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25/09/2024

Green Day (2004) American Idiot

Twenty years have gone so fast
Wake me up when September ends

È un anno di grandi celebrazioni, il 2024, per i Green Day. Compie infatti ben trent'anni "Dookie", per molti il capolavoro assoluto dei californiani, uno degli indiscutibili capisaldi del pop-punk, nonché uno dei dischi di genere più venduti della storia. Sono invece venti per questo "American Idiot", settimo disco del power trio, forse meno celebrato presso la critica dell'altro festeggiato, ma largamente responsabile dello status di classici ormai abbinato alla band di Billie Joe Armstrong nella memoria collettiva.

A confermare la caratura perlomeno analoga basterebbero già i dati di vendita dei due dischi, circa 15 milioni per "American Idiot" e circa 20 per "Dookie" - con il secondo avvantaggiato però non solo da ben dieci anni di permanenza sugli scaffali in più e dallo status di culto già all'epoca, ma anche da una data d'uscita in un periodo in cui il mercato discografico ancora non era in declino. In realtà, sotto diversi punti di vista, ad "American Idiot" si può attribuire una rilevanza addirittura maggiore.

I Green Day sono infatti una di quelle band "che vissero due volte". E con due vite non intendiamo semplicemente una durevolezza nel tempo, quella longevità e varietà creativa che ne hanno fatto senza ombra di dubbio la formazione più eminente dell'intero filone (non ce ne vogliano i guasconi Offspring e gli in fondo intramontabili Blink-182). Bensì la capacità di risultare davvero trans-generazionali, di segnare in egual modo almeno due schiere, distanti l'una dall'altra ben dieci anni, di giovani incavolati neri con società e classe politica. E di fare questo, per giunta, con due dischi di segno quasi opposto.

I Green Day di "Dookie" erano poco più che ventenni e utilizzavano talento melodico e riff punk per farsi beffe della classe agiata californiana, del capitalismo, dei politici e dello star system con irriverenza e simpatia, divertendosi come matti, senza mai prendersi troppo sul serio. Con la stessa attitudine, potremmo dire, delle scimmiette che sulla copertina del disco lanciano palle di merda sulla valley.

Dopo altri dischi di successo, tra i quali il mai troppo citato "Nimrod" e il già militante "Warning", con "American Idiot" tutto cambia. L'attitudine della band, i cui membri avevano ormai superato i trent'anni, muta radicalmente. Billie Joe, Mike e Tre continuano a vestire come dei punk, ma tra jeans scuri attillati, camicie nere, cravatte rosse, eyeliner nero marcato e cinturoni con le borchie, la loro sembra quasi un'uniforme. Lo stesso accadde ai palchi del mostruoso tour mondiale a supporto del lancio del disco: enormi bandiere rosse, loghi torreggianti su drappi neri degni di una campagna militare, con l'indimenticabile cuore a forma di granata della cover art a imperare ovunque.

Il nemico da combattere, l'idiota americano per antonomasia e simulacro di tutta l'inettitudine nazionale, è George W. Bush, che tra discrepanze sociali e guerre insensate (quella in Iraq su tutte) ha segnato il primo decennio del nuovo millennio. Bush Jr. diventò così il bersaglio diretto di invettive politiche e inni punk mai così diretti e pungenti. I soliti corsi e ricorsi storici fanno cadere il ventennale del disco, peraltro, proprio quando l'ombra del tycoon che ha esasperato le assurdità dell'era Bush incombe nuovamente sugli Stati Uniti e sugli equilibri democratici del mondo tutto.

Non fu però solo la carica politica a permettere al fuoco dei Green Day di attecchire presso una nuova generazione. In più c'erano la rinnovata estetica di cui sopra, che avvicinava la band all'emo-core da classifica tanto in sviluppo proprio in quegli anni (Fall Out Boy, My Chemical Romance, Paramore, Thirty Seconds To Mars, Taking Back Sunday, Panic! At The Disco), facendone un vero e proprio punto di riferimento per la scena. E un sound molto più ricco che in precedenza. I nuovi Green Day non si limitano a stoccate punk e ritornelli orecchiabili, pur rintuzzate di timbri acustici e astuzie power pop già nel precedente "Warning": con "American Idiot" il loro repertorio si amplia di ballate e lunghe suite dalle evoluzioni imprevedibili.

