l’Ucraina già lo faceva con i droni, ma che per usare quei missili sarebbero stati necessari non solo intelligence e satelliti di cui l’Ucraina non è dotata, ma anche il personale della NATO (e ovviamente non diceva una cosa altrettanto importante, ovvero che quei missili sarebbero stati ben più precisi e letali dei droni). Concedere l’autorizzazione e il materiale avrebbe significato che la NATO era direttamente coinvolta nel conflitto con la Russia, che avrebbe dovuto dunque prendere ‟decisioni appropriate” alla minaccia cui sarebbe stata esposta. Tra queste decisioni ‟appropriate” rientrava anche, come dichiarato da Peskov già una settimana prima (LINK 3) una revisione della dottrina nucleare. Se la dichiarazione di Peskov era passata un po’ sotto silenzio, o meglio era stata interpretata come l’ennesima minaccia priva di fondamento, le parole di Putin sono state evidentemente ascoltate con maggiore attenzione e l’entusiasmo per l’autorizzazione ormai pronta ad essere concessa si è raffreddato fino a spegnersi in una serie di distinguo e chiarificazioni. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che non vedono motivi per cambiare la loro decisione al riguardo, e del resto l’amministrazione Biden non era mai sembrata troppo ansiosa di farlo né lieta di essere scavalcata dalla disponibilità inglese, anch’essa venuta meno dopo le parole di Putin insieme a quella francese. Per quanto riguarda la Germania, Scholz ha sempre dichiarato di non volere nemmeno inviare i missili cruise a lungo raggio ‟Taurus” per timore di iniziare una escalation pericolosa, mentre in Italia sia Crosetto che soprattutto Tajani hanno ribadito più volte la disponibilità italiana all’invio di materiale militare ma l’assoluto divieto di utilizzarlo sul territorio russo. È certamente possibile che la visita di Zelensky possa modificare questa situazione, anche se pare non troppo probabile: ad ogni modo, nonostante la pressione mediatica e di certi settori dell’amministrazione statunitense e dell’Unione Europea, sembra chiaro che i decisori sia politici che soprattutto militari non ritengono affatto che le ‟linee rosse” di Mosca siano solo virtuali, o almeno che non lo sia questa.

L’idea che la Russia non abbia modo, o volontà politica, di opporsi alle escalation occidentali si basa su due malintesi principali. Il primo, quello più importante, è che l’unica risposta alla ‟violazione” possa essere solo nucleare; il secondo che debba essere militare, immediata e interpretabile come tale senza ambiguità. Entrambe partono da premesse sbagliate ed entrambe sono smentite dai fatti. Che ogni risposta russa sia affidata al nucleare è la conseguenza di una errata lettura delle affermazioni fatte da Putin il 24 febbraio. In quella data, Putin aveva infatti dichiarato che la Russia, nonostante la dissoluzione dell’URSS, restava una delle maggiori potenze nucleari mondiali e che chi avesse ‟attaccato direttamente” il paese si sarebbe trovato a dovere affrontare ‟conseguenze terribili”. Non dunque una minaccia vaga di utilizzo dell’arma nucleare contro un qualsiasi avversario e in qualsiasi circostanza, ma solo in caso di attacco diretto, drammatizzata nel resto del discorso da espressioni quali ‟conseguenze che mai si sono viste nella vostra [dell’ipotetico attaccante] storia” (LINK 4). A questo discorso seguì un concreto atto di escalation nucleare (o almeno la sua dichiarazione) il 27 febbraio, quando Putin annunciò di avere messo ‟in regime di allerta speciale” le forze nucleari russe. La dichiarazione era in realtà la risposta all’incauta, ed estremamente escalatoria, dichiarazione di Borrel che lo stesso giorno, commentando la decisione dell’Unione Europea di destinare all’Ucraina 450 milioni di € in aiuti militari, aveva affermato che tra gli aiuti sarebbero rientrati anche aerei da combattimento. Le rispettive diplomazie si misero immediatamente all’opera, di aerei non si parlò più, almeno per il momento, e sia l’ambasciatore russo all’ONU Nebeznya che il Ministro degli esteri Lavrov dichiararano con enfasi che alla guerra nucleare nessuno pensava, circostanza confermata l’8 marzo da Avril Haines, direttrice dell’intelligence USA, che chiuse la questione dichiarando che la Russia non aveva fatto seguire misure pratiche alle dichiarazioni di Putin. Frase che a un osservatore distratto, o poco informato, poteva sembrare l’equivalente di affermare che le sue parole erano state vane, ma che in realtà significava che gli USA, o la NATO, avevano recepito le preoccupazioni russe e avevano fornito sufficienti garanzie per tranquillizzare la sua leadership.

Il discorso nucleare si è affacciato altre volte durante il conflitto, ma mai come minaccia di risposta diretta alla violazione di una ‟linea rossa” ipotetica o definita tale dal Cremlino (val la pena di notare che ‟red line” è un’espressione utilizzata in Occidente e soprattutto negli USA, ma che la Russia tende a non impiegarla). Del resto la stessa dottrina nucleare russa, nella sua più recente formulazione del 2 giugno 2020 (LINK 5) considera l’impiego dell’arma nucleare solo in risposta a una ‟minaccia esistenziale” che metta in pericolo la sopravvivenza stessa della Federazione (LINK 6). Sebbene la formulazione sia sufficientemente ambigua da consentire alla Russia di tenere i suoi avversari sulla corda, né la distruzione del ponte di Crimea né la conquista ucraina della cittadina di Sudža possono essere considerate, nemmeno con molta elasticità, ‟minacce esistenziali” per la Russia. Chiunque conosca la dottrina nucleare russa, dunque – e alla NATO la conoscono – è in grado di valutare di volta in volta cosa potrebbe, nella peggiore delle ipotesi, portare la Russia a salire la scala dell’impiego del nucleare: strada che, ad ogni modo, è fatta di moltissimi gradini che partono dallo stato di allerta delle forze nucleari alla movimentazione degli ordigni custoditi nei siti di stoccaggio per finire, dopo molti passaggi, all’impiego contro obiettivi militari di un singolo ordigno tattico, poi di molti, poi, nel peggiore degli scenari, di quelli strategici. Nonostante quello che Hollywood e la letteratura post-apocalittica ci presentano con dovizia di particolari, arrivare a uno scambio globale di missili balistici è una eventualità estremamente complessa, che nessuna delle parti ha realmente in animo di mettere in pratica.

Se però la Russia non intende usare davvero il suo arsenale nucleare, come conferma anche l’articolo del Washington Post del 22 settembre (LINK 7), chi sostiene che è possibile qualsiasi escalation sotto il limite del rischio esistenziale sembrerebbe trovarsi nel giusto, perché le parole di Putin o di Lavrov sarebbero davvero minacce vuote: e avrebbero pienamente ragione se la risposta russa fosse affidata solo al nucleare. Questi due anni e mezzo di conflitto, però, ci hanno messo di fronte a una serie continua di escalation e contro-escalation russe, poco percepite perché o dirette esclusivamente contro l’Ucraina o in teatri diversi, ma comunque lontani dall’Europa o dagli Stati Uniti e senza nessun confronto aperto contro di essi. Partiamo dal teatro ucraino, che è quello dove le conseguenze sono più dolorose. Dal punto di visto politico, è innegabile come le pretese territoriali russe siano aumentate a dismisura passando dal ‟semplice” possesso della Crimea e dall’autonomia del Donbas all’interno dell’Ucraina alla situazione attuale, che prevede il possesso della Crimea, delle due regioni del Donbas, delle oblast’ di Cherson e Zaporižja (inclusa la centrale nucleare di Enerhodar) e di una ‟fascia di sicurezza” di estensione indefinita nelle regioni di Kharkiv e Sumy. Anche gli attacchi missilistici alle installazioni energetiche ucraine sono stati oggetto di una escalation notevole. Se i primi attacchi sono stati a lungo diretti contro le sottostazioni e i nodi periferici, riparabili in relativamente poco tempo, l’ultima campagna di bombardamenti si è concentrata invece sulle centrali idro e termoelettriche, la cui distruzione ha portato conseguenze ben più gravi e durature, che si manifesteranno anche dopo la conclusione del conflitto e che potranno essere risolte solo con investimenti molto ingenti di cui la Russia sicuramente non intenderà farsi carico. Al di fuori dell’Ucraina, poi, la Russia ha iniziato una serie di ‟partnership strategiche” con nemici dichiarati degli USA quali la Corea del Nord, con la quale è stato firmato un vero e proprio trattato di difesa militare reciproca, l’Iran, con il quale c’è un costante scambio di tecnologie belliche, e vari paesi dell’Africa centrale, dove la presenza militare russa si è sostituita, fortunatamente senza scontri diretti, a quella francese e statunitense. E questo senza contare il legame sempre più stretto con la Cina, che non fornisce armamenti alla Russia come fanno Corea del Nord e Iran ma è di importanza fondamentale per consentirle di bypassare le sanzioni che la priverebbero altrimenti della possibilità di approvvigionarsi delle componenti meccaniche e informatiche necessarie sia a proseguire il conflitto che a garantire ai propri cittadini limitazioni tutto sommato molto contenute nella vita quotidiana.

Sulla questione delle ‟linee rosse”, infine, andrebbe sempre ricordato che il conflitto è incominciato proprio perché la leadership russa riteneva che l’avvicinamento dell’Ucraina alla NATO, e soprattutto la sua accelerazione dal 2018 in poi, poteva costituire un pericolo per la sicurezza strategica del paese. Anche in quel caso l’Occidente ha sottovalutato accenni, richieste, minacce e tentativi di dialogo russi, immaginando che la Russia non volesse o non potesse impegnarsi in un conflitto militare, con i risultati drammatici che ben conosciamo. Per quanto anche la leadership russa abbia sottovalutato sia la volontà di resistenza dell’Ucraina che quella dell’Occidente di sostenerla, ha chiarito più volte che questo è un conflitto esistenziale dal quale non intende ritirarsi, e ha dato prova di poter rispondere con escalation anche asimmetriche alle escalation occidentali. Forse i tempi sono maturi perché escalation e sottovalutazioni vengano sostituite dal dialogo. L’alternativa non conviene a nessuno, soprattutto all’Ucraina.

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