La storia raccontata da "American Idiot", quella di Jimmy, una sorta di messia della periferia ("Jesus Of Suburbia", per citare il titolo di uno dei brani più emblematici) che insegue il sogno della grande città per evadere dalla grettezza mentale dei suoi luoghi natii, fa assumere al disco i connotati di una rock opera vecchia maniera. E lo innalza, quindi, a ultimo grande titolo del genere (certo, anche solo in campo punk ci sarebbero i Fucked Up e il loro "David Comes To Life", ma i loro numeri sono ben lontani da quelli richiesti dalla memoria collettiva). Una sorta di "Quadrophenia" suburbano per millennial ormai orfani del "sogno americano" vissuto dai loro avi - e apprezzabile, in qualche caso, anche da questi ultimi. Si volesse affibbiare alle canzoni di "American Idiot" un'ulteriore etichetta, sarebbe ovviamente quella delle protest song: anche in questo caso si tratterebbe di una delle ultime grandi collezioni degli esemplari in questione.

Suite, ballad e calci nei denti

 E dire che la vicenda del settimo album dei Green Day era partita con in mente tutt'altro orizzonte. Il successore di "Warning" doveva infatti chiamarsi "Cigarettes And Valentines", ma quando nel novembre del 2002 i master delle venti canzoni registrate fino ad allora furono trafugati, la band decise di lasciar perdere il progetto e buttarsi su qualcosa di completamente nuovo. Il produttore Joe Cavallo, che ricordava una conversazione avuta con Billie Joe Armstrong un decennio prima, suggerì che potesse essere il momento giusto per una "punk-rock opera" che facesse da culmine all'"arco beatlesiano" della carriera del gruppo. E così Armstrong e soci si misero al lavoro - ma prima ancora all'ascolto: "Sgt. Pepper's" fu il modello ispiratore, ma a questo si aggiunsero rapidamente altri classici di poco successivi. "Ziggy Stardust", "Tommy", e soprattutto "Quadrophenia", che ben risuonava con le ambizioni del gruppo: un concept-album a base di chitarre fragorose e power chord, incentrato sull'ingresso nell'età adulta di un giovane scalmanato - figura ben rappresentata dal mod nella Gran Bretagna degli Who, ma chiaramente, nella California dei Green Day, meglio identificabile in un punk (termine che d'altra parte già figura proprio nel titolo di una delle tracce di "Quadrophenia"). Non bastasse quella già insita nei dischi citati, la smania di grandiosità del gruppo fu alimentata anche dalla riscoperta dei grandi rock musical della stessa epoca: "Jesus Christ Superstar" e "The Rocky Horror Picture Show", ma anche "Grease" e, tornando più indietro, la "West Side Story" di Bernstein e Sondheim.

L'inebriante visione concept non era ancora pienamente definita che già il suo primo frutto venne alla luce: una suite di quasi dieci minuti, ottenuta integrando frammenti di brani concepiti per "Cigarettes And Valentines" con nuovi spunti da trenta secondi l'uno o poco più. "Homecoming" oggi è posta pressoché in chiusura del disco, ma fu il nucleo attorno a cui l'intero progetto si condensò. Si apre con la morte di un personaggio chiave - quel St. Jimmy che si svela essere semplicemente l'alter ego più combattivo e strettamente punk del protagonista, Jesus Of Suburbia - e si conclude con la decisione di quest'ultimo di far ritorno a casa, cambiato per sempre dagli eventi del disco.

"Jesus Of Suburbia" arrivò poco dopo, ed è un'altra suite da nove minuti e rotti, ideata da Billie Joe Armstrong con l'obiettivo di realizzare "la Bohemian Rhapsody del futuro". Pochi accordi, quasi tutti nella tonalità più basilare del mondo (il Do maggiore), giusto un riffazzo con quinta diesis, e un cambio in Sol maggiore poco prima della fine: certo non uno sfoggio di perizia armonica. Né d'altra parte il focus sembra sui contorsionismi in tempi dispari: tranne un singolo passaggio in 3/4, il brano è interamente in 4/4. Ma le mutazioni ritmiche sono ovunque, e raramente passano venti secondi senza che non ci sia qualche variazione - anche estrema - della dinamica. In un ottovolante di power chord e pianoforte, chitarra acustica e scampanellii, le diverse sezioni del pezzo si rincorrono in una continua sfida al tema melodico più memorabile. Pubblicato come ultimo singolo estratto dall'album (il quinto), a differenza dei precedenti il pezzo non entrò nella classifica statunitense - impresa quasi impossibile per un brano di quella durata - ma riuscì a infilarsi in quelle europee, raggiungendo ad esempio il diciassettesimo posto nella chart britannica, restando in lista per quattro settimane.

Migliori le sorti degli altri quattro singoli, due dei quali divennero sostanziali instant classic. "Boulevard Of Broken Dreams" e "Wake Me Up When September Ends" sono le ballad che bissarono il successo di "Good Riddance (Time Of Your Life)", evergreen del 1997 estratto da "Nimrod" e da allora diventato un cavallo di battaglia per ogni chitarrista da spiaggia (che abbia appreso o meno il barré). La prima, subissata da accuse di plagio verso i fratelli Gallagher (indotte soprattutto dagli ascolti del mash-up "Boulevard Of Broken Songs" realizzato dal Dj Party Ben), ha sì sostanzialmente lo stesso giro di "Wonderwall" e un Bpm molto vicino, ma gioca su una maestosità risoluta che è assente nel pezzo degli Oasis, e - oltre che un'intro almeno altrettanto riconoscibile - può vantare una dinamica decisamente maggiore, fra strofa, ritornello, assolo e coda. Si tratta peraltro di un brano estremamente immaginifico, capace, grazie agli effetti sulla chitarra e all'andamento lento della batteria, di disegnare una boulevard infestata da vento, sabbia e sogni infranti, sperduta in un qualche anfratto polveroso degli Stati Uniti.

"Wake Me Up When September Ends", invece, fu accompagnata da un lungo video, una sorta di mini-film che sfrutta le distanze temporali implicite nel testo per raccontare una dolorosa storia d'amore, interrotta dalla partenza volontaria per la guerra in Iraq. Nella sequenza di lacrime e liti che interrompe la canzone, le parole del futuro soldato: "L'ho fatto per noi! [...] Pensavo saresti stata orgogliosa di me. Che fra tutte le persone almeno tu avresti capito perché lo sto facendo". Un'introspezione che aggiunge un elemento sociale a quello politico e amplifica il carattere già di per sé tormentato del pezzo, giocato su un'epica nostalgia che risuona con un mood emo e carica la sua intensità con una delle svariate volponate beatlesiane disseminate per il disco - in questo caso, una cadenza plagale minore a fine ritornello, che piazzando un accordo minore fuori tonalità (iv) nel mezzo di una classica conclusione IV-I "differisce" la risoluzione armonica e colora con un'ulteriore nota languida e dolente proprio il verso clou, quello con il titolo del brano.

Secondo posto e sesto posto nelle classifiche statunitensi, i due pezzi non furono eguagliati dalle più ruspanti "American Idiot" e "Holiday", che si piazzarono al sessantunesimo e al diciannovesimo posto rispettivamente, ma andarono bene in numerose chart europee (in Italia la title track arrivò al tredicesimo posto: il migliore risultato a oggi per la band, se si esclude l'exploit al primo posto di "The Saints Are Coming" nel 2006, in coppia con gli U2). La prima è il pezzo di apertura, il singolo di lancio e l'inno politico del disco: un tirato combat-punk figlio diretto dei Clash (giusto a inizio 2004 i Green Day avevano inciso una cover di "I Fought The Law") e pieno zeppo di stop 'n' go, che inveisce contro piaghe informative inaspritesi a dismisura nei vent'anni che separano l'era Bush da oggi:

Don't wanna be an American idiot
One nation controlled by the media
Information age of hysteria
It's calling out to idiot America
In fatto di veemenza politica, "Holiday" non fa che rincarare la dose, inscenando la quotidianità di chi, rimasto negli Stati Uniti, riceve notizie dal fronte iracheno sotto forma di vuote bugie, soldi sporchi, bare e bandiere. Di affondi ce ne sono per tutti, dai Democratici che sostengono la guerra per il ritorno economico del proprio partito ai cittadini comuni la cui apatia riguardo al conflitto è messa alla berlina come la "vacanza" di cui il titolo. Ma è particolarmente incisivo l'attacco della strofa centrale, cantato senza chitarre e rivolto direttamente al presidente Bush:
Sieg Heil to the President Gasman
Bombs away is your punishment
Pulverize the Eiffel Towers
Who criticize your government
Bang-bang goes the broken glass, and
Kill all the fags that don't agree

Con accordi squillanti e un piglio decisamente punk-rock, "Holiday" è anche l'occasione per narrare l'arrivo in città del protagonista Jesus Of Suburbia, che ha lasciato la sua misera vita di periferia nella traccia precedente e vede ora l'opportunità di abbandonare l'approccio passivo e autolesionista che finora lo aveva caratterizzato, rifiutando le idee preconfezionate, conoscendo nuove persone e battendosi per loro.

Le deep album tracks - le altre canzoni del disco, non uscite come singoli - sono quelle che esplorano maggiormente la cornice narrativa dell'album e contribuiscono al senso di coesione che è necessario per l'efficacia come rock opera. Abbinate in modo da fluire l'una nell'altra, le tracce ruotano attorno a un terzetto di personaggi: Jesus Of Suburbia e il suo alter ego St. Jimmy, più la combattiva Whatsername, che è attratta da St. Jimmy e affascina il protagonista con la sua determinazione.

L'infilata "Are We The Waiting"/"St. Jimmy" è fra le più contrastanti del disco: la prima, come suggerito dal titolo, mette in scena un'attesa, corrispondente ai dubbi di Jesus Of Suburbia sulle sue scelte, che lo rendono fiero ma solo; la seconda rappresenta invece l'irruzione nella storia di St. Jimmy, la cui personalità accesa si farà via via più dominante su quella del protagonista. Metà buona del carattere di "Are We The Waiting" è dato dalla figura di batteria che apre il brano e ne regge l'intera costruzione: un pattern diradato ma roboante, in cui la parte del leone è giocata dai tom e l'accento forte sul rullante cade fra il secondo e il terzo quarto, entrambi fatti rari in un ambito come il punk, dove tutto si gioca in genere su beat in-your-face tutti cassa-rullante, accentati sul terzo colpo.

A correggere il tiro provvede comunque "St. Jimmy", che spezza d'improvviso la stagnazione con un assalto skatepunkche si riallaccia dritto alla prima epoca della band. Come il suo ingresso, il volto di St. Jimmy è sfrontato e travolgente: è il messia della rivolta e del nichilismo che da solo Jesus Of Suburbia non riesce a essere, "Il santo patrono del rifiuto, con la faccia d'angelo e un gusto per il suicidio".

My name is Jimmy and you better not wear it out
Suicide commando that your mama talked about
King of the Forty Thieves and I'm here to represent
The needle in the vein of the establishment

Il piglio radioso e folkeggiante della strofa di "Give Me Novacaine" non deve trarre in inganno: l'arrivo del fragoroso ritornello chiarisce che la canzone è giocata sul contrasto, con Jesus Of Suburbia che cerca sollievo dai propri malesseri e St. Jimmy che offre "novacaina", droga di fantasia che ricorda il nome commerciale di un anestetico locale (la novocaina, o procaina) ma nella descrizione data dal testo ha effetti decisamente più dirompenti.

Ancora più impetuosa è la successiva "She's A Rebel", punk-rock scalpitante (con ritornello power pop e annesse astuzie armoniche) che presenta il personaggio di Whatsername e trova una collocazione per il cuore/bomba a mano della copertina:

She's a symbol of resistance
And she's holdin' on my heart like a hand grenade
[...]
She sings the revolution
The dawning of our lives
She brings this liberation
That I just can't define
Well, nothin' comes to mind

Personaggio altrettanto battagliero, ma più idealista di St. Jimmy, Whatsername possiede comunque le sue contraddizioni e fragilità, che emergono in "Extraordinary Girl", numero fra i più eclettici nel contesto del disco. Aperta da un'intro di tabla a cura di Tré Cool, la canzone sfocia presto in una strofa orientaleggiante dal gusto sixties (merito, per entrambi gli aspetti, di scambi ben giocati tra accordi di Re maggiore e Re minore) e in un ritornello reso sgargiante da un cambio di tonalità - almeno fino al verso finale, dove il Re minore fa la sua ricomparsa e torna a velare l'umore del pezzo.

La transizione con "Letterbomb" è più delicata del consueto, con un fuori campo della Riot Grrrl Kathleen Hanna (Bikini Kill, Le Tigre) nel ruolo di Whatsername. Il pezzo, come da titolo, è tuttavia fra i più esplosivi del disco. Con sullo sfondo la fine della relazione fra Whatsername e Jesus Of Suburbia/St. Jimmy, il testo rivolge una raffica di accuse al protagonista e alle sue ipocrisie - accuse facilmente reinterpetabili come critiche non solo al personaggio fittizio, ma in generale agli autoproclamati profeti della rivoluzione che, non in grado di tramutare in azioni concrete le proprie denunce, finiscono per alimentare soltanto il proprio ego. Musicalmente parlando, la canzone adatta a un suono punk-rock muscolare un'elegante costruzione power pop con strofa, pre-chorus, ritornello, ponte e assolo e tanto di outro, speziando la coda del ritornello con un'inattesa quinta diesis e dando occasione a Tré Cool di tuonare ancora un po' coi tom dalle parti del bridge. Per quanto distruttiva fino a sfociare nell'incendiario, la canzone trova lascia comunque uno spiraglio aperto alla speranza:

It's not over 'til you're underground
It's not over before it's too late
This city's burnin', it's not my burden
It's not over before it's too late

Tornato a casa, chiusi i conti con il suo doppio riottoso ed egomaniaco, il protagonista apre un nuovo capitolo - quello della costruzione, delle responsabilità, dell'età adulta. Nella conclusiva "Whatsername" Jesus Of Suburbia torna a ricordare la ragazza che lo aveva ispirato e fatto innamorare, scoprendo di non ricordarne più il nome. Il brano, che sulle piattaforme di streaming si contende il primato come non-singolo più amato dagli ascoltatori fra quelli appartenenti all'album, parte riflessivo con un tempo moderato e accordi spenti dal palm mute. Ma strofa dopo strofa articola un crescendo che, passando per pensosi ghirigori chitarristici a un passo dal Midwest emo, giunge al pienissimo con tanto di stratificazioni strumentali e bridge corale.

Rivoluzione ad alto volume: dalla ribellione al mito

 Pubblicato nel pieno della Loudness War, che vedeva musicisti, produttori e case discografiche legati al rock mainstream sfidarsi, uscita dopo uscita, a chi fosse in grado di incidere con i volumi più alti e compressi, "American Idiot" è stato accusato dagli audiofili di aver penalizzato fortemente la gamma dinamica in nome di un sound eccessivamente carico. Il pubblico ordinario non sembra essersene rammaricato particolarmente, e ha premiato l'album con tre settimane al primo posto nella classifica statunitense (due in quella britannica), 143 settimane nella top 200, un tour mondiale da 167 date - il più lungo di sempre per la band. Grazie alla sua ambizione e, in parte, ai suoi programmatici richiami classic rock, il disco riuscì non solo a conquistare buona parte dei fan storici (quelli che non storsero il naso per la percepita virata "commerciale") e, come già visto, una nuova platea di giovani che stavano proprio in quegli anni affacciandosi alle sonorità emo-pop: trasmesso su radio di rock vecchia scuola che ne proponevano i singoli accanto a blasonati successi dei tempi che furono, "American Idiot" arrivò alle orecchie anche di molti appassionati più agé, ben lieti che questo gruppo di non-più-così-ragazzini avesse la grinta necessaria per inserirsi in continuità con artisti ormai divenuti mitologici.

Unire non una, ma due, tre, forse anche più generazioni è un'impresa rara, che pochissimi album rock successivi al 2000 hanno saputo compiere. Elevando la sua rabbia post-11 settembre a grido universale che attraversa epoche diverse, "American Idiot" è riuscito nell'impresa. Trasformandosi, con il passare del tempo, in un classico contemporaneo che non invecchia ma si evolve, arricchendosi anno dopo anno delle inquietudini e dei sogni di chi lo incontra.

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